Cerchi il rock italiano? Vai a sentire gli Uzeda «e tanti saluti ai Måneskin» | Rolling Stone Italia
Che Dio li benedica

Cerchi il rock italiano? Vai a sentire gli Uzeda «e tanti saluti ai Måneskin»

Parola di Pierpaolo Capovilla che ci racconta l’ultimo concerto della band catanese a Mestre, per tornare a professare la più bella delle religioni, quella del diavolo: la musica rock

Cerchi il rock italiano? Vai a sentire gli Uzeda «e tanti saluti ai Måneskin»

Gli Uzeda live a Mestre

Foto: press

Rivedere, riascoltare, e incontrare nuovamente, dopo anni, gli amici, i fratelli e correligionari degli Uzeda, è stata un’esperienza indimenticabile. Una banda di “diversamente giovani” – questa volta il neologismo funziona come non mai! – ancora professanti la più bella delle religioni, quella del diavolo, la musica rock. Mi riferisco a quel buon diavolo che abbiamo dentro tutte e tutti noi, che amiamo il rock, ce l’abbiamo dentro, si è intrufolato, sornione e furbissimo, come un Lucignolo, per portarci verso quel paese dei balocchi che si chiama “concerto rock”. Che Dio ti benedica, diavolaccio amorevole. Il concerto era a Mestre, presso You Theater, il 17 ottobre, ed io, che tornavo da una lunga serie di impegni legati al film Le città di pianura, stanco morto, e con il piede destro infortunato a causa di un’assurda ustione, non potevo e non volevo mancare. Ho fatto bene!

E certo, provavo e provo sempre una grande nostalgia per i meravigliosi anni ’90 del secolo scorso, perché furono gli anni della mia crescita musicale, politica e morale, e non li trascorsi invano, proprio grazie a gruppi come Uzeda, nei quali scorgevo quell’onestà intellettuale, quella dirittura artistica che ancora, mi auguro, mi accompagna nella vita. Erano gli anni della Touch & Go Records, degli Scratch Acid, dei Jesus Lizard, dei Rapeman, degli Shellac, degli Uzeda, appunto.

Voglio esser franco, perché abbiamo tutti bisogno di un po’ di franchezza nella vita: ero invidioso, cazzarola, invidioso! Agostino e Giovanna se ne accorsero, quando i loro concerti si incrociavano – e che incroci! – con quelli di One Dimensional Man. La mia era però un’invidia nient’affatto virulenta, ma piena di ammirazione, un’ammirazione mista a una certa incredulità. Questi siciliani venivano registrati dal più ambìto dei produttori dell’epoca, quel Steve Albini che c’ha cambiato il nostro stesso modo di interpretare il rock, e con esso, la vita. C’era, in quel modus vivendi, in quella postura artistica, qualcosa che mi affascinava, mi attraeva, e si impadroniva di me, di noi: guardate, ascoltate, ammirate. Possiamo fare della gran bella musica senza inseguire il consenso, senza cercare il successo, perché consenso e successo arrivano anche senza doversi inchinare alle regole del mercato discografico. Suonavamo il rock più radicale e massimalista di sempre, e lo facevamo con una convinzione, una fede, un desiderio di stupire e stupirci, “vocazionale”. Eravamo tutte e tutti sacerdoti di una religione nuova, laica, speranzosa: volevamo cambiare il mondo, altroché!

Foto: press

Non c’erano i talent – che Dio li maledica –, non c’era, neanche un po’, alcun individualismo o competizione fine a se stessa, perché ci sentivamo tutte e tutti parte di un movimento culturale, ed era ciò che per noi contava di più. Musica del Popolo, con il Popolo, e per il Popolo. L’esatto contrario della spazzatura che ci fa mangiare l’arrivismo e l’arrampicamento sociale di un X Factor, o chi per esso, che nutre i nostri giovani dell’edonismo e dell’egotismo più inutile e diseducativo di sempre. Com’è cambiato il mondo, com’è cambiato il nostro Paese, come siamo cambiati noi, tutte e tutti.

Qualche anno fa, a Bassano del Grappa, fui invitato a pranzo da Carlo Casale, il fu cantante dei Frigidaire Tango, band new wave di un certo respiro alla fine degli ’80, che mi disse, fra un bicchiere e l’altro, quanto detestasse gli smartphone e, di digressione in digressione, gli venne questa massima meravigliosa: al tempo facevamo a gara ad essere diversi dagli altri, ma ci sentivamo tutti membri di un’unica comunità che desiderava e pretendeva buona musica, tutte e tutti accomunati dalla “scena”, della quale andavamo fieri. Oggi… è tutto il contrario! Tutti a fare la stessa cosa, in competizione con tutti. Che tristezza.

Un marxista direbbe: è la sussunzione capitalistica, bellezza! Il Capitale “sussume” il lavoro, facendoti credere di essere libero, con il tuo salario, mentre invece sei diventato definitivamente schiavo, del lavoro e del feticismo delle merci. Ecco, forse è proprio questo che si è verificato, e si verifica: il Capitale sussume non soltanto la nostra condizione lavorativa, ma anche i nostri desideri, le nostre speranze, le nostre ambizioni, la musica, le canzoni… Ma che cos’è la musica? Un modo come un altro per diventare ricchi e famosi? Manco fossimo degli imprenditori del Nord-Est, quelli che al ristorante ordinano le bottiglie più costose, senza nemmeno capire cosa bevono. E perché? Perdonate la digressione – è più forte di me! – e veniamo al concerto, il concerto degli Uzeda.

This Heat, dall’album Stella, apre il concerto. Giro di basso eseguito da Vincenzo, nuovo membro del collettivo: ripetitivo, performativamente puntualissimo, sempre uguale a se stesso, come è la vita che trascorriamo, senza nemmeno accorgercene, con le emozioni, gli spaventi, le incongruenze così ben manifestantesi nel drumming di Davide, nervosissimo, altero e improvviso, e Agostino, dalla chitarra inconfondibile, e dalle lamentazioni di Giovanna, che possiede la voce di sempre, perché è lei, è proprio lei! Crescono i brividi. A seguire Gold, canzone nevrotica, psicotica, piena zeppa di un desiderio insopprimibile di rivendicazione. Davide è in formissima! E poi, senza soluzione di continuità, le tremende Red – lenta e gentile, in realtà –, Mistakes, Soap, un paradiso noise in cui riconoscersi, ricordarsi chi eravamo, e chi ancora siamo. Arriva Deep Blue Sea, con quel refrain di chitarra che ti affabula, ti seduce, ti porta con sé. Mamma mia! E che dire di Deep Blue Sea … siamo tutti senza parole.

Arriva Stomp, e tanti saluti ai Måneskin, che neanche sanno cos’è il rock. Perché il rock non è un capezzolo succhiato da uno sconosciuto, non è eros esibito, il rock non lo fai negli studios di Los Angeles, lo fai a Catania. E con quale soddisfazione! Montalbano, Preacher’s Tale… Evvai… una goduria noise!

Foto: press

Giovanna saluta il pubblico con un motto di speranza. Arrivano i bis… Times Below Zero e Sleep Deeper chiudono una performance bella, giusta – perché ciò che è bello è ineludibilmente anche giusto – e che ci lascia tutti e tutte con una convinzione antica e nuova: gli Uzeda erano e sono una band imprescindibile del nostro, perché è nostro, panorama musicale. Long Live Rock’n’Roll! Dopo il concerto, in camerino, io e Federico, bassista de I Cattivi Maestri, saccheggiamo tutto quel che c’è di alcolico, giusto per non farci riconoscere! Gli Uzeda sono gente del Sud, non bevono come noi veneti…

E sono sorrisi, e abbracci, e voglia di stare insieme, evviva la vita! Discutiamo, io e Agostino, pour parler, ma facciamo sul serio. Io sono sempre più incazzato, incazzato nero 24 ore su 24, per la Palestina, innanzitutto, per la violenza armata, perché il momento storico è fatto di quella reiterazione perigliosa che vuol dire armi, eserciti, prontezza bellica, mistificazioni ideologiche, razzismo, indifferenza per la povera gente, disconoscimento del futuro. Agostino mi invita alla calma, e mi sussurra, sibillino… «ti stai forse arrendendo?». Pensa alla musica, Pierpaolo, pensa alla musica, che è quanto di più prezioso abbiamo imparato a fare. Forse hai ragione tu, Agostino, mio fratello maggiore. Mi sto lasciando avvelenare. Quanto è bella la vita, quanto è bello ritrovarsi, quant’è bella la pace, e fanculo alle guerre, tutte, una volta per tutte. La buona musica è questa cosa qui: è la Pace, nascosta dentro i nostri, perché sono nostri, ritmi inesorabili.

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