Blanco, la recensione del concerto all'Olimpico di Roma | Rolling Stone Italia
Crescere in pubblico

Blanco all’Olimpico, lo spettacolo perfetto della tecnologia e quello imperfetto di un ragazzo

Il cantante più giovane a esibirsi nello stadio romano, che per l’occasione diventa un po’ cattedrale, un po’ teatro d’opera e un po’ discoteca, dà il meglio quando va fuori copione

Blanco all’Olimpico, lo spettacolo perfetto della tecnologia e quello imperfetto di un ragazzo

Blanco

Foto: Roberto Panucci

Ieri sera, accedendo al concerto del più giovane artista musicale italiano che abbia mai giocato da titolare in uno stadio di calcio (20 anni), nell’osservare gli atteggiamenti e nell’indovinare gli animi del numerosissimo pubblico presente, ci siamo domandati più volte cosa avessero in comune tra loro tutte le persone che componevano quell’allegra fiumana in processione; in grado, secondo le aspirazioni sociali e le inclinazioni personali, di schifarsi o di godere alla vista della schiera di camioncini di porchettari che formava i tipici propilei odorosi di un grande concerto romano e che, solennemente come può fare solo un plotone di zozzoni – e cioè con una salve strafritta di olio di semi di qualsiasi cosa – dava il benvenuto a noi nell’Olimpico di Roma e a Blanco nell’Olimpo dei musicisti che vi si sono esibiti. Ma quel fil rouge non lo avremmo acchiappato se non sul finire dello spettacolo.

Il quale spettacolo era concepito in modo strepitoso. I tanti ingranaggi che ne muovevano il complesso meccanismo – salvo quando le pause tra un pezzo e l’altro erano un po’ lunghe – non erano affatto giustapposti tra loro, come accadeva tipicamente ai matrimoni italiani prima dell’avvento di Enzo Miccio o accade ancora alla maggior parte dei concerti in un cui i ledwall devono sopperire alle mancanze della voce o della personalità del musicista, o viceversa.

Ieri tutti gli elementi della produzione, anche i più apparentemente latenti o invisibili (come, per la maggior parte della serata, l’orchestra di 50 elementi) era stato pensato per essere parte di qualcosa di grandioso e unitario. E questo era merito principalmente di una produzione magistrale, che aveva un archistar e arcidesigner come Fabio Novembre dietro le scenografie di ispirazione ecclesiale-operistica di stampo gotico e un fuoriclasse come Galattico ai contenuti visuali, i cui frame non hanno perso nemmeno una botta della cassa di Carmine Landolfi, in arte Bdog; che, a sua volta, cercava e riusciva a stare a tempo con ciascuno dei flash immaginifici che rendevano lo stadio un’immensa discoteca la cui animazione fosse affidata a donnine ignude e torsi greco-romani i cui perizomi e pettorali erano disegnati dalla luce.

Foto: Roberto Panucci

Tutto l’arco costituzionale della visione iconografica del mondo di Blanco, ovvero tutto il tatuabile, compreso ovviamente il suo vero tatuaggio lombare: “Innamorato” (che è anche il titolo del suo secondo album) trovava spazio in questo impianto scenico, visibilmente ascoltabile e udibile graficamente, beat per beat, fiotto di luce per fiotto di luce. Anche il volto di Blanco, nei feed live sapientemente incorniciati nelle scenografie, attraversava con la stessa fluidità, dal diabolico al delicato, dal virilissimo all’ingenuissimo, tutti gli stati d’animo possibili a un volto ventenne che, un paio d’anni fa, come ha ricordato lo stesso artista in una pausa di recitativo (a conferma del tono di voce operistico della produzione), lavorava in pizzeria e ieri, sfidando i pronostici, ha quasi riempito del tutto un tempio della musica dal vivo.

Ma la vera forza del concerto è stata, paradossalmente, l’anello debole di una produzione così perfetta, e cioè: Blanco. Blanco quando affermava di essere così emozionato che gli veniva da piangere, ma non sta chiaramente piangendo, per poi mostrare gli occhi davvero umidi qualche minuto dopo; oppure quando diceva di essere così emozionato da balbettare, ma non stava affatto balbettando affatto, per poi biascicare per quasi tutto il resto del concerto senza rendere intellegibile una sola sillaba di interi pezzi. (Per inciso, ieri il problema della sillabazione era così ingente che le possibilità erano due: o conoscevi i testi e il concerto lo facevi, fuor di retorica, realmente tu, da piccola cassa Bluetooth che cercava eroicamente di andare sopra la grancassa; oppure non li sapevi ed era come andare a un’Aida, per la prima volta, senza libretto e senza sottotitoli, godendo comunque della maestosità del tutto e del godimento degli esperti).

Foto: Roberto Panucci

Ancora: Blanco era debole e fortissimo quando ostentava con ironia il gesto di distruggere parte del palco (nella fattispecie: le lettere di polistirolo bianco che componevano il titolo del penultimo brano in scaletta, Mi fai impazzire), per confermare la teoria secondo la quale la distruzione delle rose sanremesi fosse un numero preparato, confermandolo tra i suoi gesti-firma. Blanco che quasi contraddiceva la nota stampa che aveva annunciato che il suo concerto sarebbe stato diviso nettamente in quattro parti, rendendone di fatto possibile la distinzione, per via della sua energia sempre travolgente, che avvolgeva della stessa materia urlata e pompata i pezzi a cassa dritta come quelli acustici, solo un sommelier pop di rara finezza uditiva.

Blanco all’Olimpico ha dato il meglio di sé non quando voleva essere platealmente solenne, né quando le azioni per lui progettate erano un po’ troppo progettate (come quando, ad esempio, stesosi, faccia in giù, su una graticola alla martirio di San Lorenzo, veniva ripreso con la faccia grigliata dal basso, mentre continuava a cantare). Il Blanco migliore appariva quando una delle decine di videocamere lo riprendeva con la spontaneità di un selfie, di sorpresa, e lui sorrideva come un ragazzo della primavera che ha segnato un goal al debutto in serie A.

Il Blanco da ricordare di ieri sera era insomma quello che ancora non riusciva né a separare del tutto o a fondere del tutto le sue due anime: quella di uomo e quella di artista. Alcuni musicisti di successo scelgono la prima linea editoriale, e alternano una persona sul palco e una in casa o al mare, con qualche compromesso tra le due identità che, inevitabilmente, finisce postato nelle storie di Instagram (giacché i post sono riservati alla persona sul palco). Il nostro sospetto è che Blanco voglia optare per la seconda visione, che non è una linea editoriale, ma è di fatto una terza via: una nuova vita. Se non ce l’ha ancora fatta del tutto, niente di cui preoccuparsi. Va capito semmai, col tempo (e per fortuna c’è tempo), se la sua naturalezza nell’artificio, il suo leggero disagio esistenziale davanti alla grandeur, sia un problema da superare o un’opportunità da cogliere.

Foto: Roberto Panucci

Roma, con il suo culto dell’imperfezione, intanto, sembra avergli fatto bene. Abbiamo infatti il sospetto che l’importante sia che Blanco non alleni anche la sua umanità come uno dei suoi muscoli perfetti, o la graficizzi una volta per tutte, come in uno dei suoi tatuaggi, ma la lasci così, un po’ incompiuta, come la sua voce quando si mangia le parole o le sue gambe quando si lancia alla striker nel pratone e inciampa nell’abbraccio dei fan, non come uno dei tanti calciatori che qui sono avvezzi a simulare falli, ma come un giovane uomo che vuole cantare e performare una verità, anche se il successo gli demanda, tendenzialmente, altro. Chissà se sarà possibile. Nel frattempo riascolteremo la sua musica con orecchie e occhi nuovi, augurandoci, una volta tanto, che un musicista della Generazione Z italiana, con tutti gli inevitabili difetti che la giovinezza comporta, non cresca, o almeno che non lo faccia troppo in fretta, se quello dell’Olimpico è il risultato.

Per definizione una cattedrale, per di più gotica, come quella metaforizzata dalle scenografie e dai videowall dell’Olimpico, è uno degli edifici più lunghi e complicati da erigere. Come del resto è la vita di un artista. Per tutta la durata del concerto due finestre a ogiva di luce si aprivano ai lati del palco, come a dire: due cappelle alla volta. Sul finire dello show, stavolta sullo schermo centrale, a sprazzi di luce dettati dall’intermittenza stroboscopica, e dalle parole sincopate di Blanco, finalmente si è intravisto il profilo di una navata principale. La silhouette di Blanco vi compariva come l’ombra di un anti-gobbo di Notre Dame, abitando l’edificio e muovendovisi attraverso dritto come un fuso e agile come un campanaro di beat.

Foto: Roberto Panucci

I super critici, flexando la propria sensibilità ma finendo, più che altro, per autocertificare la propria età, diranno che la sensazione, alla fine del concerto, era quella di aver accompagnato un nipotino alla festa della consegna dei diplomi dell’asilo, quelli dove ti mettono la corona di alloro anche se ti stanno sostanzialmente solo ammettendo alla scuola materna, e il fanciullo, nelle foto, ha in mano una specie di tesi di laurea molto sperimentale che ha come titolo il suo nome e contiene tutti i suoi disegnini dell’anno accademico. Cioè molto rumore per nulla. Ma non è così. Blanco era ed è così adorabile, convincente e paradossalmente completo anche nelle sue piccole e medie mancanze che la verità è tutt’altra.

Ecco quello che univa tutto il pubblico di ieri davanti al concerto di Blanco: la consapevolezza serena di capirne relativamente poco – sia del concerto stesso che della musica in generale – e per questo di aver capito tutto quello che c’era da capire.

Altre notizie su:  Blanco