«A Coltrane non sarebbe successo»: la prima volta dei Pearl Jam all’Apollo di Harlem | Rolling Stone Italia
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«A Coltrane non sarebbe successo»: la prima volta dei Pearl Jam all’Apollo di Harlem

La grande eredità della musica del passato, la scaletta originale, i computer e l’amplificazione che saltano: lo show memorabile della band di Eddie Vedder nel tempio della musica afroamericana

«A Coltrane non sarebbe successo»: la prima volta dei Pearl Jam all’Apollo di Harlem

I Pearl Jam all'Apollo di New York, 10 settembre 2022

Foto: Kevin Mazur/Getty Images per SiriusXM

All’incirca a metà del concerto speciale che i Pearl Jam hanno fatto sabato sera per SiriusXM all’Apollo di Harlem, a Eddie Vedder sono venuti in mente gli spettacoli che Bessie Smith fece in quella stessa sala nel 1935. «Si è esibita per quattro settimane di fila», ha detto al pubblico. «Probabilmente stava in piedi qua dove adesso sono io. Non avevamo mai suonato qui. Anche solo essereci è notevole».

La venerazione mostrata da Vedder per il “sacro suolo” dell’Apollo è chiaramente condivisa da tutti i Pearl Jam, che hanno messo in piedi uno show diverso dai soliti: poche hit anni ’90, tante canzoni tratte da Gigaton, pezzi meno noti dagli album recenti, qualche vecchio classico e un paio di cover. Non sarà piaciuto a chi ha sperato tutta la sera di sentire Jeremy o Alive, ma è stata una serata speciale per gli hardcore fans dei Pearl Jam.

Per tutti quanti, comunque, l’inizio è stato decisamente movimentato. Dopo cinque canzoni meravigliosamente minori (Footsteps, Pendulum, Sleight of Hand, Parachutes, Hard to Imagine), Vedder ha spiegato al pubblico che si sarebbero fermati un minuto per «riavviare il computer», facendo poi una battuta: «Sono sicuro che a John Coltrane non è mai toccato dire una cosa del genere su questo palco».

Alla fine il minuto è durato 20 lunghi minuti durante i quali i tecnici hanno lavorato freneticamente per far ripartire lo show. Nel frattempo Vedder ha suonato una versione acustica di Keep Me in Your Heart di Warren Zevon, ma senza amplificazione buona parte del pubblico non l’ha sentita. Quel che è peggio, è che la temperatura stava diventando insopportabile. Alcuni hanno cercato di farsi aria, altri hanno chiesto alle maschere di accendere l’aria condizionata (che probabilmente ha funzionato per l’ultima volta ai tempi del Live at the Apollo di James Brown).

Alla fine il concerto è ricominciato con una feroce Who Ever Said e con canzoni che hanno accontentato anche i vecchi fan come Even Flow a cui sono seguite Dance of the Clairvoyants, Quick Escape, Whipping, Spin the Black Circle. Vedder ha dedicato quest’ultima a Howard Stern e alla sua crew. «Li abbiamo rincontrati stasera dopo tanti anni. Robin [Quivers], quanto mi piace la tua risata, è la gioia di cui ho bisogno».

Vedder ha anche tirato fuori un aneddoto spassoso su Ray Charles risalente al 1989, quando il cantante dei Pearl Jam lavorava come roadie in un locale di San Diego, e ha salutato i Red Hot Chili Peppers che si esibiranno qui martedì. «Ci hanno portati in giro con loro quand’eravamo ancora una band neonata che la faceva nei pannolini. E non ci hanno portati solo in teatri come questi, ma anche al Lollapalooza del 1992. Li ringraziamo per averci cambiato la vita, ma cazzo, trent’anni dopo apriamo ancora per loro».

Il concerto è finito con Porch, con tanto di assolo pazzesco di Mike McCready. E poi nel bis Better Man cantata in coro, Do the Evolution, Baba O’Riley degli Who. Sembrava finita quand’è invece arrivata Indifference.

Quando i Pearl Jam salutano il pubblico è suppergiù mezzanotte e la camicia di Vedder è zuppa di sudore. Fra meno di 24 ore salirano sul palco del Madison Square Garden. Lì le cose andranno più lisce, ma rendere il concerto altrettanto memorabile non sarà facile.

Tradotto da Rolling Stone US.

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