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Che cosa succede se Gemitaiz e MadMan suonano in un carcere minorile?

Siamo stati al live organizzato nell'Istituto Minorile Cesare Beccaria: tra una citazione a Otello e un'atmosfera difficile da descrivere, abbiamo capito perché il rap può essere uno spazio di espressione artistica per i detenuti

La maggior parte dei cittadini italiani non ha mai avuto a che fare con il sistema giudiziario, né tantomeno con misure di restrizione della libertà personale. È evidente, quindi, che la nostra idea del carcere è irrimediabilmente mediata dagli stereotipi che ci arrivano da film, serie tv, telegiornali e documentari, non avendo esperienze dirette. Forse anche per questo varcare per la prima volta la soglia dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria di Milano, dove sono reclusi i ragazzi che hanno compiuto dei reati quando avevano dai quattordici ai diciotto anni, è un pugno nello stomaco difficile da spiegare a parole.

L’occasione è speciale: Tanta Roba, una delle etichette più blasonate e attive in ambito rap, ha organizzato uno speciale concerto di Gemitaiz e MadMan per i giovanissimi detenuti. Un regalo di Natale particolarmente significativo, fortemente voluto dalla label, che nei mesi scorsi ha stretto un rapporto di collaborazione e solidarietà con Suoni Sonori e 232, due associazioni che organizzano laboratori musicali all’interno della struttura, dopo che lo stesso Gemitaiz era stato intervistato dai ragazzi per Beccati, un video format prodotto tra le mura dell’istituto.

L’impatto iniziale con il carcere Beccaria è bizzarro e straniante. Da una parte, il contesto sembra molto più normale di quello che ci si immaginerebbe: gli agenti della polizia penitenziaria hanno un’età abbastanza vicina a quella dei suoi ospiti, e non sono in divisa (una scelta che serve per preservare una parvenza di normalità e minimizzare la distanza tra i detenuti adolescenti e le guardie, come spiegheranno gli educatori). Anche il teatro in cui si svolge il concerto è in tutto e per tutto simile a quelli che siamo abituati a frequentare, tant’è che è spesso aperto al pubblico per spettacoli ed eventi, un caso unico in Europa. Dall’altro lato, però, la situazione ha tutte le caratteristiche di un costante stato di allerta: nonostante si tratti di un concerto rap aperto anche alla stampa e di un momento di svago, i ragazzi sono raggruppati in un settore, seduti in posti a loro assegnati e sorvegliati a vista; gli ingressi sono tutti presidiati; le luci in sala sono accese, in modo che nulla sfugga al controllo. L’altra nota stonata è che la maggior parte di loro sono di origine straniera. “Sia chiaro, non è che i ragazzini italiani non delinquano, o che i ragazzini di origine straniera delinquano di più” specifica Gianluca Messina di Suoni Sonori, associazione attiva fin dal 2000.

“Semplicemente, spesso per chi è figlio di immigrati non c’è un contesto adatto per poter usufruire delle pene alternative al carcere. Magari non hanno una situazione familiare stabile, oppure hanno problemi psichici, o ancora non hanno fissa dimora perché sono arrivati qui da soli”. La maggior parte dei detenuti non ha compiuto reati violenti, ma piccolo spaccio, scippi, rapine, spesso per poche decine di euro. La cosa più assurda è che quando Fabrizio Bruno, il promotore di 232 che funge da presentatore e maestro di cerimonia, chiede quanti di loro siano mai stati a un concerto prima, quasi nessuno alza la mano. “Tante cose che noi diamo per scontate per un adolescente, loro non le hanno mai fatte. Al di là dei crimini di cui si sono macchiati, sono ragazzi che vengono da contesti difficili, deprivati di tantissime cose”, ci spiega.

Prima che dei carichissimi Gem e Mad salgano sul palco, apre le danze El Diamantik, uno dei ragazzi più talentuosi e motivati tra quelli che prendono parte al laboratorio di rap, che in uno dei brani ripropone in chiave contemporanea l’archetipo di Otello e Desdemona, dimostrando ancora una volta che gli stereotipi (come ad esempio quello del ragazzino delinquente, ignorante e fan della trap) esistono solo nella nostra testa. Prima che scoppiasse la mania per il rap, racconta Gianluca, i laboratori erano incentrati in generale sulla musica d’insieme e le band, con una particolare passione per la musica neomelodica, data la provenienza geografica della maggior parte degli ospiti dell’epoca del Beccaria. Il laboratorio focalizzato sull’hip hop è nato nel 2010 grazie all’incontro con Fabrizio, che ai tempi svolgeva un tirocinio in carcere con l’università: “Ero un rapper, e ho cominciato a insegnare quello che sapevo fare meglio, cioè le rime” spiega. “Il successo è stato immediato, perché a differenza degli strumenti veri e propri era qualcosa che i ragazzi potevano portare in cella con loro, per scrivere i loro pensieri”. Il nome stesso dell’associazione, 232, è quello dell’interno telefonico della sala in cui si svolge il laboratorio di rap: “Tecnicamente avevamo un’ora di tempo per svolgere le nostre attività, ma eravamo sempre talmente presi e concentrati che ogni volta dovevano telefonarci per avvertirci che avevamo sforato di parecchio” ride Fabrizio. “È stato allora che abbiamo deciso di battezzarci così”.

I detenuti passano la maggior parte della giornata tra studio e avviamento al lavoro, racconta Gianluca, ma dopo un’iniziale resistenza nei confronti delle attività più “ludiche”, da qualche anno finalmente la direzione dell’istituto si è convinta a investire anche in musica e cultura. “Il laboratorio di rap, in particolare, è utilissimo, perché spesso nei testi i ragazzi abbassano a tal punto le loro difese da scrivere cose che non raccontano neppure allo psicologo del carcere. Regaliamo dei sogni, delle prospettive, che li aiutino a superare un’esperienza difficile come l’adolescenza dietro le sbarre” dice Gianluca. “E in più si crea un gruppo di lavoro di cui si sentono parte: in un contesto come questo, dove l’isolamento regna sovrano, è importantissimo” sottolinea Fabrizio. Anche il fatto che i testi rap abbiano un linguaggio e dei contenuti forti è un problema superato, ormai: “Il laboratorio di rap è ormai considerato da tutti, sia dai detenuti che dalla direzione, come uno spazio di libertà ed espressione artistica, anche perché è un genere musicale che ha sempre rappresentato la voce degli oppressi” afferma Fabrizio. “Nei tuoi testi te la prendi con la polizia, o parli di soldi e droga? Puoi farlo, ma a patto di ragionare tutti insieme sul perché hai scelto di parlare proprio di questo, tra tutti gli argomenti possibili”. È anche una sorta di valvola di sfogo, che aiuta a incanalare tutte le frustrazioni della reclusione in una strofa, piuttosto che in un’azione concreta.

E a proposito di azioni concrete, Tanta Roba Label ha appena lanciato una campagna di crowdfounding per donare ai laboratori di musica del carcere Beccaria della strumentazione professionale per poter registrare, creare e suonare nuovi brani: è possibile aderire alla raccolta fondi fino al 27 dicembre. Un piccolo, ma graditissimo contributo accessibile a tutti noi, che abbiamo la fortuna di festeggiare (o non festeggiare) il Natale nella più completa libertà.

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