Al Carroponte quelli dello Stato Sociale hanno provato a raccontarci un buco nel cuore | Rolling Stone Italia
QUANTO BALLIAMO MALE

Al Carroponte quelli dello Stato Sociale hanno provato a raccontarci un buco nel cuore

Il primo concerto dopo la scomparsa di Matteo Romagnoli è sembrato quasi una festa di fine anno, con tutte le componenti indispensabili: i balli, i cori, la malinconia, le risate e le lacrime

Al Carroponte quelli dello Stato Sociale hanno provato a raccontarci un buco nel cuore

Nella quarta stagione di Boris i personaggi degli sceneggiatori lasciano, lungo tutta la serie, una sedia vuota. Non dicono niente, semplicemente si guardano e si intendono. Nell’ultima puntata, quando cast e produzione sono alla prima de La vita di Gesù, qualcuno cerca di sedersi accanto ai due, ma loro fanno segno che no, quel posto era occupato. Perché erano in tre, e sono rimasti in due, ma il loro amico è ancora lì e ha bisogno del suo posto, perché tutto funzioni. Il loro amico è Mattia Torre, terzo (vero) sceneggiatore di Boris insieme a Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, e che se n’è andato nel 2019.

Ieri sera sul palco del Carroponte quelli de Lo Stato Sociale, al terzo pezzo in scaletta, che è Mi sono rotto il cazzo, ce lo iniziano a dire, e ce lo spiegheranno meglio nel corse delle quasi due ore di live, che anche a loro è successo lo stesso. Erano «in sei e siamo rimasti in cinque». Davanti alle 7000 persone radunate a Sesto San Giovanni per la tappa milanese dello Stupido Sexy Futour, il posto vuoto è quello di Matteo Romagnoli, che nel 2008 ha fondato Garrincha Dischi, scoprendo e producendo alcune tra le band importanti per la scena indipendente italiana. Matteo, detto anche Johnny, Mareo, J, Quincy, Romagnolo, Gennaro, è stato produttore, manager ma soprattutto amico fraterno di tutta la band, e allora il posto vuoto ieri sul palco, ma anche sotto, e in mezzo al pogo. E poi ci sarà stata nel backstage, sul furgone, ma fino a lì, fino a quel punto, noi che assistiamo, e che di quella famiglia bolognese che ama definirsi freak ci sentiamo parte dal 2009 se non prima, non possiamo arrivare.

Lo sanno i regaz e solo loro, che cosa significa trovarsi a suonare in quella che sarebbe dovuto essere il primo concerto post convalescenza di Matteo e invece. Però Bebo, Lodo, Carota, Albi e Checco hanno provato a raccontarcelo, quel buco nel cuore, in quella che è sembrata essere una festa di fine anno, con tutte le componenti che le sono indispensabili: i balli, i cori, la malinconia, le risate e le lacrime. La festa dove fai il bilancio di una porzione di tempo passata e ti dici che alla fine tutti tentiamo di stare a galla, ci raccontiamo fregnacce, ci impegniamo, crolliamo, abbiamo sussulti d’orgoglio e poi ce la portiamo (quasi) sempre a casa.

Però, un attimo: la festa c’è stata, e mi sono sentita una mezza imbucata (perché non era in programma, perché è capitata), il che mi ha permesso di guardarmi intorno e guardare che cosa succedeva, che cosa smuoveva quel momento in tutti quelli che lo stavano aspettando da mesi. «Dicono che è l’ultimo concerto, dovevo venire per forza», mi dice un’amica. Ed effettivamente anche se in realtà il tour andrà avanti fino al 29 settembre, il gruppo ha scritto in un post che Carroponte sarebbe stata «l’ultima grande festa, la festa per Matte, l’ultima data in una grande città». E allora ti guardi attorno e vedi famiglie con bambini, coppie di trentenni, compagnie di amici che hanno la stessa età dei regaz, e capisci che aveva ragione Lodo quando ragionava su una dinamica che probabilmente riguarda il 99% delle band di quella nuova corrente indie italiana nata circa a metà dei Duemila, e che sia può così riassumere: «Il pubblico che ti costruisci da indipendente non lo perdi mai, il pubblico del pop, che ti copre con Sanremo c’è, e poi molto rapidamente non c’è più».

Si fatica a mettere a fuoco qualcuno che sia venuto al Carroponte perché ha amato Una vita in vacanza, portata sul palco dell’Ariston nel 2018. Forse ci sarà anche stato, ma dal modo in cui, dalla prima all’ultimissima fila, fino agli sparuti gruppi di gente svaccata sul prato, tutti hanno cantato tutto, da Cromosomi, che fa parte del primo album Turisti della democrazia, a In due è amore in tre è una festa, che sta nel disco L’Italia peggiore del 2014, fino a Fottuti per sempre, scritta insieme a Vasco Brondi e forse la più amata dell’ultimo, sudato lavoro in studio, Stupido Sexy Futuro, uscito a maggio di quest’anno.

Prima che alle 22 precise Lo Stato Sociale attacchi con Pompa il debito, mi colpisce il continuo via vai al banchetto del merchandising, con tanti che se ne vanno col vinile sotto braccio, ed altri che indossano subito la t-shirt. «Con il biglietto a 5 euro mi sembra il minimo comprare almeno la maglietta, poi» eccolo di nuovo «dicono che è l’ultimo concerto». Quando salgono sul palco, sono esattamente quella cosa lì che ci hanno dimostrato in più di una decade di musica scritta e suonata: fieri rappresentanti del normal-core, senza nessuna posa. Figli di una Bologna che è culturalmente accogliente verso i freak (quanto gli piace questa aggettivazione) e verso le sgangheratezze. Bologna è la loro città, se la portano appresso e addosso, ma stasera non hanno così tanta voglia di punzecchiare Milano e le sue manie di grandezza. C’è qualche presa per il culo, ma riguarda chi sta nel mondo fuori dal Carroponte. Stasera gli sta a cuore pompare al massimo quell’approccio spericolato dei testi che mischiano gli 800 euro per la reflex, 200 per yoga e 300 per i peli del culo e 600 d’affitto, ad Eugenio Montale, al combat pop che forse era combat rock, fino a i soldi per la bamba e i Bloody Beetroots.

Lo sappiamo, ce l’hanno detto, che sono arrivati qui dopo un periodo complicato, diventato, da quel 14 giugno 2023 in cui è morto Matteo, ancora più duro. Sappiamo che subito dopo il secondo Sanremo del 2021, quello in cui sei già un coglione che fa parte dell’arredamento, come cantano in Fottuti per sempre, c’è stata una crisi: o uccidi l’adulto e vivi tutta la vita un sogno, o salvi l’adulto che sarai e uccidi il sogno di te ragazzo.

Ci sono state, ha detto Bebo in qualche intervista, «spinte differenti, opinionismo, rivendicazioni interne e crisi d’identità. Si litigava per tirare avanti la carretta. Litigare abbiamo sempre litigato, ma da quegli scazzi non nasceva nessun output. Da lì abbiamo dovuto ricostruire partendo dalle poche cose che erano rimaste uguali fin dagli inizi». Da come sono stati sul palco sembra che ci siano riusciti, ma sono sembrati anche incrinati e sofferenti e visto che di pose, lo abbiamo detto, non ne sanno tenere, hanno deciso di condividerlo, quel dolore, con le persone di cui si fidano, e che erano le settemila che al loro grido «ballate male», ballavano malissimo.

C’è stato un lungo intervento di Lodo, che per tre quarti del quale non stavamo capendo dove volesse andare a parare, e che s’è poi rivelato un aneddoto molto dolce che riguardava lui e Matteo. Aveva a che fare con una sbronza (di Lodo), con l’essere ridotto a una merda (sempre Lodo), ma nonostante tutto trovare affianco un amico che anche se ride di te non ti molla nemmeno se gli «inlordi» la macchina di vomito (di Lodo). «Matteo ha creduto in me quando non ero niente. Se troverete qualcuno che crederà in voi, vi cambierà la vita».

Okay, lacrima, ma si volta pagina in fretta e si torna a ballare, qualcuno azzarda una hakken, qualcun altro fa la mossa dell’aeroplanino. Di nuovo ironia, racconti universali di esperienze amorose, l’impegno politico che sa di concerto del primo maggio, i primi anni dell’età adulta che incombe, e sintetizzatori super esplosivi e poi di nuovo un momento che ci trafigge. Ed è tutto di Carota. Ed è difficile da raccontare, perché per quanto fossimo in migliaia, è stato molto intimo. Ha a che fare con uno dei migliori pezzi de Lo Stato Sociale, si intitola Niente di speciale, l’ha scritta Lodo ma in teoria non sarebbe mai dovuta uscire. L’ha affidata al compagno di band, perché la cantasse, e lui lo fa che ti tremano le gambe. Anche perché prima di attaccare, torna a trovarci Matteo Romagnoli, che era proprio di fronte al “Carrot” quando intonandola s’è spezzato, pensando ad altro rispetto alla storia d’amore che scivola lungo il testo, pensando alle sorti dei migranti, e insomma quando ci sarà, recuperate da qualche parte quel video che tocca fermarsi qui, e lasciare che ve lo prendiate in faccia come abbiamo fatto noi.

La fine di questo concerto, di questa festa ci racconta che la musica non è una divinità, non ti salverà sempre. Ti permette, questo sì, di esprimerti e questo a volte è una salvezza. Ti permette di trovare tuoi simili, e questo a volte è salvezza. Ma di fronte a certe cose, la musica non può diventare quel paio di mani che non ti faranno annegare, come succede in Niente di speciale. Però ti permette di tirare il fiato, che ci sono pochi dolori a questo mondo che non meritano piccole distrazioni. Ti permette di ballare, e fatemelo dire, regaz: quanto cazzo balliamo male.

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