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Bono al San Carlo di Napoli, lo spettacolo di una vita

Il cantante degli U2 ha chiuso in Italia il tour di ‘Stories of Surrender’. Non è un concerto, ma teatro-canzone camuffato da book tour, una parabola sul dolore e il perdono, sulla musica che riempie il silenzio e permette di diventare sé stessi. C’è bisogno di dire che è stata un’esperienza unica e un successone?

Foto: Kevin Mazur/Getty

Un fascio di luce illumina una poltrona e una sedia. La prima è vuota, sulla seconda siede Bono che parla di una strana monarchia costituzionale e di un pub dove annegare nei ricordi e nella birra. Siamo al San Carlo di Napoli, che per Stendhal non era un teatro d’opera, era un colpo di stato giacché con la sua magnificenza garantiva «al re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare». Siamo anche al Finnegan’s di Dalkey, dove Bono andava a bere «e a non parlare» col padre, uno con una pinta di Guinness, l’altro con un bicchiere di «whisky protestante» in mano. Bob Hewson era un tenore che non ha mai avuto il coraggio di nutrire talento e ambizione, trovandosi nella situazione disgraziata di crescere da solo un figlio capace di fare sogni simili ai suoi e pure di realizzarli.

Uno dei sogni più recenti era portare lo spettacolo Stories of Surrender in un teatro d’opera: per ricordare il padre, per effettuare riprese indimenticabili, forse per vanità. Alla fine l’ha portato in quello più antico che c’è, a Napoli. Del resto il Finnegan’s si trova al numero uno di Sorrento Road e la sala in cui si ritrovava di domenica con «pa’» si chiama Sorrento Lounge, e poi Bob Hewson era un gran appassionato d’opera, in qualche modo tutto torna.

Per abbellire festa e riprese, Bono ha chiesto un dress code a metà fra James Bond e Amadeus. I 1400 spettatori che hanno pagato biglietti fra i 170 (posti con visibilità ostruita) a 350 euro circa si sono domandati se Amadeus fosse Mozart o quello di Sanremo (sul serio), ma alla fine l’hanno accontentato. Si sono visti anche i diademi richiesti dal cantante, non preziosissimi ma vabbè, una parrucca settecentesca, qualche cilindro. Pochi, pochissimi quelli in giacca abbinata a t-shirt degli U2 e jeans. Sul palco reale c’erano il sindaco Manfredi, il ministro Sangiuliano, il sottosegretario Mazzi. Qualcuno ha intravisto Materazzi e Nicoletta Mantovani con figlia. Riposti nelle famigerate custodie Yondr, i telefoni non possono essere usati durante lo spettacolo. Per tutto il tempo si guarda il palco, mai uno schermo. È una piccola privazione della libertà e non è poi tanto male.

Nessuno ha diciamo così consacrato il teatro napoletano, una decina di giorni fa s’è esibita Giorgia, non è La Scala, non c’è da dibattere o polemizzare sulla presenza dei mercanti nel tempio della lirica. Questo mercante di storie, in particolare, si presenta come un Orfeo con un registratore a cassette al posto della lira e la moglie Alison Stewart, arrivata a Napoli con lui e seduta da qualche parte, è Euridice. Solo che nel mito inventato dal cantante degli U2 è Euridice che salva quello scemo di Orfeo. Alle spalle di Bono ci sono due schermi su cui scorrono disegni stilizzati. Alla sua destra suona la violoncellista Kate Ellis, a sinistra l’arpista e cantante Gemma Doherty, le percussioni e la parte elettronica sono curate dal produttore Jacknife Lee, un po’ più defilato. No, non è il Pop Mart. È teatro-canzone camuffato da book tour, uno spettacolo di due ore a cui si va non solo per i pezzi, ma anche per le storie che ci stanno dietro – trattandosi di una personalità debordante come quella di Bono, direi dietro, sopra, sotto, a destra e a sinistra. È un reading fuori scala powered by una delle voci più note e amate degli ultimi quarant’anni di rock. È l’opera delle opere del cantante degli U2, è lo spettacolo di una vita, in tutti i sensi: è sia un’esperienza irripetibile, sia lo show in cui Bono fa spettacolo delle sue vicende personali.

Il Bono del San Carlo è cantante, attore, intrattenitore, teatrante, affabulatore, seduttore. Parla (tanto) e tra un racconto e l’altro canta (bene). L’acustica permette di cogliere ogni chiaroscuro espressivo, il modo soul in cui la voce sale in alto, il colore, le sfumature. A tratti Bono va a ruota libera, più spesso recita, in qualche occasione alle sue spalle appare la traduzione in italiano di quel che dice. La dizione è pulita, il pubblico capisce, apprezza, applaude, ride. Le parti recitate suonano famigliari a chi ha letto Surrender: 40 canzoni, una storia, il libro da cui prende vita lo spettacolo. Quando parte la musica si percepisce l’energia di un concerto, la gente ha voglia di cantare e lo fa, non si fa intimidire dal luogo, acclama l’uomo la sua unicità, il suo «cuore eccentrico». L’accompagnamento musicale è minimale, del resto basta e avanza la voce (a volte effettata) di Bono, le canzoni sono spesso accennate o rivisitate, sono integrate alla narrazione e comunque sembrano più vive di certe versioni contenute nell’album Songs of Surrender. Una delle migliori è Sunday Bloody Sunday con l’arpa al posto della chitarra e un’interpretazione di Bono che fa schizzare in piedi tutti quanti. 

Bono, il fantasma del padre e la finta Guinness alla Sorrento Lounge. Foto: Kevin Mazur/Getty

Il cantante racconta degli U2 in modo buffo, con ritratti spassosi e stilizzati dei compagni, e dell’impegno politico e umanitario che l’ha portato nella terra desolata della uncoolness e che è un modo buono e giusto per usare la fama acquisita a metà anni ’80, il tentativo di salvare il mondo e insieme divertirsi che era stato frustrato dalla comunità cattolica Shalom di cui ha fatto parte da ragazzo. Ma al centro di questo viaggio nella psiche, nei conflitti e negli slanci dell’uomo ci sono soprattutto due figure. Una è la moglie Ali, santificata al punto d’avere l’impressione d’essere stati convocati al San Carlo come testimoni di una spudoratissima dichiarazione d’amore – Bono le è immensamente riconoscente oppure deve farsi perdonare qualche grossa mascalzonata. L’altro è Bob Hewson, padre emotivamente distante e ingombrante come quello di Bruce Springsteen. Ignorando il figlio, lo spinge a diventare una rockstar. C’è ovviamente «la parte tragica», ovvero la madre Iris che collassa durante il funerale del di lei padre e muore quando Bono aveva 14 anni, ma fra tutti i filoni narrativi di Surrender che Bono poteva evidenziare ha scelto proprio quello del rapporto con «pa’».

C’è insomma questo dolore, c’è questa frattura drammatica alla base di Stories of Surrender. Non è però uno spettacolo mesto, tutt’altro, è pieno di vita e spassoso come quando Bono racconta dei non-dialoghi al Finnegan’s. «Nulla di strano o sorprendente?», chiede il padre ogni benedetta domenica. «Che dici di Pavarotti che telefona a casa, è più strano o sorprendente?», «Ovviamente sorprendente. E strano: perché mai un tenore dovrebbe chiamare te?», «Cercava una canzone», «Intendi dire che ha sbagliato numero?», «No, vuole gli scriva io una canzone: B-o-n-o, Paul», «Tu? Un baritono che si crede tenore?», «Già, vuole me: chi è l’idiota adesso?». La gente ride e applaude prima della punch line attribuita la padre: «Beh, lui lo è».

Stories of Surrender è quel che un concerto degli U2 non può essere più. Pur essendo accompagnato da tre musicisti, Bono sembra più che mai solo sul palco a declamare la sua storia senza che vi sia la necessità di blandire uno stadio. È solo a parlare e a cantare, o come direbbe lui, a essere cantato dalle canzoni. E in fondo è il sogno di tanti essere a un passo da uno come lui che racconta aneddoti e rimugina sugli U2, sulla vita, su Pavarotti (buona l’imitazione) o su Wojtyla, «l’Osimhen di Jubilee 2000». È uno show con dentro tanta Italia e non perché siamo a Napoli. A un certo punto Bono racconta d’essere venuto a Modena con Edge e i rispettivi padri per il Pavarotti & Friends, ai tempi di Miss Sarajevo. Arriva la principessa Diana e l’avversione alla monarchia del padre del cantante, burbero irlandese cattolico, lascia immediatamente il posto a una cotta degna d’un teenager. «Ottocento anni di oppressione svaniti in otto secondi».

Sincerità e ironia si mescolano in storie che hanno a che fare con la necessità di perdonare il prossimo e di perdonarsi per andare avanti e con l’idea che la musica sia un gran modo per riempire il silenzio e diventare qualcuno, diventare sé stessi. Sono raccontate con umanità, talento e capacità di articolare le proprie esperienze senza ricorrere a formulette che oggigiorno pochi, pochissimi musicisti possiedono, forse solo lo Springsteen di Broadway. Domani chissà, forse nessuno. Lo sguardo di Bono sulla sua vita è evidentemente compiaciuto, ma non ha perso il gusto di prendersi gioco di sé.

L’omaggio a Pavarotti, «il più grande cantante della storia». Foto: Kevin Mazur/Getty

Nei due giorni precedenti il concerto di sabato Bono ha girato per Napoli, ha mangiato spaghetti con vongole veraci da Mimì alla Ferrovia e pizza da Concettina ai Tre Santi, ha incontrato il sindaco ed è andato a vedere il Cristo Velato facendo base, dicono, all’hotel Vesuvio – alla reception non vogliono confermare, ma il sorriso che appare sulle labbra quando glielo si chiede è eloquente. Al Vesuvio morì Caruso, sempre alla lirica si torna tanto più che, come scrive Bono nel libro in uno dei suoi tipici pensieri esageratamente audaci, ma anche illuminanti, «la musica degli U2 non è mai stata veramente rock» perché «sotto la patina contemporanea, è opera: musica grande, grandi emozioni».

Una volta Chris Cornell m’ha detto che è assurdo quanto ci si affanni da ragazzi a combattere i propri padri non sapendo che siamo destinati a diventare esattamente come loro. Nella chiusura dello spettacolo Bono racconta che dopo la morte del padre la voce gli è cambiata e il baritono che pensava d’essere un tenore in qualche modo lo è diventato. E così, siede per la prima volta sulla poltrona del padre e si mette a cantare Torna a Surriento. Dopo avere ascoltato la storia gli si perdonano la lettura melodica peculiare e la pronuncia incerta. Anzi, il tono stravissuto e lo sforzo che si percepisce nel cantarla sono l’espressione esatta ed emozionante del percorso raccontato nelle due ore precedenti. Scatta l’applauso, la gente s’alza in piedi di botto, s’accalca verso il palco. Ma l’arte è finzione e per esigenze (credo) filmiche va fatto il bis di un momento che pareva irripetibile. L’imbarazzo svanisce in un attimo. Bono ricanta Torna a Surriento, altri applausi, altra calca, altra dimostrazione d’affetto. Il San Carlo diventa il Maradona, il pubblico canta «Bono olè-olè» e O surdato ‘nnammurato. Lui dice «bellissimo!» in italiano e fa finta di calciare un pallone verso il cielo.

Bono ha scelto il posto giusto e il momento giusto per questa parabola sul dolore, il perdono e la musica. C’è tutto: il padre tenore, l’opera italiana, la «the city of campione» come la chiama lui, Torna a Surriento e la Sorrento Lounge, Pavarotti e Caruso. Bono non è re Ferdinando che restituì il teatro alla città dopo un grande incendio, anche lui però ha usato il San Carlo per fare un piccolo colpo di stato. È riuscito a convincerci che i rocker col complesso messianico non sono poi tanto male. Se non muoiono a 27 anni o giù di lì, hanno storie pazzesche da raccontarti.

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