Achille Lauro al Circo Massimo: sembrava di stare ovunque tranne che a Thoiry | Rolling Stone Italia
Addio Sbrocchetto, ci mancherai

Achille Lauro al Circo Massimo: sembrava di stare ovunque tranne che a Thoiry

Ieri sera abbiamo assistito alla cresima del “nuovo” Lauro. Non vuole più scioccare, ma piacere ed essere preso sul serio. Non è più il figlio di Ziggy e Moira Orfei. Ha buttato via la maschera e un po’ di magia

Achille Lauro al Circo Massimo: sembrava di stare ovunque tranne che a Thoiry

Achille Lauro al Circo Massimo

Foto: Alessandra Trucillo

Ieri sera Achille Lauro si è esibito nel primo dei due sold out al Circo Massimo che anticipano il suo tour di ulteriori sold out nei palazzetti che prenderà il via nel marzo 2026. Il 10 giugno dell’anno prossimo, come ha annunciato alla fine del concerto di ieri, Lauro farà il suo primo stadio: l’Olimpico di Roma. Per il rispetto che dobbiamo agli appassionati del Lauro prima maniera, tra cui includiamo preventivamente noi stessi, è il caso di mettere subito le cose in chiaro: ieri, al Circo Massimo, sembrava di stare ovunque tranne che a Thoiry.

Non è che siamo così ingenui. L’ultimo lavoro di Lauro Comuni mortali è un disco che afferma fin dal titolo: è finita la festa patronale glam, adesso si canta con compostezza, si suona con gli archi, si fanno i complimenti a fine show ai genitori tutti – nostri, della crew e del pubblico. Lo sapevamo benissimo. Ma sotto la consapevolezza, covava in noi una superstizione romantica: che, essendo la sua prima volta su un palco definitivo come quello del Circo Massimo, il Lauro delle origini avrebbe potuto ben fare almeno un colpo di teatro, una strizzata d’occhio, un’apparizione miracolosa, anche solo in pantofole. Niente di eccessivo – uno slittamento coreografico, una piuma che cade dal cielo, un guizzo blasfemo a interrompere il flusso delle ballad. Un cameo, più che un ritorno. E invece no. Niente trucco, niente travestimenti, non una sbroccatina di cortesia. Tutto lineare, tutto a modo per 29 pezzi cantati col cuore ma senza mai ricorrere all’ausilio dei pettorali.

Roma, da par suo, è una città nata pronta per una liturgia barocca, un’apocalisse di lustrini, croci al neon e lacrime fittizie ben eseguite. Roma credeva anche più di noi che al Circo Massimo il make-up di Lauro sarebbe stato il vero impianto luci. Per aiutarlo un po’, materna, aveva perfino programmato i fuochi d’artificio per i Santi Pietro e Paolo in perfetta sincronia con l’inizio del concerto.

Tuttavia ieri abbiamo assistito alla cresima del Lauro seconda maniera, la sua trasformazione definitiva da martire trafitto dal pop-rock a cantautore sentimentale da salotto largo, amatissimo dalle mamme che vogliono sentirsi un po’ trasgressive senza rinunciare al Dyson (sia per i capelli che per la polvere). Addio iconografia sacra glitterata, addio a cosplay del rock’n’roll: ieri sera Achille Lauro ha voluto essere credibile, vero, nudo — ma non nel senso che avremmo voluto.

Dove ci aspettavamo uno zoo di comparse cristologiche trattenute a stento da impalcature a foglia d’oro, c’era un palco sobrio, pulito, da varietà di qualità in prima serata. Nessuna scenografia delirante, giusto qualche fiammata ben temporizzata, nessuna discesa dal cielo: solo lui, al centro, vestito con gusto, illuminato bene, con alle spalle una band, una piccola orchestra, a tratti una cantante lirica. Un solo protagonista che cantava canzoni dolceamare, parlava piano e si comportava esattamente come chi ha scelto di non scandalizzare più nessuno, se non magari per eccesso di delicatezza. Una compostezza quasi da Festival di Sanremo permanente, ma senza l’ironia memetica. Un ambiente pensato non per stupire, ma per farsi prendere sul serio.

Foto: Alessandra Trucillo

A dire il vero sì, siamo davvero molto ingenui e ieri sera eravamo pronti a raccontare tutta un’altra storia: quella di una nuova maschera per il nostro pantheon carnevalesco trito, ritrito e fortemente halloweenizzato, dedicata a chi ha capito che l’autenticità è sopravvalutata. Questa maschera, l’Arlecchino della post-verità, l’unico figlio legittimo di David Bowie e Moira Orfei, potremmo battezzarla Sbrocchetto. Nato da un selfie con un poster di Caravaggio stampato in casa, cresciuto da centurioni di plastica e trapper melodrammatici, Sbrocchetto si truccava come uno che sapeva che la sincerità è noiosa. Quando appariva, Sbrocchetto non si presentava: faceva ingresso, sotto forma di piccola esplosione emotiva con piume. Leggenda vuole che da bambino piangesse in re minore e che disegnasse angeli con la matita occhi. A chi lo prendeva in giro lui rispondeva: «Voi avete il diario di scuola, io ho il concept». A 6 anni aveva già detto «Addio per sempre» tre volte, sempre dal balcone verso la strada, sempre con la colonna sonora giusta. Era il nume tutelare degli eccessi performativi.

Sbrocchetto poteva essere punk e devoto, pop e dannato, dannunziano e della Lidl. Ogni contraddizione era calcolata, eppure sembrava un umanissimo inciampo. Era il suo segreto meglio custodito: fingere di essere finti per sembrare veri. E tutti ci cascavamo con la gioia di chi vuol cascare.

Se una maschera come Meo Patacca era romana come il carciofo e il rutto, Sbrocchetto era romano come Cinecittà: era ambientazione, sfondo, oggetto scenico. Roma per lui non era vissuta, ma post-prodotta. Il Circo Massimo, per dire, sarebbe stato il green screen ideale del suo delirio pop, su cui proiettare un musical mentale. Non faceva musica: faceva il personaggio di uno che fa musica. Non cantava: recitava sé stesso che cantava. E ci riusciva talmente bene che non potevamo più distinguere l’originale dal cartone animato.

Sul palco di Sbrocchetto non c’era mai solo un cantante: c’era Sbrocchetto che interpretava Ziggy Stardust che interpretava San Sebastiano. Ed era in questa moltiplicazione di specchi che, per un istante, ci sembrava di vedere davvero qualcosa di sublime. Vedevamo noi stessi, ma più belli, più truccati, più tragici. Più post. Nel riflesso dorato di Sbrocchetto, vedevamo la nostra voglia disperata di essere straordinari senza doverci credere davvero. Il nostro desiderio di urlare frasi importanti con la certezza che nessuno le avrebbe prese sul serio, e quindi il sollievo di potersi finalmente esporre, ma in costume. Vedevamo la nostalgia per un’autenticità che non abbiamo mai vissuto, e allora ci accontentavamo – anzi, godevamo – di questa sacra messinscena, dove ogni emozione era coreografata e ogni lacrima era waterproof.

Vedevamo la possibilità di essere fragili ma fotogenici, cadere con stile, piangere sotto luci studiate, crocifiggerci per un applauso. Vedevamo che il dolore può essere glamour, che il trauma può diventare didascalia, che la verità è un effetto scenico come un altro. E, in fondo, ci andava bene così. Sbrocchetto fingeva di essere vero, noi fingevamo di non sapere che fingesse. E così, a furia di andare avanti, qualcosa di vero ci scappava lo stesso.

La pugnalata a Sbrocchetto è arrivata puntuale come un pezzo attesissimo. Prima di intonare Me ne frego Lauro ieri ha avvertito il pubblico: «C’è chi si nasconde dietro le maschere. Noi no. Noi siamo quello che siamo». Ci siamo detti: ecco il bue che dice cornuto all’asino. Adesso Lauro torno dietro le quinte e spariglia le carte, uscendone fuori a petto nudo sanguinante con una corona di spine in testa. Invece no. Lo stesso Achille Lauro che ci aveva dimostrato, fin dalle sue prime apparizioni pubbliche, che il trucco può essere verità, che la scenografia non è una bugia ma un amplificatore, ieri sera ha voluto cantare davvero, spingere sulla voce, dimostrare di avere una tecnica, una sensibilità, un controllo. L’ha fatto con grazia e professionalità. Ma anche con quella delicatezza un po’ triste di chi ha scelto di rinunciare a qualcosa. Sbrocchetto è stato gentilmente accompagnato alla porta da un Lauro che non vuole più scioccare, ma piacere. Un Lauro che canta bene, si commuove al punto giusto e invita il pubblico a «godersi il momento». Un Lauro che ha scelto di diventare reale, e nel farlo ha perso il trucco, ma anche una parte della magia.

Il pubblico cantava, piangeva, filmava con disciplina per poi smettere subito di filmare, con ancora più disciplina, appena Lauro ha intimato: «Ci sono delle regole qui. Telefono in tasca: domani lo raccontiamo». Rolls Royce arriva, ma non corre più: scivola. Si fanno largo Solo noi, Perdutamente, 16 marzo – tutte belle canzoni, ma la loro bellezza è da album fotografico, non da urlo. C’è delicatezza, c’è mestiere, c’è persino profondità. Il pathos, quello vero, quello che ti fa saltare a piè pari la dignità per abbracciare l’effetto, quello è rimasto chiuso in camerino.

Beninteso: a tutto questo Lauro sembra crederci e tenerci moltissimo che sembri che ci creda. Ma la sincerità, in questo spettacolo, sembra più che altro un effetto collaterale ben riuscito. Infatti, poi, c’è stato quel momento con Boss Doms: il gemello sonoro, il complice di un’estetica, il beat pazzerello incarnato. Salito sul palco per un momento nostalgico (Rolls Royce), sembrava capitato lì per sbaglio, come un sosia di sé stesso in visita di cortesia al museo della giovinezza musicale altrui. Imbarazzato, sotto tono, fuori tempo massimo. Perché quel mondo – il battito animale, la trap rococò, la frenesia della cresta – ieri non c’era più. Non eravamo allo zoo. Non eravamo a Thoiry. Eravamo in un luogo indefinito e rassicurante dove la trasgressione si è messa la camicia bianca e ha chiesto scusa per il disturbo.

Questo nuovo Lauro sobrio sembra essere stato strappato proprio dalle braccia tatuate di Boss Doms da una qualche tenerissima ma implacabile Mara Venier: un passaggio di consegne emotivo da un’esistenza maledetta avvolta nel latex, nel rullare sincopato e nel conseguente sudore a un nuovo, stabile regno di pianoforti, luci calde e abbracci materni. Se prima Lauro era l’icona queer di una generazione instabile, adesso è diventato il figliol prodigo del generalismo televisivo, adottato dalla grande madre dello spettacolo italiano, quella che lava via ogni eccesso con una carezza e un «Sei bellissimo, tesoro». E così, mentre Boss Doms riappare sul palco per pochi minuti, spaesato come un personaggio secondario di una serie cancellata, Lauro gli sorride, vicino ma lontanissimo, con la nostalgia affettuosa di chi è passato a un’altra fase della vita.

Foto: Alessandra Trucillo

Quando giunge il momento di Cristina, però, Lauro non canta: si mette in ascolto. Dice che non la canterà, che preferisce ascoltarla con noi. Resta in piedi, un po’ impacciato, un po’ ieratico, come un attore che improvvisamente si ritrova spettatore della propria parte. Ogni tanto apre la bocca, ma non è chiaro se stia mimando le parole, controllando l’effetto, o solo ricordando com’era averle scritte. È un gesto piccolo ma densissimo, una sospensione della performance che diventa essa stessa performance, un autoritratto in tempo reale che invece di farsi immagine si fa eco. Lauro si auto-ascolta in pubblico: si mette di fianco alla sua stessa canzone come se volesse vedere cosa fa agli altri, ma senza smettere di farla sua.

Cristina è dedicata a sua madre – e questo trasforma tutto. Il brano non è più solo una ballata, ma una reliquia personale messa in vetrina, un’intimità usata come coreografia, eppure ancora capace di mordere. Non cantarla significa proteggerla, o forse il contrario: lasciarla lì, nuda, senza filtri, senza scena. Lui resta accanto al suono come si resta accanto a un letto, o a una vecchia foto: non interviene, si commuove con misura, forse troppo consapevole che ogni parola sarebbe un’aggiunta fuori posto. In quel silenzio, Lauro ci mostra la forma migliore della sua nuova identità.

Non c’è nulla di male a crescere, a maturare, a voler essere ascoltati anche da chi prima cambiava canale. È legittimo — persino ammirevole — desiderare di essere presi sul serio. E Achille Lauro ieri lo ha fatto con grazia. Ma saremmo più falsi di un concorrente di Temptation Island colto in flagrante se affermassimo che quel primo Lauro, teatrale, eccessivo, travestito, non ci è mancato e che non l’avremmo voluto accanto al secondo.

Indossare una maschera su un palco non è necessariamente un difetto, anzi: è una dichiarazione di poetica. È dire al pubblico: «Non sono qui per raccontarvi la verità, ma per mostrarvene una mia possibile interpretazione». La menzogna, se portata avanti con consapevolezza, non nasconde: intensifica, distilla, incarna. È lo strumento con cui l’artista si separa da sé stesso per poter dire qualcosa che, proprio per questo distacco, suona più universale. Achille Lauro questo lo sapeva benissimo. E proprio per questo ci ha colpito tanto ieri sera, quando ha deciso di togliersi il cerone e presentarci una versione di sé più asciutta, più vera, più normale. L’arte potrebbe non aver tanto bisogno di normalità. Ha bisogno di forma, di distanza, di teatro. E se ci siamo commossi di più quando non cantava Cristina piuttosto che durante l’interpretazione perfetta di una ballad, è perché in quel silenzio c’era ancora un’eco del Lauro che sapeva farci sentire il finto come più vero del vero.

Non sappiamo se Sbrocchetto tornerà. Ma lo abbiamo cercato nei silenzi, nei riverberi, nei flash. Magari stava lì, in fondo, seduto con il fonico, ad aspettare un momento che non è mai arrivato. Magari era dietro gli archi, con le piume pronte nello zaino. Magari a una certa se n’è andato a scherzare con qualcuno nel pubblico, come ha fatto proprio Boss Doms con le orde di bambini che gli chiedevano selfie sotto gli sguardi in parte deliziati e in parte preoccupati delle mamme.

Achille Lauro potrebbe essere benissimo l’ultimo artista decadente di un’intera civiltà – quella della musica leggera italiana – che si ostina a crollare con grazia, ma senza mai trovare il tempo – o il coraggio – di finire davvero. Chi meglio di lui potrebbe eseguire questo canto del cigno, camuffato da fenice, prontissima a risorgere dalle ceneri non pervenute di una Iqos?

Forse questo, in mezzo a tanti impegni, Lauro potrebbe averlo dimenticato e ci terremmo a ricordarglielo. Anche perché in un video indimenticabile di sette anni fa Sbrocchetto ci aveva promesso che non avrebbe mai cantato sul serio. E noi gli avevamo creduto.

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