Ho sempre vissuto l’estate come un periodo sospeso, in cui tutto rallentava, c’era un vago sentore di ottimismo nell’aria legato sì alle vacanze, ma anche all’idea di nuove possibilità. Un piccolo reset. Era il tempo delle riflessioni, delle valutazioni sulla propria vita, abbandonare la pesantezza delle incertezze quotidiane e lasciarsi andare a una rêverie che poi non era importante realizzare, ma usare come tensione creativa verso qualcosa che ancora non c’era.
Non so se sono solo io a sentire che questo tempo dell’estate è cambiato per sempre. La leggerezza ha lasciato spazio alla preoccupazione che deriva dalle sempre più frequenti manifestazioni evidenti e immanenti dello sconvolgimento e dell’ingiustizia climatica globale (per citare l’importante libro di Friederike Otto sul legame tra capitalismo e il nuovo clima in cui viviamo) e forse per reagire quello che si deve fare non può essere che operare una vendetta personale e sociale che parta dalla possibilità di riappropriarsi della passione, della leggerezza e di un ottimismo della volontà.
Questo pensiero mi si è presentato lunedì, come per serendipity, verso la metà del concerto di Ludovico Einaudi alla Royal Albert Hall di Londra, secondo di una residency di sei giorni che termina domani e che lo ha portato a essere l’artista italiano che più si è esibito nel tempio (e in riferimento alla Royal Albert Hall non è una parola casuale) della musica – al pari, per dire, con David Gilmour, entrambi secondi solo a quell’accollo di Eric Clapton. A un certo punto, durante l’esecuzione di Santiago, Einaudi esegue un cambio di accordi che diventa il punctum, quell’elemento immateriale che secondo il semiologo Roland Barthes apre lo squarcio di senso nella coscienza di chi viene attraversato da un’opera d’arte, e mi arriva come la precisa manifestazione musicale di un orizzonte che fino a prima sembrava drammaticamente perduto.

Foto: Moritz Waldemeyer
La Royal Albert Hall è un luogo che mette soggezione. Non perché chi ci suona sente il peso della storia di tutti quelli che ci hanno suonato in precedenza – chiariamoci: a Londra anche se suoni in un sottoscala senti il peso della storia e chi suona alla Royal Albert Hall è parte di quel peso e di quella storia – ma perché si tratta di un posto davvero sacro per la musica. E rispetta proprio tutti i canoni dello spazio sacro teorizzati da Rudolf Otto a inizio Novecento come luogo di separatezza dal comune e garanzia di esperienza del totalmente altro da sé.
L’architettura vittoriana è imponente, i suoi interni suggeriscono la potenza della musica e il suo ruolo come elemento di connessione con qualcosa di più elevato e quasi imprendibile. Uno spazio gigantesco con sette ordini di posti e il famosissimo, gigantesco organo che titaneggia con le sue 9999 (esatto, quasi diecimila) canne che ne fanno uno dei più grandi al mondo. L’acustica è perfetta, semplicemente perfetta, al punto che Sam Lee – giovane cantautore chiamato ad aprire i concerti di Einaudi la cui musica è una riscoperta del patrimonio folk inglese e irlandese – riesce a esibirsi allontanandosi dal microfono. La musica, qui, è il centro del discorso. Per questo anche il palco è molto piccolo e non modificabile: gli artisti sono importanti, certo, ma proprio per il servizio che portano alla musica.
Da un luogo del genere ci si aspetta un pubblico compassato, sulle sue, cautamente rispettoso, stereotipicamente inglese, che aspetta prima di applaudire o fare qualsiasi cosa. E invece… Ludovico Einaudi sale sul palco insieme alla sua band (ho pensato un po’ se fosse il caso di chiamarla band o orchestra ma è giusto chiamarla band). Nessun divismo. Nessun’attesa costruire ad hoc. Niente fronzoli. Attaccano immediatamente con Rose Bay, una canzone (se prima ho parlato di band, adesso ha senso che parli di canzoni, poi vi spiego perché) che evolve e si fonde in To Be Sun lasciando poco spazio al pubblico che però, alla fine, esplode in un boato che non mi aspettavo di sentire per un concerto di musica minimalista, contemporanea e con uno sguardo alla tradizione colta.

Foto: Moritz Waldemeyer
Allora forse la sento solo io, la soggezione della location. Sono circondato da persone vestite in modo casual, che bevono birra pur sedute in sedie di velluto, si alzano infrangendo ogni ipotetico cerimoniale. Se il centro è la musica, allora ognuno ha il diritto di viverla come meglio crede. E durante il concerto capisco che il senso del lavoro di Ludovico Einaudi, almeno per quanto riguarda The Summer Portraits, il disco del 2025 da cui partono questi concerti, è sì offrire squarci di speranza e leggerezza (chissà per quanti ci saranno stati momenti come il mio su Santiago, penso) ma anche usare questi riferimenti colti, questa ricerca musicale alta per costruirne melodie il più possibile universali e popolari nel senso più nobile del termine – non di massa, quanto alla portata di tutte le persone disposte a farsene colpire – per sviluppare emozioni, movimenti e riflessioni.
E il pubblico lo capisce. O se non lo capisce, lo sa. Non solo per le canzoni più famose – come ad esempio Nuvole bianche e Una mattina, eseguite in solo – ma anche per i momenti più sperimentali, quando il suo pianoforte dialoga con il violino di Federico Mecozzi, con le ritmiche di Francesco Arcuri o con l’elettronica di Gianluca Mancini e la fisarmonica di Rocco Nigro portando le melodie in territori inesplorati ma che le persone sono ben contente di scoprire. La reazione alla fine di ogni pezzo è quella che ci si aspetta per un concerto rock. Non certo per un pianista.
Ma perché forse è il caso di uscire una volta per tutte dall’equivoco. Ludovico Einaudi suona il pianoforte, certo, lo suona in un modo estremamente personale e lo usa come mezzo espressivo per costruire qualcosa che prima non c’era partendo da poche note (a dimostrazione che non è importante riempire tutto lo spazio, ma suonare la nota giusta), ma è un artista pop e le sue non sono “paesaggi sonori”, “melodie sognanti”, “sospensioni melancoliche” o qualche altro metaforone da quattro soldi che si legge quando in Italia si tratta di recensire la sua musica: sono canzoni. Seguono pattern, hanno una ricorrenza interna, ci sono dei ritornelli (anche se non c’è la voce), ci sono i ganci emotivi. Forse non è il termine giusto, ma se devo trovare un corrispettivo, ecco, le sue tracce hanno la forza espressiva ed emotiva della canzone.

Foto: Moritz Waldemeyer
Questa residenza funziona anche a livello di sceneggiatura. Einaudi è in total black, la sua band in bianco (tranne una sezione d’archi aggiuntiva in nero). C’è una prima parte dedicata a The Summer Portraits, un momento centrale in cui la band lascia il palco e lo spazio a un piano solo di Einaudi, poi sale il violoncellista albanese Redi Hasa per Maria Callas, poi torna la band per costruire il gran finale in cui Nightbook evolve in Experience per poi diventare un momento di pura performance collettiva con Arcuri che inizia a pestare come se fosse il batterista dei Killers durante Mr. Brightside, la band suona in crescendo, Einaudi si alza del piano e incita il pubblico a seguire in un clapping perché ormai sono tutti in piedi e ognuno ha ormai trovato il proprio punctum. È quasi una catarsi. Guardo la gente intorno a me ed è tutta felice. Contenta di essere lì. Vive il momento. Non sta pensando a che bus prendere per tornare a casa, non si sta prendendo male per il lavoro del giorno dopo, non si sta disperando per il caldo asfissiante che si è abbattuto su Londra rendendo tutto piuttosto invivibile, no, si lascia trasportare dalla musica (e tra l’altro stanno tutti a tempo… un vero capolavoro, converrete).
Forse è vero che nessuno è profeta in patria e c’è stato il bisogno di andare a vedere Ludovico Einaudi a mille chilometri di distanza dalla sua Torino per trovarlo dentro un ambiente naturale, in cui far fluire la musica senza preconcetti, luoghi comuni e mondanità di casa nostra che ogni tanto fanno perdere naturalezza e slancio nel godersi le cose per eccessiva burocrazia e cerimoniosità. E il fatto che succeda alla Royal Albert Hall ha davvero ancora più senso, perché se è vero che l’obiettivo che si era posto Ludovico Einaudi con The Summer Portraits era riappropriarsi di un momento «legato ai sensi e alle emozioni, quando i giorni erano lunghi come mesi e i mesi come anni, e ogni giorno era un’esperienza in cui la natura ne era parte fondamentale, noi stessi eravamo natura», allora la reazione delle persone, il modo in cui hanno partecipato in modo attivo, diventando parte del concerto, corpi attivi della trasformazione che la musica riesce a operare su di noi, è la dimostrazione che davvero funziona.

Foto: Moritz Waldemeyer