La prima impressione, alla fine del weekend inaugurale della Biennale Musica di Venezia, è che sia l’impresa migliore del governo di centro destra: la battuta un po’ LOL che girava tra le calli è «ha fatto anche cose buone, una, questa». Perché la scelta di Caterina Barbieri, regina dei droni e nome tra i più hype della musica elettronica, come direttrice artistica della rassegna, è stata tanto coraggiosa e innovativa quanto furba e vincente. Merito anche di Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale di destra, scrittore con un passato da opinionista tv e ora Presidente della Biennale, ma soprattutto uomo di mondo, che ha intercettato l’unico modo per rivitalizzare un Festival Internazionale di Musica, legato a una classica contemporanea un po’ accademica e con poco appeal, era quello di immergerlo nelle acque delle club culture, senza rompere in maniera traumatica con la tradizione (non è un caso che Caterina Barbieri abbia studiato al Conservatorio) ma trasformandolo in un rave da camera, raffinato e colto.
Certo non aspettatevi, negli appuntamenti a seguire nel mese di ottobre, un’orda di ragazzetti in tenuta gorpcore che si dimenano sotto cassa; il pubblico delle serate inaugurali aveva giacche stravaganti da vernissage o divise nere da artista contemporaneo, c’erano galleristi, curatori, molti capelli bianchi, a testimoniare un riuscito flusso di pubblico tra la Biennale Arte e quella Musica, mondi che negli ultimi anni interagiscono sempre più spesso. La stessa Caterina Barbieri l’hanno scorso aveva composto, insieme alla collega Kali Malone, le musiche per l’installazione di Massimo Bertolini nel Padiglione Italia curato da Luca Cerizza. In comune c’è anche l’idea di performance, proposta all’apertura di sabato scorso: un corteo musicale d’acqua, i famosi barchini veneziani che attraversano il ponte tra la Laguna e le sponde del lago Titicaca, culla della cultura andina Aymara a cui si ispira l’artista Chuquimamani-Condori, già nota al pubblico come Elysia Crampton e premiata quest’anno con il Leone d’Argento.
È una cerimonia d’acqua, laica e psichedelica come i loop che escono dalle casse delle imbarcazioni, che finisce su un palco all’aperto con l’esibizione dei Los Thuthanaka, il duo composto dall’artista e dal fratello Joshua Chuquimia Crampton: folk latino, synth, glitch che mandano il pubblico in uno stato di rumorosa e divertita trance, condita dagli immancabili spritz (del resto il concept di questa edizione si intitola “La Stella Dentro”, più o meno volontario acronimo di LSD). Chuquimamani-Condori è un artista queer e anticolonialista, quelli al governo direbbero di sinistra, e le motivazioni del premio che riceve sono altrettanto politiche: «Un ringraziamento sincero alla direttrice artistica Caterina Barbieri, la cui visione ha portato la nostra medicina attraverso il mondo sorvegliato».
Visualizza questo post su Instagram
Già, le medicine, quasi tutte senza partitura – a parte una performance un po’ pretenziosa per pianoforte e percussioni del mammasantissima dei disintegration loops William Basinski – vengono dispensate con cura al Teatro alle Tese dell’Arsenale: tra tutto spiccano il sassofono di Bendik Giske che, grazie alla sua tecnica della respirazione circolare costituisce quello che un pignolo critico definerebbe un mantra sonoro, e la techno scomposta del fine teorico DeForrest Brown Jr., musicista, scrittore e agitatore del movimento Make Techno Black Again.
Un ottimo inizio di Biennale, aspettando i grandi nomi Fennesz, Meredith Monk (alla quale verrà assegnato il Leone d’oro di quest’anno), Actress, Suzanne Ciani, Moritz von Oswald e Carl Craig. Forse l’unico neo nella programmazione è l’aver lasciato troppo spazio ai mostri sacri di un mondo, quello dell’elettronica, relativamente giovane, ma che proprio nell’irriverenza punk e politica dei tanti giovani Chuquimamani-Condori trova il punto di caduta più interessante. Ma l’importanza è che la strada sia stata aperta, Caterina Barbieri ha trasformato la Biennale, e lo ha fatto bene.














