Se di un musicista si fa fatica a parlare, cioè non se ne parla poi tanto, allora meglio andare a sbirciare dal vivo. Accade così per Mk.gee, al secolo Michael Gordon: di lui si fa fatica a parlare.
Non perché la musica di questo ventottenne classe ’96 born and raised in New Jersey e ora di base in California sia particolarmente oscura. L’album di esordio Two Star & the Dream Police (2024), come anche il singolo seguente Rockman, sono lì, densi, presenti, galleggianti in superficie. Gordon dichiara al New York Times, in un profilo bello e completo, che vorrebbe che il disco suonasse come una passeggiata nei boschi: ecco fischi di aquile in sottofondo. Oppure, ecco i testi, poche parole ben centrate, l’impressione della quest da eroe fantasy è confermata, il disco è un viaggio lineare che si rivela circolare. Pure le distorsioni della sua Fender Jaguar sono state decrittate – succede attraverso numerosi video YouTube: “Come fare per suonare come Mk.gee”. Michael Gordon ha il look & sound di uno della Generazione Z a cui sono entrati in testa gli anni ’80. Allora qual è l’inghippo, se è tutto così limpido? Perché di Mk.gee si parla così poco in Italia?
Vederlo dal vivo aiuta a farsi un’idea. Per farlo siamo stati al Rock En Seine, dove ieri, 21 agosto 2025, Gordon era in line-up per la seconda serata del festival alle porte di Parigi (il 24 agosto arriveranno i Queens of the Stone Age e i Fontaines D.C., il 20 agosto l’headliner è stata Chappell Roan; Doechii ha annullato la sua presenza, prevista per lo stesso 21 agosto). La data era l’unica nell’Europa meridionale per il 2025, almeno finora. Altri show Mk.gee li ha tenuti a inizio mese in Svezia, Norvegia, Danimarca. Non si è mai parlato di Italia, finora: non una grande piazza sembrerebbe, la nostra, per uno che ha ricevuto la benedizione di Eric Clapton, che è stato titolato guitar god inaspettato e che dichiara senza giri di parole (ancora al NY Times): «Ho fatto il miglior album di sempre».
Contraddicendo l’aspettativa di una sbruffonata, Mk.gee arriva sul palco puntuale anzi puntualissimo. Ha gli stivali – in varie versioni, ma ormai sembrano cuciti addosso – una maglietta con il logo della Honda, i jeans. Ha portato con sé un altro chitarrista e il compagno di pad e drum machine. Saranno costantemente immersi nel fumo. Nemmeno il tempo del riscaldamento e attacca il tema di Dream Police, ultimo e, credo, più bel pezzo di Two Star and the Dream Police. È potente, è preciso, il volume, be’, qual è il contrario di basso?
Attacca senza troppo ordine le track dell’album, ci inserisce Rockman, scontenterà qualcuno saltandone giusto un paio. Non riesegue in modo pedissequo, ma adatta al palco con intermezzi e rivisitazioni, cercando di stare dietro, lui per primo, al suo ciondolare, chinato sulle leve, e a quel mullet-non-più-mullet che lo rende – forse suo malgrado, forse nulla è un caso – un inaspettato tipo da poster. Quel qualcuno che potrebbe aver da ridire sulla scaletta, comunque, è nelle prime file e in prevalenza appartiene alla sua stessa generazione. Già: si potrebbe star qui a discutere sui virtuosismi di chitarra, sul lavoro di sintetizzatore, e invece Mk.gee da nerd e smanettone diventa, senza nasconderlo, un autore (e produttore di se stesso) cool senza aver paura di risultare popolare.
Al microfono non dice quasi nulla. Sono lui e il suono, lui e la chitarra, mentre inneggiano a una forza che si fa sempre fatica a capire cos’è. Di tutta risposta, davanti alle transenne ballano. «Sperimentare non ha senso se non lo si fa sulla più grande scala possibile. Non voglio unirmi alla cittadella di qualcun altro. Voglio costruire la mia, il mio castello con i miei amici, questo è ciò che serve. E se le persone vogliono venire da noi, possono farlo». Che non fosse mica questo, il senso di quel rock contenuto nel nome della manifestazione? Quello che sappiamo: Mk.gee ha una Heineken sul palco con lui, ne prende un sorso e con il resto battezza la folla. Gliene verrà portata un’altra, di gran lena, e visto che non ci sono bicchieri, farà una schiuma visibile dagli schermi. Ecco: una cosa semplice così. Priva di segreti, piena di mistero.
E pure di quel timore che dopo un po’ stringe quando a questo dici capolavoro, all’altro dici capolavoro, ma spariscono dopo un disco o poco più e chi sa più che intendi, se è per far girare la parola e un minimo di fatturato, se prendi un granchio, se le partite e le proclamazioni andrebbero giocate più lunghe. Potrebbe essere quella che stiamo giocando con Michael Gordon: andarci cauti, questa volta. Non rovinare il quadro, uno giovane che suona bene, con abbastanza presunzione e una presenza di palco fatta e finita. Non solo: uno che, in tutto questo, inserisce una centralità assoluta – per non dire assetata, ecco l’ho detto – della chitarra elettrica.
I “salvatori della musica” vengono candidati in due categorie: voce, sei corde (o dodici, eccetera). Mk.gee, per fortuna, sembra un attimo più refrattario degli altri a questa etichetta. Forse perché della musica in generale non si capisce quanto si voglia accollare. Della sua musica, ecco, quello è un mondo. Se deve nascere un’emulazione in positivo, si spera duratura, meglio parta da qui. Jannik Sinner mica scende in campo per salvare il tennis; gioca per vincere.

I Khruangbin. Foto: Olivier Hoffschirr
Ma Michael non è da solo. Ieri, al Rock En Seine, complice l’au revoir della Swamp Princess si è messa in fila una classe interessante per le future generazioni (ma anche per le presenti) dei “live suonati” (i quali, lo sappiamo, è un po’ che «tornano» e che «stanno tornando»): sul palco uno di fila all’altro Mk.gee, Vampire Weekend, Khruangbin. Tre ottimi live, ognuno a modo suo. Sia per il gruppo di Ezra Koenig, che fa scappare i giovanissimi ma non ne sbaglia una ed è una delle più gradite walk down memory lane; sia per il dynamic trio composto da Mark Speer, Laura Lee e Donald “DJ” Johnson.
Per loro la Gen Z c’è eccome. Non potrebbe essere diversamente, per gli assi del prendersi poco sul serio e stare seriamente bene sul palco. La scenografia moderatamente dechirichiana, le mosse di Lee al limite dello s-troppiare o del Tuca tuca (nel senso di un gran complimento), investirsi di ironia e presentare una chitarra infinita, questa sì a tratti virtuosa, nessuno si metterebbe a discutere sul fatto che Speer sia o meno un guitar god, però, però…
Insomma, una certa scuola è passata sul bordo della Senna, e non ha lasciato pochi spunti dietro di sé. Noi abbiamo preso appunti. Così quando inizieremo a parlare davvero di Mike Gordon, non ci saranno dubbi: avremo tutto scritto con noi.
Così, tornando alla domanda: ma come mai di Mk.gee si parla poco, in Italia? Probabilmente perché, e qui si può tirare un sospiro di sollievo, Michael Gordon è uno di quelli che si devono vedere dal vivo, perché l’esperienza di ascolto su disco (che poi: online) e in live differiscono. E vince la seconda. Secondo: be’, ce n’è ancora, per Mk.gee, anche a fronte di un ottimo debutto. Dalle nostre parti piacciono di più se arrivano con la già la corona. Last but not least: se andiamo alla caccia del tormentone, Mk.gee non ci accontenterà mai. Ascoltare un solo suo brano è leggere la sinossi di un libro senza approfondire. Perciò, auguriamoci di diventare campioni di approfondimento.













