Brunori Sas, ovvero come fare il Circo Massimo in punta di piedi | Rolling Stone Italia
«Che fatica stare in piedi»

Brunori Sas, ovvero come fare il Circo Massimo in punta di piedi

Ieri sera a Roma un’orchestra ha accompagnato uno che interpreta canzoni come si stendono i panni: con cura e umiltà domestica. Malinconia cantata e autoironia parlata: il racconto del concerto

Brunori Sas, ovvero come fare il Circo Massimo in punta di piedi

Brunori Sas

Foto: Roberto Panucci

Perfino la sera in cui avrebbe cantato a Roma accompagnato per la prima volta da un’orchestra Brunori è rimasto talmente Brunori che non si è concesso neppure il lusso di far chiudere più strade del dovuto intorno al Circo Massimo. Davanti alla Bocca della Verità le macchine andavano piano ma andavano, i motorini passavano in apnea tra i turisti vestiti da sci-alpinisti per l’acquazzone appena finito e nessuno – tranne, ovviamente, i brunoriani – sembrava sapere che a pochi metri, in un’enorme conca di pietra e fango, un uomo di Cosenza stava per cantare i suoi dubbi esistenziali davanti a tre sezioni di archi, legni e ottoni e al suo popolo in festa. Anche la burocrazia capitolina, in sostanza, aveva capito che Brunori non è uno da posti di blocco, ma da monumenti interiori. La sua lingua tagliente gli farà dire, all’ennesima ovazione: «Occhio che ho una certa tendenza alla tirannide. Ma sarei comunque un tiranno più illuminato di tanti colleghi che mi ritroverei».

La verità è che Dario è salito sul palco del Circo Massimo in punta di piedi, come si entra nelle case d’altri, chiedendo permesso e portandosi dietro solo quello che conta: ciò che resta dopo. Non l’evento, ma l’eco. Non la posa, ma la crepa. Non il successo, ma la possibilità di condividerlo senza imbarazzo. L’emozione che ti sorprende mentre lavi i piatti, la vertigine del dubbio detta con parole semplici, l’ironia che salva dalla disperazione e la tenerezza che sopravvive alla disillusione. L’arte di dare del tu alla malinconia. La canzone che ti viene a cercare quando non hai più voglia di ascoltare niente. Restare umano, in mezzo a tutta questa messa in scena.

Il pubblico è tutto seduto, composto, ordinato. «La situazione brunoriana per eccellenza. Che fatica stare in piedi», scherza il suo beniamino, dal palco, e la platea si scioglie con quel tipo di complicità che solo chi ha le ginocchia stanche e il cuore affaticato può davvero comprendere. In fondo, i più brunoriani di tutti forse non sono quelli nelle prime file della platea ma quelli, lassù, in una delle poche tribune semivuote, distanziati tra loro come in un flashback da pandemia, con le gambe accavallate e lo sguardo da spettatori coinvolti ma non travolti. Gente che sa godersi un bel concerto come si gode un buon rimorso.

I brunoriani, a differenza degli zoccoli duri di altri cantautori odierni – tra le cui fila trovi il quarantenne con la tote bag che disprezza i ventenni, il ventenne che disprezza i quarantenni e il cinquantenne che disprezza tutti – sono apparentemente composti da un’unica persona: laurea in qualcosa di umanistico per fare poi tutt’altro, relazioni civilmente stabili ma emotivamente precarie, ascolti da Battiato ai Phoenix, letto da rifare e analisi da prenotare. Conoscono il significato di “apolide” e il prezzo di uno Spritz fatto male. Ridono se Brunori dice “sessotantrico” ma poi si struggono per Diego e io come se lui stesse parlando esattamente di loro. E in effetti sta parlando esattamente di loro.

Foto: Roberto Panucci

Tra le prime file spunta un cartello: “Sposerò Dario Brunori”, scritto nello stampatello sicuro di chi ha fatto le scuole medie ai tempi della Smemoranda. È una dichiarazione d’amore o una minaccia legale? Non si sa. L’autrice ha l’età giusta per sapere che i matrimoni non si fanno più per convenienza, ma per condivisione playlist. E in effetti sposare Brunori non sembra una fantasia così estrema: uno che cucina bene, produce vino, legge Pavese e ti dedicherebbe una canzone anche se hai solo sbattuto contro uno spigolo. Certo, bisogna vedere se è d’accordo anche lui. Non sembra. Quando Dario intona Secondo me: “A che ci serve un prete o un messo comunale / se c’è una cosa innaturale / è doversi dare un bacio / davanti a un pubblico ufficiale”, ecco che gli fa eco il solito romano che ama mostrarsi cinico ai vicini di tribuna ma poi si incupisce di brutto ad Arrivederci tristezza, dando la colpa alla pizza fredda che porta in grembo: «Bravoooooooo». È lo stesso che griderà: «Daje Colapesceeeeee», una volta che Antonio Dimartino avrà terminato il suo duetto da ospite di pregio. I visual ai due lati del palco, illuminati di un elegantissimo bianco e nero, inquadrano allora il volto stravolto dall’agone canora di Simona Marrazzo, storica corista e percussionista del suo eterno compagno di vita e di musica Dario Brunori, e anche il romano cinico capisce, in cuor suo, che quei versi sono qualcosa di diverso della versione cantautorale del celebre monito di Maurizio Battista: «Nun ve sposate».

Oltre a Simona, Dario ha accanto la sua band di sempre: Stefano Amato, al violoncello e al basso elettrico; Dario Della Rossa, pianoforte, tastiere, sintetizzatori; Luigi Paese, tromba e flicorno; Gianluca Bennardo, trombone; Massimo Palermo, batteria e percussioni; Mirko Onofrio, voci, flauti, sax, vibrafono; Lucia Sagretti, violino, voci, theremin. Ma anche molto di più.

Il repertorio scelto per “Brunori Sas – Live con orchestra” ha pescato da tutti e sei i suoi lavori in studio, prodotti in più di 15 anni, come a voler disegnare una mappa sentimentale della sua carriera. C’è qualcosa di giusto, persino necessario, nell’idea di far scorrere i trenta elementi dell’Ensemble Symphony Orchestra, diretta da Giacomo Loprieno, sotto i versi di La verità o Lei, lui, Firenze, come se quegli arrangiamenti sinfonici fossero un modo per prendere – finalmente – sul serio le turbe di una generazione che ha sempre fatto finta di scherzare.

È insieme solenne e ridicolo decidere di portare un’orchestra sinfonica al Circo Massimo per accompagnare un artista che canta canzoni come si stendono i panni sul balcone. Cioè con cura, certo, ma anche con una umiltà domestica, una rassegnata fiducia nel fatto che prima o poi si asciugheranno. Brunori è sempre stato un cantautore colto e popolare, affettuoso e impietoso, uno che ha passato la vita a raccontare la nostra incapacità di diventare davvero adulti, senza mai metterci un attimo di fretta per farlo.

Foto: Roberto Panucci

E allora cosa succede quando questa voce da camicia di lino sgualcita incontra le sfumature sontuose di un’orchestra? Quando la sua tristezza smette di essere musica da camera? Succede che si rischia la retorica. Ma si rischia anche la bellezza.

Nelle esibizioni dal vivo la malinconia cantata di Brunori e la sua autoironia parlata hanno sempre formato una coppia disfunzionale ben rodata, tipo quelle relazioni che funzionano perché uno si piange addosso e l’altro sdrammatizza subito dopo. Un concerto di Brunori non funziona come una scaletta, ma come un copione scritto da due sceneggiatori che sembrano non parlarsi da anni. Da un lato un ritornello che trema su una rima imperfetta ma profonda, dall’altro lui che tra un brano e l’altro racconta di un mal di schiena, delle sue paure, delle figuracce, come se volesse subito togliere solennità al dolore appena esposto.

Un pezzo prima canta Canzone contro la paura in duetto con Fiorella Mannoia, e non è semplice commozione: è riconoscersi tutti nella stessa fragilità lucida, nella stessa voglia di restare umani anche quando si è stanchi. Arriva quella strofa che dice “Perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare?” e dal pubblico parte un silenzio più potente di qualsiasi coro. Fiorella gli sta accanto come una sorella maggiore che ti regge lo spartito quando hai le mani tremolizze.

Un pezzo dopo, come a scongiurare il rischio di diventare troppo fragile per i suoi stessi standard, Dario impugna un basso elettrico e pone il quesito: «Sono o non sono il nuovo Sting, anche fisicamente?». È un crollo liberatorio. Il pubblico si sganascia, lui pure, e in quella risata c’è tutta la consapevolezza di chi sa quanto sia importante non prendere troppo sul faceto la propria scherzosità. È questo movimento alternato che ha sempre fatto dei suoi concerti un’esperienza affettiva completa, dove prima si ride e poi ci si lascia col nodo alla gola, o viceversa.

Foto: Roberto Panucci

Ma ieri l’orchestra, avulsa e misteriosa come certi parenti acquisiti, si è inserita tra i due a mo’ di terzo incomodo molto educato e molto potente, alterando la geometria senza romperla. Ha dato profondità alla malinconia e una specie di riverbero alla leggerezza, come se entrambi – canto e parola – si fossero trovati improvvisamente costretti a crescere. Era una presenza che non si poteva ignorare, una cornice che non illustrava ma che amplificava, spostando l’equilibrio tra intimità e teatralità, tra confessione e cerimonia. E alla fine, invece di frenare quel dialogo storico tra il Brunori che canta per noi e il Brunori che ride di sé, l’orchestrazione ha reso più credibili entrambi. Perché anche la leggerezza, messa in scena con la giusta quantità di archi alle spalle, può diventare epica. E la malinconia, se sostenuta da una sinfonia, può smettere una buona volta di chiedere scusa.

Se c’è un motivo per cui Brunori merita un’orchestra e un Circo Massimo, è questo: non per diventare più grande, ma per rendere ancora più udibile la sua piccolezza. Quella che ci somiglia, quella che ci consola. Come quando, al centro di un paesino di provincia all’ora in cui di solito si dorme, qualcuno si mette a cantare piano piano, ma la sua voce arriva comunque fortissimo.

Così, nel fluire del concerto, dall’intimismo del pezzo di apertura (Al di là dell’amore) fino al gran finale in coro con tutti gli ospiti (Riccardo Sinigallia, la bravissima Emma Nolde, Antonio Dimartino e Fiorella Mannoia) con L’anno che verrà («Un omaggio a un cantautore minore»), il nostro Dario ha trovato finalmente la forza di elevare la tradizionale Sas brunoriana (una Società in Accomandita Sentimentale) al grado di Srl (Società a Risonanza Illimitata).

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