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Alicia Keys, solo vibrazioni positive

Niente effetti speciali strabilianti, né scenografie stratosferiche. Ieri sera la cantante ha conquistato il Forum di Assago con un mix di musica vecchia e nuova scuola, tanto amore e zero attivismo

Foto: Christie Goodwin for ABA via Getty Images

La prima volta che Alicia Keys venne in concerto a Milano fu esattamente vent’anni fa, nel 2002; vent’anni era più o meno anche la sua età. L’anno precedente aveva debuttato con uno degli album d’esordio più riusciti, maturi e celebrati della storia dell’R&B moderno, Songs in A Minor. Il singolo che lo trainava era una ballata gospel intensa e straziante costruita su un malinconico giro di pianoforte, lo strumento-feticcio da cui non si separava mai, e su un beat hip hop alla vecchia maniera. Nonostante non si trattasse della classica hit radiofonica Fallin’, il brano in questione, esplose a livello globale, portandola così a riempire un palazzetto – il Palavobis – perfino nella periferica Italia, e senza praticamente passare dal via. Già allora la sua padronanza del palco era straordinaria, così come era straordinaria la sua capacità di unire due mondi musicali apparentemente inconciliabili. Era come se, in una dimensione ideale e senza tempo, Roberta Flack e Afrika Bambaataa avessero generato una figlia che incarnava il meglio dei rispettivi talenti.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti – per la precisione, è a quota otto album + due dischi live – ma la sostanza non è cambiata: con buona pace della concorrenza, quando si parla di hip hop, soul e R&B lo show di Alicia Keys è ancora uno dei migliori in circolazione. Lo è perché non vuole stupirci con mirabolanti effetti speciali, scenografie stratosferiche, coreografie da mille e una notte. Non ne ha bisogno: l’apparenza si limiterebbe a offuscare la sostanza, anziché evidenziarla. In fondo perché aggiungere paccottiglia inutile, quando è già tutto perfetto così com’è? La voce e l’interpretazione di Alicia non perdono un colpo dall’inizio alla fine del concerto, che lei stia suonando il piano, trafficando con un MPC, ballando o solcando la platea mentre il suo bodyguard cerca di farle strada tra i fan esaltati.

La band, appena cinque elementi accuratamente selezionati, è talmente poliedrica, affiatata e ben assortita che sembra formata da almeno il triplo degli elementi. I visual, semplicissimi panorami crepuscolari, giochi di luce o accostamenti cromatici evocativi, non distrae dalla musica, che resta protagonista assoluta. Unica concessione alle americanate, se così vogliamo chiamarle, una piattaforma elevatrice a scomparsa, piazzata all’altezza del mixer di sala, che quando è in azione si erge a un paio di metri d’altezza: la cantante ci sale a sorpresa a metà concerto, armata di synth e loop station, per suonare da sola alcuni brani dal suo ultimo album Keys.

A proposito di Keys: si tratta in sostanza di un doppio album, ma non nel senso tradizionale del termine. I brani proposti in entrambi i dischi sono gli stessi, rifatti però in due versioni diverse, la cosiddetta original (più classica e semplice, suonata in genere con strumenti tradizionali) e quella unlocked (rielaborata e prodotta con sonorità all’avanguardia). Per darne un assaggio al pubblico, Alicia accenna un paio di pezzi in doppia versione: Skydive, It Is Insane, Only You. Anche alcune delle sue canzoni più vecchie – come You Don’t Know My Name, che sul finale si trasforma in un pezzo reggae con tutti i crismi – cambiano veste per adattarsi al tema di questo tour, che è proprio la capacità di trasformare la musica e darle una vita potenzialmente eterna. La cover di Gypsy Woman entra di prepotenza in scaletta tra In Common e Underdog. L’assolo di chitarra di Purple Rain emerge con naturalezza nell’intro di Like You’ll Never See Me Again. In questo ecosistema circolare, tutto è perfettamente collegato e i conti tornano sempre.

A livello di pubblico generalista, molti degli exploit più famosi di Alicia Keys sono featuring conto terzi: Empire State of Mind con Jay-Z, City of Gods con Kanye West, My Boo con Usher. Alicia non li rinnega, anzi, li canta tutti, con grande gioia dei presenti. La vera star della serata però è il suo repertorio, che si è consolidato ed espanso fino a diventare vastissimo (al punto che, per inserire più tracce in scaletta, la maggior parte delle canzoni è eseguita in forma ridotta, senza la seconda strofa). A Fallin’ sono seguite numerose altre hit: No One, If I Ain’t Got You, Girl on Fire, tanto per citarne alcune. Veri e propri inni che sembrano essere fatti apposta per essere cantati a squarciagola da migliaia di persone, grazie anche alla sua capacità di inserire nelle sue composizioni dei cori quasi da stadio: vocalizzi semplicissimi, facili da memorizzare, privi di parole e intonabili all’unisono da un pubblico di qualsiasi lingua. A fare da contraltare a questi momenti catartici ci sono le parentesi più intime, sussurrate, incarnate da pezzi tipicamente soul come Diary o da sperimentazioni figlie del contemporary R&B come 3 Hour Drive o Truth Without Love. Indipendentemente dalla tipologia e dal genere del brano, però, i più riusciti sono senz’altro quelli più suonati: un po’ perché è ciò che le viene meglio in assoluto, e un po’ perché (forse a causa dell’acustica non proprio impeccabile del Forum, chissà) quando partono troppe sequenze c’è ancora qualche problemino di dissonanze e sfasamenti di tempo.

La serata si chiude in bellezza, con un pubblico felice e festante che sciama verso la metropolitana continuando a cantare in coro le canzoni ascoltate poco prima. Unico, piccolo rimpianto: se sul palco Alicia Keys ha parlato tantissimo d’amore e dell’importanza di immettere nell’universo massicce dosi di empatia e vibrazioni positive, il suo attivismo sembra essere scomparso dall’equazione. Cause come il femminismo (concretizzato nella campagna #NoMakeUp da lei lanciata nel 2016 e in brani come Girl Can’t Be Herself) o il pacifismo (Holy War), il supporto al movimento Black Lives Matter (Perfect Way to Die) e quello per la lotta all’AIDS (con la sua fondazione Keep a Child Alive) restano argomenti innominati per tutta la sera, sia in termini di scaletta del concerto che nelle parole che pronuncia dal palco. Peccato, perché è anche il suo impegno al servizio di ciò che le sta a cuore a renderla un’artista così apprezzata. E di questi tempi, purtroppo, l’amore fine a se stesso lascia un po’ il tempo che trova.

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