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A Bologna i Blink-182 sono stati «meglio dei Beatles»

Così hanno detto scherzosamente: per noi invece, sono stati i simpaticissimi cazzoni di sempre, e hanno dato vita alla maxi cena di classe di cui avevamo bisogno

Credits: Arianna Carotta

Forse c’è un fil rouge tra la passione di Tom DeLonge per gli alieni e il perché, per molti anni, i Blink–182 non sono stati accettati da gran parte della critica e dall’ambiente musicale nel quale erano cresciuti. Ma ci arriveremo, visto che è apparso piuttosto evidente ieri sera alla fine del concerto che ce li ha fatti ritrovare dal vivo all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno (Bologna) nella prima e unica data italiana del tour europeo.

Un concerto molto atteso, soprattutto da chi – tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000 – si è formato con la loro musica, anche litigando con amici o fratelli “duri e puri”, che non accettavano il successo di una band che ha portato una ventata di freschezza (e di cazzeggio) in un panorama musicale appena uscito dai sogni infranti e con le ossa rotte dalla stagione del grunge.

Un live da sold out, con 13.500 paganti, durato circa un’ora e tre quarti tiratissima, dove Tom DeLonge, Mark Hoppus e Travis Barker, sopravvissuti a vari scioglimenti, a incidenti rocamboleschi e a malattie, sono apparsi in splendida forma, sia fisica che artistica. Non sono mancati alcuni brani di One More Time… il nuovo album in uscita il prossimo 20 ottobre, ma per la stragrande maggioranza la folla che si è radunata era lì per cantare i vecchi pezzi, fare un tuffo nel passato, ripercorrere le emozioni dell’adolescenza. Su questo i Blink non hanno tradito, riuscendo lucidare le le loro sonorità, rendendole attuali e rinvigorendo l’autostima dei 30-40enne presenti (e di molti 50enni) sul fatto che possano ancora pogare e godersi un concerto senza prendersi troppo sul serio.

Al nostro arrivo alle 19.30 il parcheggio dell’Arena era già al completo. Ma l’area è veramente organizzatissima e il multipiano del Gran Reno, distante pochi passi, è stato lasciato a ingresso gratuito. Così ne approfittiamo, come la marea di gente che affollava il centro commerciale, per prepararci nel migliore dei modi e per autoconvincerci di avere qualche anno in meno sulla carta d’identità. Sacchetto preso al volo a uno dei fast food, con gallette di pollo e una bibita per rifocillarci consumati lungo il sovrapassaggio che unisce le due strutture, e ci troviamo già all’ingresso dove a essere preso d’assalto è il banco del merchandising.

I prezzi non sono più quelli di 20 anni fa, come tutto, però si può pagare con il POS e sembra già un grande passo avanti. Ora, però, si compra una t-shirt o una felpa, a quanto pare, più per ricordo che per utilizzarla nella vita di tutti i giorni. Un gagliardetto per vantarsi dicendo in seguito “io c’ero”. Anche perché tantissimi sfoggiano outfit tirati fuori dall’armadio e conservati da vent’anni per l’occasione. Magliette dell’epoca un po’ slavate, che hanno conosciuto poghi e stage diving di un’epoca dove i social neanche esistevano. Non mancano i bagarini, che però sembrano non trovare grande interesse da parte della gente, ma forse l’evento era così atteso che la maggior parte si era attrezzata per tempo con i biglietti per non rischiare di perdersi quest’unica data della reunion.

Il clima generale, una volta dentro, ha il gusto della rimpatriata, della cena di classe dopo che non ci si vede da dieci anni o forse più. I giovanissimi non mancano, benché siano la minoranza, e gli appartenenti alla Gen Z appaiono più al seguito dei genitori che spinti dalla curiosità di vedere dal vivo la band californiana. Infatti, prima del concerto – e anche durante per lunghi tratti – si vedranno scattare pochi selfie: uno di coppia, uno con il gruppo di amici e uno con il palco come sfondo. Il resto è stato godimento di cantare evergreen che hanno segnato la propria generazione (più la Y che la Z), abbracciarsi come una volta senza un perché e ritornare a una forma di socialità pre smartphone dove molto rimaneva nei ricordi più che sulla memoria di un cellulare.

Il gruppo spalla The Story So Far – bravi a scaldare la platea ma un po’ troppo derivativi, forse ancora non pienamente a fuoco – ha preparato il terreno per la festa. Quel che invece ha fatto presagire l’inizio di questo improbabile Mak P è stato l’atterraggio, letteralmente, della batteria di Travis Barker. Viene calata dall’alto e già durante le manovre il pubblico si prepara alla standing ovation che esploderà al sollevamento del telo nero che la copriva. E si comprende quanto sia attesa la sua performance. Così velocemente arrivano le 21.15 e in perfetto orario (rispettando persino il quarto d’ora accademico di ritardo) entrano in scena i Blink–182 nel tripudio generale. Tre musicisti che, scorrendo le biografie, per usare un eufemismo hanno tanto vissuto e che sono ormai tutti sulla soglia dei 50 anni, ma che dimostrano ancora di saper tenere il palco come pochi, proponendo un concerto in perfetto equilibrio tra passato e presente, tra sonorità pop-punk che rendano onore alla loro storia senza scadere soltanto nella nostalgia.

La voce di Tom DeLonge è acida e squillante come sempre, così come quella di Mark Hoppus più melodica e tendente al pop. Dietro di loro, vero motore del gruppo, un batterista come Travis Barker con le sue evoluzioni (la pedana a un certo punto prende il volo e si inclina verso la platea, ma rispetto al passato ha evitato di roteare a 360 gradi) e un muro sonoro che in pochi, come lui, riescono a creare mantenendolo costante per tutta la durata del live. A un certo punto, per dimostrare quanto sia in pieno controllo dello strumento, Tom gli copre la testa con un asciugamano e Travis, incurante di non poter contare sulla vista, prosegue a picchiare con le bacchette con la precisione di un chirurgo e la potenza di un martello pneumatico. Impressionante.

Anche la scaletta del concerto sembra studiata per fare un lungo viaggio attraverso tutta la loro carriera, passando da pezzi che gli hanno aperto le porte della discografia, come Anthem Part Two o Man Overboard, passando a ballate romantiche come I Miss You che il pubblico non ha smesso di cantare per diversi minuti neppure a brano concluso. La sintonia fra loro sembra tornata, tanto che sono stati diversi i siparietti fra Tom e Mark, che hanno scherzato nel consueto stile grottesco e leggero che li ha contraddistinti. Fino a quando Hoppus ha provocato i presenti urlando: «Fuck the Beatles!» e aggiungendo: «È quello che vorrei fare se potessi viaggiare nel tempo».

Ma solo chi non li conosce dalle origini potrebbe essersi stupito (nell’ultimo video di Dance With Me scimiottano persino i Ramones), perché infatti subito dopo DeLonge devia la sparata in perfetto stile Blink: «Giusto per chiarire, non intendiamo “fanculo i Beatles”, ma letteralmente fare sesso con loro, Paul McCartney e John Lennon. Però, sapete cosa, diciamolo: siamo molto meglio dei Beatles». Nel mentre scorrono alcuni brani del nuovo disco, Edging e More Than You Know, più maturi e meno incisivi dei loro pezzi storici, ma dove riescono a imprimere il timbro “Blink” e a far scatenare il pubblico: dal vivo funzionano e questo conta.

Non manca un momento più toccante e privato, quando Mark parla alla platea, spiegando di aver passato anni difficili a causa di un tumore, ma che ora che sta meglio (anche se continua a curarsi) ed è convinto che «voi mi avete salvato la vita due volte». Tripudio che lancia l’ultima parte del live dove la scena è tutta per i loro cavalli di battaglia come What’s My Age Again?, col palazzetto vhe trema per la folla che canta e salta, All the Small Things e Dammit, un trittico micidiale che chiude la serata, ci rimane in testa mentre ci avviamo al parcheggio e ci fa pensare alla soluzione di come mai, per diverso tempo, i Blink siano stati bistrattati dalla critica e rifiutati dall’ambiente alternativo della musica (nel 2000, sempre in questa zona durante l’Independent Days, furono costretti a scappare dal palco per una sassaiola).

E forse lo spiega ciò che disse Tom DeLonge a proposito della sua passione per gli alieni, un tema al quale si è talmente dedicato che sembra essere tra le cause della sua fuoriuscita passata dal gruppo: «Molte persone tendono a pensare che “alieno” significhi una sola cosa. Dico sempre alla gente: «Se sei nell’oceano e sei un pesce, e vedi arrivare una medusa, dici qualcosa tipo: “Ok, questo posto è pieno di questa forma di vita”. Poi arriva un delfino e dici: “Aspetta, ok, c’è anche quello. Poi arriva la balena… E non hai idea che fuori dall’oceano ci sia persino la terra, piena di umani che gettano immondizia nell’oceano». Il che rimanda alla storiella ripresa dallo scrittore americano David Foster Wallace che racconta di due giovani pesci che nuotano spensierati, ma che a un certo punto incontrano un pesce più anziano in direzione opposta che gli dice: «Salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?». E i due giovani pesci, perplessi, si domandano: «Acqua? Che cos’è l’acqua?».

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