A Los Angeles per vedere le Blackpink, le Avengers del k-pop | Rolling Stone Italia
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A Los Angeles per vedere le Blackpink, le Avengers del k-pop

A una delle prime date del tour mondiale del gruppo coreano abbiamo capito qual è il futuro del pop e cosa manca all’Italia (spoiler: molto, tanto, forse troppo). Il report

A Los Angeles per vedere le Blackpink, le Avengers del k-pop

Le Blackpink a Los Angeles

Foto: YG entertainment

Esco dal SoFi Stadium di Inglewood, a Los Angeles, qualche minuto prima della fine dello show per cercare di evitare l’ingorgo che si verrà a crearsi quando i 50 mila presenti si riverseranno nelle strade del quartiere. Tipica mossa da giornalista musicale: non credete mai a un giornalista che vi racconta la fine di un concerto, nessuno di noi ne ha mai vista una, faccio coming out io per la professione. Davanti a me un’auto a guida autonoma si ferma allo stop. Mi fa passare. Attraverso la strada. Ci guardiamo, o meglio, io guardo dentro il vetro disabitato dell’abitacolo mentre lei mi aspetta. Se rimanessi qui fermo davanti a lei (diamole del lei) per un’ora, mi suonerebbe? Non so, ma sicuramente il passeggero che si sta facendo riportare a casa scenderebbe a dirmene quattro.

Il futuro è una bestia strana di cui riusciamo a vedere solo alcuni flash mentre si nasconde sotto la nostra ombra lunga. Il futuro è una bestia strana perché non esiste, non arriva mai eppure è sempre qui davanti quotidianamente nelle nostre vite. Così vicino che dà fastidio non catturarlo mai. In Italia, poi, il futuro arriva ancora un po’ dopo. Non solo nelle auto a guida autonoma, come sappiamo, ma anche nella musica. L’idea era quindi di arrivare al SoFi Stadium di Inglewood, a Los Angeles, per cercare di leggere il futuro con anticipo e vedere la seconda data americana del nuovo tour mondiale delle Blackpink. Le quattro ragazze infatti arriveranno in Italia solo tra qualche settimana, a inizio agosto, per una data del loro Deadline Tour, il primo dal 2023 dopo una parentesi che le ha viste dedicarsi ai loro progetti individuali.

Quando i 50 mila presenti escono della venue io sono a un angolo della strada ad aspettare un Uber visto che con l’ID italiano del mio telefono non posso scaricare l’app per le auto del futuro. Una buona similitudine con il k-pop in Italia: mentre il genere made in South Korea sta ottenendo risultati – anche e soprattutto grazie alle Blackpink – al di là di ogni previsione in tutto il mondo, nella nostra penisola musicalmente autarchica sta faticando ad affermarsi. Mentre nel mondo le Blackpink infrangono record – in particolare su YouTube dove, oltre a essere la band con più follower al mondo, vantano una decina di video oltre il miliardo di view – in Italia in questi primi nove anni di carriera hanno ottenuto un solo disco d’oro. Per intenderci, è lo stesso numero che può vantare Serena Brancale. Posso capire che l’Italia sia un Paese diffidente verso le culture orientali (in passato vi ho parlato di un certo odio, tutto nostro, verso il k-pop), verso il pop più moderno (sapete chi altro ha da poco ottenuto il suo primo disco d’oro in Italia dopo anni di hit? Charli XCX con Brat), e verso le donne nella musica in generale, ma questo voltar le spalle al k-pop, uno dei generi (se così possiamo definirlo) più influenti di questo decennio, rischia nuovamente di lasciarci lontani dalla comprensione del presente, fermi nel passato, o a piedi, come me all’angolo in attesa di un Uber bloccato nel traffico.

Quando le 50 mila Blink – questo il nome di chi fa parte del fandom delle Blackpink – accolgono l’entrata di Jennie, Rosé, Lisa e Jisoo capisco essere arrivato il momento in cui devo mettermi quegli earplug tanto sponsorizzati online nella demografica dei trentenni. Un boato acutissimo. Il pubblico è composto principalmente da donne tra i 15 e i 30 anni, ma gli uomini (alcuni costretti, altri – come me – venuti per scelta) sono di certo più dei genitori con figli più piccoli. Le urla però, vi assicuro, sono piuttosto alte e, più che altro, non danno tregua per tutto il concerto. Se il Primavera Sound nella sua ultima edizione aveva lanciato Charli XCX, Sabrina Carpenter e Chappel Roan come Superchicche del pop, questa reunion delle Blackpink dopo la pausa dedicata alle carriere personali fa di Jennie, Rosé, Lisa e Jisoo le Avengers del k-pop.

Foto: YG entertainment

Nei posti accanto ai miei le Blink sono in agitazione febbrile. La maggior parte di loro è armata del gadget ufficiale della band, uno starlight a forma di doppio cuore illuminato di rosa che nella verticalità del SoFi Stadium diventa subito una coreografia continua, un cielo stellato pink che non smetterà mai di ondeggiare nelle due ore e mezza di concerto. Si parte con Kill This Love (930 milioni di ascolti solo su Spotify, oltre 2 miliardi su YouTube), Pink Venom (880 milioni di stream, 990 di view) e How You Like That (oltre un miliardo sia di stream che di view), tutte di fila, un trittico che rende lo stadio un inferno di acuti e che mette subito in chiaro che siamo di fronte a star del pop globali. Il live infatti punta tutto su di loro, con un’attenzione maniacale nel mostrare le quattro sul gigantesco schermo scomponibile che fa da fondo alla scena e pochissimi colpi di scena (non ci sono auto che volano alla Beyoncé o cringiate alla Katy Perry che, per la cronaca, sta suonando dall’altra parte della strada al Kia Forum per una data unica da 15 mila persone, contro le 100 mila in due giorni delle Avengers), e un pensiero al live differente da quanto le altre popstar ci hanno abituato. Le Blackpink non cercano l’effetto wow perché sono loro stesse l’effetto wow. Il livello di fandom è a questo livello, non c’è bisogno di altro: al pubblico basta poter ballare con loro al di là dello schermo. Le Blink vestono coi colori sociali nero e rosa, agitano i cuori illuminati, ripetendo a memoria le coreografie imparate sui tutorial di YouTube e TikTok. Io ho dei calzini rosa, ma vesto bianco, e non so le coreografie. Un po’ rosico.

Godo invece a sentire i momenti sonori più assurdi, come i colpi di doppia cassa metal, i fill di batteria dal gusto crossover, i cambi di registro in stile prog. Il k-pop fa infatti di questo pastiche tra mainstream pop, rock pesante e entusiasmo EDM il proprio impasto sonico, e il fatto che ci sia una band impeccabile a evidenziarlo è una goduria laddove questo puzzle trova il giusto equilibrio tra gli elementi. Altre volte, invece, la differenza tra kawaii (passatemi il termine anche se giapponese) e kitsch è così sottile che è difficile capire da che parte ci troviamo. Questo è il suono della generazione ADHD, cambi continui e inaspettati a gran velocità. Il presente, il passato, il futuro, tutto assieme. Come Uber, i taxisti abusivi e le auto a guida autonoma.

 

 
 
 
 
 
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Altra particolarità: sempre andando contro quanto siamo abituati dalle band, due dei cinque atti in cui è suddiviso lo spettacolo sono dedicati alle quattro come soliste. Prima è il turno di Jisoo e Lisa, ma è con Jennie e Rosé che il ritmo dello show cambia. Se la prima, fresca del successo del suo show al Coachella, dimostra di essere quella più completa tra le quattro, con un break che ricorda Rosalía (che l’estate ha collaborato però con Lisa per New Woman), è Rosé a portarsi a casa il titolo di MVP quando durante l’esecuzione del suo successo globale APT tira fuori dal cilindro Bruno Mars, la grande sorpresa di giornata. Le Blink sono incontenibili, Mars corre per la piattaforma ad anello del palco celebrato come un dio mentre dal cielo piovono coriandoli. Potrebbe essere il finale perfetto per chiunque, per le Blackpink invece è solo un momento dello show. Avere Bruno Mars come ospite è solo l’ennesima dimostrazione di potere, se c’era ancora bisogno di dimostrazioni. «Cosa hai fatto Rosé?», dirà poco allibita Jennie in un momento di conversazione delle quattro con i propri fan. E pensare che da noi sul palco, nelle migliori delle occasioni, arriva Rose Villain, penso io.

Il rapporto tra le quattro performer e il pubblico è infine l’ultimo punto su cui bisogna soffermarsi. Le Blackpink parlano poco, ma quando lo fanno incarnano tutta l’educazione da idol coreano. Quando accade sembrano quattro ragazze normali, quattro amiche quasi imbarazzate per essere riuscite a conquistare il mondo. Dietro c’è il sudore e la preparazione quasi militare del mondo idol, ma coi loro sorrisi timidi recitano la parte di chi su quel palco ci è finito quasi per caso. Questo essere popstar, ma al contempo molto umane (le coreografie non sono complesse, le parti cantante non sempre impeccabili), creano un ponte reale con le Blink, una parvenza di dialogo a cui le fan si aggrappano con amore. Dimenticatevi la popstar intoccabile (Beyoncé), quella troppo brat (Charli) o troppo strana (Chappell Roan), le Blackpink sono impossibili e accessibili, pazzesche e normali, icone globali e amiche della porta accanto. Questo è lo sweet spot perfetto in cui il k-pop ha costruito il suo successo globale. Del resto loro sono bravissime in questo, e l’amore che c’è sul palco (tra di loro, e verso il pubblico) è credibile. Se il pop deve vendere un sogno, difficile immaginare di meglio oggi.

Foto: YG entertainment

Quando il mio Uber è quasi arrivato mi chiedo come l’Italia vorrà affrontare il futuro del pop in un momento in cui l’industria musicale sta iniziando a mostrare le prime crepe (i vari tour annullati quest’estate delle nostre popstar) di questa autarchia. A sentire le Avengers del k-pop è evidente che in Italia – nel mondo del pop – manchi una certa preparazione, il confronto/dialogo con l’esterno (e l’estero) e il pensiero proattivo di poter fare qualcosa di più grande dei propri confini geografici. Le Blackpink hanno portato 100 mila persone a Los Angeles (record della venue) cantando – anche e spesso – in coreano, parlando – anche e spesso – in coreano, facendo affidamento sulla propria cultura senza vergogna e timori. L’atavica scusa nostrana che a noi non ci caga nessuno per colpa della lingua è po’ vecchiotta, così come l’odio cieco per il k-pop, uno dei generi che meglio sta raccontando il bisogno del pop contemporaneo. Perdere l’occasione di vedere dov’è direzionato il futuro del pop è un rischio che sarebbe meglio non correre per non ritrovarci, se possibile, ancora più indietro.

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