A Torino la Måneskin SPA ha dimostrato di essere più in salute che mai | Rolling Stone Italia
Che je voi dì?

A Torino la Måneskin SPA ha dimostrato di essere più in salute che mai

Il live del Pala Alpitour ha provato che questi quattro non si fanno ascoltare: i Måneskin ti fidelizzano

A Torino la Måneskin SPA ha dimostrato di essere più in salute che mai

Foto: Daniele Baldi

Sapevamo del brindisi post concerto, e pure che il siparietto sarebbe durato poco: niente file di sedie disposte razionalmente davanti a una scrivania, niente possibili screzi; solo una chiacchierata informale, un paio di selfie e, chissà, magari qualche autografo sul vinile omaggio di Rush!, la porzione più golosa del press kit riservato a una fauna disomogenea composta da cronisti, podcaster, critici musicali e braccialettomuniti di varia natura che, per comodità di analisi, facciamo rientrare nella lasca definizione di “stampa italiana” – peraltro, origliando, ho scoperto che la speranza di alcuni mercanti in erba con un fiuto naturale per gli affari e una passione spropositata per le rendite è quella di trasformarlo in una specie di reliquia del domani (gente pratica, i giornalisti); in effetti, nel best-case scenario, un’edizione di Rush! con tanto di firme di Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan potrebbe trasformarsi in una vera e propria chicca nel giro di qualche decennio, consacrandosi come l’oggetto nostrano più vicino che esista alla palla da baseball autografata da Joe DiMaggio o alla jersey dei Chicago Bulls siglata dal quintetto del ’96: sai che figurone nelle aste online? Ridete pure ora, ci risentiamo tra qualche anno.

Quando fanno il loro ingresso in sala stampa al termine di un live generosissimo (più di due ore, praticamente senza interruzioni se non quelle rese necessarie per il cambio di stage), i Måneskin hanno quella doppia anima che, alla fine della fiera, ti aspetti: il confine che separa la genuinità capitolina dei quattro pischelli del liceo Kennedy di Roma e lo star power acquisito dalla band nostrana salita alla ribalta internazionale grazie al più clamoroso allineamento di pianeti della storia recente è praticamente indistinguibile.

Sono perfettamente a proprio agio nei panni di nuovo fenomeno globale, il fardello della next big thing (quelli che, come me, contano le prime decine di capelli bianchi utilizzano ancora questa espressione vetusta: mi dispiace) lo sopportano più che volentieri. È ormai chiaro che il rapporto dei Måneskin con la fama è assimilabile a quello di quattro autoctoni: sono così esageratamente – e, secondo alcuni, fastidiosamente – brillanti, naturali, che non danno l’impressione di essere “arrivati” alla notorietà, ma di essercisi “ritrovati”.

Damiano ringrazia tutti per la pazienza, sorride, dispensa pacche sulle spalle e rifiuta lo spumante – «Non bevo niente», precisa. Alla faccia delle fantomatiche piste post Eurovision: non fosse per le sigarette, ci troveremmo dinanzi a un vero e proprio monumento allo straight edge. Un giornalista interpreta estensivamente il concetto di “incontro informale” e, giustamente, prova a fare il suo mestiere: vuole sapere perché, a inizio concerto, ha detto che prova vergogna a utilizzare tutto il campionario di catchphrase da animali da palcoscenico italiani – «Questa sera mi sentirete parlare un po’ poco perché mi crea imbarazzo dire di battere le mani, perciò fatelo voi», aveva sottolineato ai 13mila del Pala Alpitour poco prima dell’esecuzione di Own My Mind.

Il frontman mette in campo la sua ars diplomatica e ribatte che, semplicemente, quel tipo di lessico lo mette a disagio: non si tratterebbe, insomma, di rifuggire da usi e costumi troppo provinciali, e neppure di scacciare via lo spauracchio della cringeness, ma semplicemente di una necessità di tipo adattivo: noi gli crediamo.

Victoria e Thomas prendono posto tra la comitiva, sorridono, sfiorano i bicchieri dei commensali, dettano i tempi con estrema naturalezza, mettono in fila le proprie sensazioni senza ricevere alcuna domanda (sono talmente bravi, magnetici, che non ce n’è bisogno; sembrano quasi dire: vi diamo cosa scrivere, ma il canovaccio lo decidiamo noi): sono soddisfatti del concerto, la risposta dei 13mila del Pala Alpitour è stata più che positiva, Rush! sta andando alla grande, sono pronti per il tour europeo.

Nello spazio dei pochi minuti che abbiamo a disposizione per incontrarli, Ethan sembra incarnare un archetipo sociologico a parte: rimane un po’ in disparte, è gentilissimo e accorto con chiunque, accoglie ogni attestato di stima con stupore e sincera gratitudine, mantiene la porta agli addetti alla sicurezza per favorire il loro ingresso in sala: non riflette lo stile comportamentale del “bravo ragazzo” delineato da Robert Glover, che fa di tutto per apparire apprezzabile agli occhi di chi gli sta intorno; no: è un buono per davvero, ti verrebbe da abbracciarlo, è il capo scout che tutti avremmo voluto. Racconta di avere apprezzato il dato anagrafico degli ultimi live: richiamare un pubblico un po’ più in là con gli anni (minoritario, certo, ma ben visibile, soprattutto sugli spalti) è la vera conquista, perché contribuisce a sfatare il luogo comune che assimila i Måneskin a una band per ragazzini, risponde alla loro ambizione di volere creare musica per tutti, alle loro pretese intergenerazionali.

Esauriti i convenevoli, devono scappare via: l’agenda dei prossimi giorni è fittissima (dopodomani saranno ad Amsterdam, il 2 e il 3 marzo a Bruxelles, il 6 Berlino, il 10 a Colonia, il 13 a Parigi e tre giorni di dopo di nuovo in Italia, per la due giorni dell’Unipol Arena di Bologna). Nello spazio di una decina di minuti, abbiamo capito di trovarci davanti a degli stakanovisti. È questo, forse, l’aspetto che rimane sullo sfondo quando si tenta di decodificare il fenomeno: i Måneskin sono un monumento all’etica lavorativa, approcciano alla professione con una dedizione quasi fordista, rappresentano il punto in cui mentalità calvinista e spirito capitalista finiscono per intersecarsi: sono nati per dominare il mercato, il loro posto nel mondo doveva essere quello, era scritto nel destino. Lo si percepisce da come interagiscono con la stampa, dalla loro naturale predisposizione alle pubbliche relazioni: sembrano usciti da una puntata di Mad Men.

In un futuro non troppo lontano me li immagino così: seduti in un CDA, magari, intenti a valutare grafici di andamento e analisi di mercato, oppure accomodati nelle scrivanie dei loro uffici californiani minimalisti, pronti a valutare con fare severo l’elevator pitch un po’ fiacco del wannabe startupparo di turno.

Un altro certificato delle skill di questi quattro impresari di ventura travestiti da rockstar? I Måneskin non si fanno ascoltare: ti fidelizzano (drizzate le orecchie, recruiter). Il pubblico accorso al palazzetto è soprattutto quello che li ha sostenuti da sempre, da quel secondo posto a X Factor che, riletto con le lenti odierne, fa quasi un po’ sorridere.

La performance regalata ai 13mila del Pala Alpitour è sintetizzabile in un unico, lapidario commento: “Che je voi dì?”. Quando parte Don’t Wanna Sleep, il brano di apertura, sono coperti da un sipario rosso; una volta squarciato il velo, le clausole del contratto non scritto siglato con lo spettatore vengono immediatamente soddisfatte.

Foto: Daniele Baldi

C’è tutto ciò che è lecito aspettarsi da un live dei Måneskin: i total look Gucci capaci di mettere in risalto corpi esili e imperfetti, un sostrato androgino di fondo che rende la performance inclusivissima e iper fluida, un’idea di rock volutamente barocca e concepita, in primis, come forma d’intrattenimento viscerale e spettacolare, un’inclinazione ad abbandonarsi a un’enfasi fuori scala e tanti saluti al nemo propheta in patria (sua).

Ci sono le cover, quelle che volevano tutti, da Beggin’ – «L’abbiamo suonata così tante volte che ha rotto il cazzo anche a noi», premette Damiano – ad Amandoti dei CCCP, confezionata in una versione acustica che colpisce il bersaglio.

Ci sono le aste dei microfoni distrutte, lo stage dive tra il pubblico, i tapping ostentati, i riff furbissimi, le rotture della quarta parete, le discese tra le prime file. C’è il tempo per suonare I Wanna Be Your Slave per ben due volte, c’è la volontà di non trascurare la lingua italiana – Zitti e buoni, Coraline, In nome del padre, Vent’anni, Torna a casa, La fine – e di regalare ai paganti uno spettacolo degno di una band con status internazionale. Certo, quando Damiano finalmente esce fuori di metafora e chiede a tutto il pubblico di abbassarsi sulle ginocchia, per poi rialzarsi all’unisono, sono cominciati pure i dolori per i trentenni, ma il significato della serata prende finalmente forma: pura energia apparentemente inspiegabile, assoluta espressione di salute e di gioventù, la bellezza e il vigore dei vent’anni sbattuti in faccia al pubblico, chitarre, bassi e batteria utilizzati per dire qualcosa su diversità, fragilità, fobie, sesso, voglia di rivalsa.

Foto: Daniele Baldi

Il finale con Kool Kids ricalca una liturgia ormai consolidata, ma è per forza di cose l’immagine che rimarrà più impressa nella memoria: le prime file salgono sul palco, saltano, si dimenano, l’offuscamento della linea di separazione tra gente comune e aristocrazia prende finalmente corpo nella forma di un minuscolo sabba interclasse. La Måneskin SPA è anche questo, prendere o lasciare (del resto, dopo l’incontro in sala stampa con gli stakeholders, doveva esserci anche un momento aziendale aperto ai clienti).

La scaletta del concerto:

Don’t Wanna Sleep
Gossip
Zitti e buoni
Own My Mind
Supermodel
Coraline
Baby Said
Bla Bla Bla
In nome del padre
Beggin’
Timezone
For Your Love
Gasoline
Torna a casa
Vent’anni
Amandoti
I Wanna Be Your Slave
La fine
Feel
Mark Chapman
Mammamia
Kool Kids
The Loneliest
I Wanna Be Your Slave (bis)

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