Bruce Springsteen a San Siro per difendere l’America: la recensione del concerto | Rolling Stone Italia
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Bruce Springsteen a San Siro per difendere l’America

In missione con la E Street Band. Da una parte la difesa dei valori della democrazia americana, dall’altra la celebrazione della potenza del rock. Si esce tutti, lui compreso, esausti ma felici

Bruce Springsteen a San Siro per difendere l’America

Bruce Springsteen a San Siro, 30 giugno 2025

Foto: Giuseppe Craca

Che cos’altro si può dire di un concerto di Bruce Springsteen e ancor più di un concerto di Bruce Springsteen a San Siro? Be’, innanzitutto che forse sarà l’ultimo, o meglio uno degli ultimi visto che si replica il 3 luglio. Quantomeno nel formato rock con la E Street Band. A suggerirlo è l’anagrafe del Boss, 75 anni, e degli altri componenti storici del suo gruppo, più o meno in linea col Capo. Anche se la tenuta fisica da extraterrestre dell’uomo può rendere possibile un ennesimo miracolo.

Fatti i debiti scongiuri e augurando lunga vita a Bruce, quello che ci siamo trovati di fronte ieri sera è ancora il più grande performer al mondo. E se già possiamo sentire in sottofondo gli sbuffi di chi, non senza qualche ragione, trova fastidiosa la sua sacralizzazione («Non ha inventato niente», «Gli springsteeniani sono una setta di boomer devota al culto acritico della personalità di un onesto rimasticatore della tradizione americana»), in realtà non hanno capito l’essenza di Springsteen. E forse neanche del rock. «A Dublino, in Irlanda, sapevo di cosa stava parlando. Ecco uno che aveva dentro di sé Brando, Dylan ed Elvis. Un John Steinbeck che cantava, un Van Morrison su una Harley-Davidson, ma era anche qualcosa di nuovo. Era l’anticipazione di Scorsese, il primo spunto per Patti Smith, Elvis Costello e i Clash», ha detto di lui Bono, che oltre a essere il leader degli U2 è anche il miglior giornalista musicale in circolazione. Ma Bruce è anche Abraham Lincoln, Franklin Delano Roosevelt e JFK. È come se si fosse staccato dal Monte Rushmore imbracciando una Telecaster per raccontare l’America a suon di rock. E chi l’ha visto ieri sera a San Siro capisce di cosa sto parlando. Springsteen a San Siro celebra ancora una volta il rock e protegge la sua America da Trump.

Il Land of Hope and Dreams Tour, come ampiamente raccontato nelle cronache delle precedenti date europee, è un tour politico, la chiave è la difesa dei valori della democrazia americana messi in pericolo da Trump. Ma prima dell’invettiva contro la Casa Bianca si parte con il rock epico e tirato di No Surrender e My Love Will Not Let You Down, due brani quasi gemelli dell’era Born in the U.S.A. E sul palco c’è anche Stevie Van Zandt, in forte dubbio dopo l’operazione di apppendicite a cui è stato sottoposto una decina di giorni fa in Spagna, che lo ha costretto a saltare due date in Germania. Il vecchio pirata ha stretto i denti ed è lì, al suo posto, alla sinistra del Boss, acclamato da un San Siro già in ebollizione.

Poi, prima di Land of Hope and Dreams Bruce come ogni sera si rivolge alla folla con parole nette, semplici ma pesate: «Casa mia, l’America che amo, l’America di cui ho scritto, che è stata un faro di speranza e libertà per 250 anni, è attualmente nelle mani di un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice». Springtseen non attacca Trump per snobismo, perché lo trova un volgare palazzinaro con il ciuffo arancione o per un vezzo woke. Difende i valori costitutivi del suo Paese contro l’attacco sferrato dal Presidente alle basi condivise della democrazia americana.

Foto: Giuseppe Craca

Il concerto vive un momento di debolezza nella triade Death to My Hometown, Lonesome Day, Rainmaker, scelte non felicissime se si pensa all’incredibile e sterminato repertorio di Springsteen, appena rimpinguato da 83 pezzi, quasi tutti inediti, usciti nei giorni scorsi nella raccolta Tracks II, esempio perfetto della maestria dell’uomo del New Jersey di scandagliare nella tradizione a stelle strisce, dal country al folk, passando per i Suicide e i Beach Boys, con alcuni brani di livello assoluto che follemente non erano mai stati pubblicati prima. Sarebbe stato interessante sentire uno dei pezzi di questi Lost Albums, ma sono elucubrazioni da fan, fan che però viene ricompensato da una tirata Atlantic City nell’ormai classica versione elettrica.

E qui c’è lo Springsteen scorsesiano che racconta un classico loser senza prospettive, che dopo aver ritirato i suoi pochi risparmi in banca, chiede alla ragazza di abbandonare tutto e seguirlo ad Atlantic City, dove deve “fare un favore a un tizio”. C’è spazio anche per una rabbiosa Murder Incorporated, mentre allo stadio che trabocca di afa arriva la sera e qualche mezzo refolo di vento. Poi lo show decolla con i classici, la ballad uptempo The Promised Land, il pop-rock piacione di Hungry Heart cantato da 58 mila persone e una The River da brividi, conclusa da un vocalizzo di Bruce che sembra un lupo ferito nella notte. Parte una standing ovation.

Il Boss ha nuovamente conquistato il suo pubblico italiano e il “suo” San Siro, stadio feticcio per il rocker del New Jersey. Poi torna politico introducendo il maestoso soul gospel di My City of Ruins. Accusa l’amministrazione Trump di violare i diritti e reprimere il dissenso ma non rinuncia all’ottimismo: «L’America di cui ho cantato per voi per circa 50 anni è reale indipendentemente da tutti i suoi difetti: è un Paese incredibile con persone incredibili. Sopravvivremo a questo momento». La notte bollente di San Siro diventa sensuale con il desiderio di I’m on Fire, che non era in scaletta. E come non bastasse piazza Because The Night con il solito assolo con rotazione da derviscio di Nils Lofgren.

Foto: Giuseppe Craca

Il treno E Street non si ferma più, assecondato da un pubblico in totale sintonia con il suo beniamino e suoi musicisti. Arrivano l’inno Badlands a far saltare il Meazza, una Born in the U.S.A. che ormai non può essere più fraintesa. Lo stadio si illumina a giorno per l’opera rock che è la summa della poetica springsteeniana (e la sua canzone preferita), Born to Run. Bobby Jean celebra ancora una volta l’amicizia, Dancing in the Dark rievoca gli anni ’80 e la prima volta di Springsteen in questo stadio.

Questo signore di 75 anni, che quando lo si vede camminare nei video ripresi dai fan mentre li raggiunge per firmare autografi fuori dagli hotel sembra un uomo della sua età, ovvero un anziano signore, è ancora lì a dimenarsi e ruggire sul palco dopo due ore e mezza. Omaggia il suo gruppo con l’esilarante introduzione della «leggendaria E Strret Band che fa tremare la terra, muovere i culi e che prende il viagra» e parte la festa rhythm and blues di Tenth Avenue Freeze-Out velata però dalla malinconia per gli amici persi lungo la strada come Clarence Clemons e Danny Federici. Il party non può essere completo senza Twist and Shout, tirata meno in lungo rispetto al passato e più efficace.

Bruce e i suoi paiono ormai esausti ma felici così come il popolo springsteeniano, sudato e roco. Lui si congeda, come sempre in questo tour, con una scintillante versione di Chimes of Freedom di Bob Dylan, una delle cose migliori dello Springsteen 2025 e conclusione perfetta del concerto, con l’allievo che canta le parole del maestro sulle “campane di libertà che si illuminano per le schiere dei confusi, maltrattati e disillusi”.

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