Non è più tempo di rap militante e di nu metal, ma per chi è stato adolescente a cavallo fra gli anni ’80 e i ’90 i Public Enemy e i Korn sono il simbolo di due rivoluzioni musicali. Entrambi hanno impresso un cambio di paradigma mossi dalla voglia di andare oltre gli schemi dei rispettivi generi. I Public Enemy hanno flirtato col thrash degli Anthrax per aprirsi a un nuovo pubblico, i Korn hanno pescato a piene mani dall’hip hop per dare groove ai propri incubi.
Flavor Flav, l’hype man più celebrato della storia dell’hip hop si presenta per primo, alle 20 precise, sul palco della seconda giornata di Firenze Rocks (che ha ospitato anche Enter Shikari, Soft Play, Atwood, Loccasione). Indossa una maglietta dell’Eras Tour di Taylor Swift e introduce Chuck D come «my partner in crime, my partner in dime». Il rapper ha partecipato nel 2017 alla prima edizione del festival fiorentino coi Prophets of Rage. Ora come allora alla Casa Bianca c’è Trump.
La formazione si completa col batterista T-Bone Motta, scelta quanto mai azzeccata per un gruppo rap in questo contesto, DJ Johnny Juice ai piatti e la Security of the First World, il mitico gruppo di ballerini in uniforme militare, attentissimi a far sì che sul palco ci sia un certo livello di stile. Ci sono anche il fratello di Chuck D e il figlio di Flavor Flav: i Public Enemy sono diventati un affare di famiglia. Shut ’Em Down offre l’occasione per celebrare il mito di Sly Stone e il dj in chiusura di pezzo fa partire I Get Around, nel caso qualcuno avesse scordato che abbiamo appena perso uno dei più grandi songwriter di sempre, Brian Wilson.

Foto: Giuseppe Craca
Il gruppo alterna classici come 911 Is a Joke, Bring the Noise e He Got Game, costruita su un campionamento dei Buffalo Springfield, ad appelli alla pace, all’unità dei popoli, all’antirazzismo. L’orologio di Flavor Flav si sarà ridotto di dimensioni, ma suona ancora la sveglia. La chiusura inevitabile è l’inno Fight the Power con Flavor Flav in mezzo al pubblico e mega selfie finale con il pit, al termine di un discorso su quanto ogni essere umano sia connesso al prossimo.
Passano 45 minuti e dalla fine degli anni ’80 arriviamo al 1994 quando un improbabile quartetto da Bakersfield, California pubblica l’esordio omonimo, Korn. Il disco, epocale, si apre con Blind, che viene scelta da Jonathan Davis e compagni per dare il via allo show. È il brano simbolo della band e, forse, dell’intero nu metal: la batteria inconfondibile che richiama al massacro, la linea di basso strisciante ma funky, le due chitarre pronte a litigare fra loro e quel “Are you ready?” con cui i Korn hanno dato il via alla loro personalissima rivoluzione, facendo improvvisamente sembrare vecchio (quasi) tutto il resto.
I Korn sono i figli dell’hip hop del decennio precedente, marciti nella noia suburbana ma capaci – a differenza degli esponenti del machismo metal fino a quel momento imperante – di esporre le proprie fragilità. E forse nessun altro è riuscito a farlo come Davis, con l’immancabile kilt, agitatore di tutti gli alienati di periferia. Il suo inferno personale è diventato non solo un rifugio, ma una ragione di gioia per migliaia di ex ragazzi accorsi alla Visarno Arena.
Benedetti da un volume finalmente adeguato, forse il più alto mai sentito da queste parti, i Korn fanno un concertone e infilano una hit dopo l’altra in 90 minuti: la filastrocca per serial killer Shoots and Ladders, con consueta cornamusa, che sfocia in One dei Metallica, Got the Life, il rito collettivo di Somebody Someone, la splendida Clown e tracce di culto come Twist e Ball Tongue.

Foto: Giuseppe Craca
I Korn sono vestiti di nero, non c’è spazio per i colori sul palco e nei visual in cui appaiono strade perdute, nature morte e segnali distorti, eppure il concerto è una stranissima festa dark dove i quarantenni sono felici di celebrare le insicurezze e l’alienazione di quand’erano ragazzi. Zero cazzeggio: Davis si aggrappa al microfono disegnato da H.R. Giger come se la sua vita dipendesse da quello, Head e Munky sono piegati sulle chitarre in attesa che un ortopedico arrivi a sbloccare le schiene, la sezione ritmica con Ra Díaz al basso e Ray Luzier alla batteria non fa rimpiangere quella originale, anzi. Qualche sbavatura qua e là non intacca un concerto serratissimo e vibrante che restituisce una band in ottima forma e un Davis in stato di grazia.
Si chiude col supersingolo Freak on a Leash, quello accompagnato dal video animato da Todd McFarlane, e la Visarno Arena che esorcizza i propri mostri cantando “happy birthday” a Luzier. E alla fine l’improbabile party gotico manda a casa decine di migliaia di persone sorridenti.