Ho seguito con grande attenzione lo svolgimento delle prime due date della nuova serie di concerti che Paul McCartney ha aggiunto al tour iniziato nel 2022 e significativamente intitolato Got Back. Nel 2022 Macca aveva 79 anni, e già allora stupiva la sua capacità di portare a termine show di quasi tre ore. Oggi di anni ne ha 83, e sono bastate quelle prime due esibizioni per fugare ogni dubbio: Paul è ancora in forma smagliante.
La prima data, annunciata a sorpresa pochi giorni prima dell’inizio ufficiale del tour, si è svolta nella cittadina costiera di Santa Barbara, in California. I biglietti sono andati esauriti in pochi minuti, nonostante i prezzi elevatissimi, e lo show è durato “solo” un paio d’ore, probabilmente a causa delle restrizioni orarie imposte dal luogo. Ma già la seconda, a Palm Desert, sempre in California, ha riportato l’ex Beatle su territori familiari: uno show di due ore e quaranta, con una scaletta piena zeppa di classici tratti da tutta la sua carriera. Un dettaglio importante, questo, per chiunque si chieda quanta energia abbia ancora da spendere sul palco.
La terza data, quella di Las Vegas, ha confermato la scaletta di Palm Desert, e con la quarta, ad Albuquerque, New Mexico, alla quale ho presenziato, posso ribadirlo con certezza: Paul McCartney è una leggenda, certo, ma soprattutto, è un artista capace ancora di fare la differenza, soprattutto dal vivo. Canta e suona basso, chitarra acustica, chitarra elettrica, pianoforte, mandolino, ukulele. Non si ferma mai, tranne che per pochissimi minuti prima dell’encore.
Foto: Enzo Mazzeo
Brian Ray. Foto: Enzo Mazzeo
La scaletta, 35 canzoni in tutto, attraversa la storia della musica degli ultimi 60 anni abbondanti. Diversamente dagli show di un altro gigante come Bruce Springsteen, altrettanto lunghi e intensi, i concerti di McCartney non sembrano mai un esercizio fisico. Paul non lo vedi sudare. Si toglie la giacchetta alla fine del secondo brano (quando se ne vanno i fotografi, praticamente) e dice, scherzando: «Questo sarà il primo e unico cambio d’abito che mi vedrete fare». Da lì in poi rimane impeccabile: gilet, camicia, capelli fluenti, una fisicità che trascende il tempo. E l’altrettanto leggendario basso Höfner tra le mani per gran parte dello show. Mantiene quell’atteggiamento gioviale e allegro che lo ha sempre contraddistinto, supportato da una band affiatatissima con cui collabora da anni: i chitarristi Rusty Anderson e Brian Ray, il batterista Abe Laboriel Jr., il tastierista Paul “Wix” Wickens e una sezione fiati che arricchisce il tutto con discrezione ma grande efficacia.
Il concerto parte con Help!, il grido personale di John Lennon, che Paul non cantava per intero dai tempi dei Beatles. Qui ne interpreta la parte vocale principale, con i suoi chitarristi a fare da controcanto, proprio come nella versione originale. La scaletta non ha grosse sorprese, ma quando hai tra le mani capolavori così, non serve stupire: basta suonare. Qualcuno, seduto accanto a me, sussurra: «Mi basta respirare la stessa aria di Sir Paul per una sera». Come dargli torto. Si passa dai tempi di Wings Over America ai Beatles dello Shea Stadium, fino alle tappe soliste più recenti. McCartney promette al pubblico «canzoni vecchie, nuove e a metà», ma le “nuove” sono solo relativamente nuove. Torna Come On to Me, ma soprattutto Now and Then, il brano “finale” dei Beatles, completato di recente partendo da una vecchia demo di Lennon degli anni Settanta. Sugli schermi scorrono immagini generate con l’Intelligenza Artificiale che mostrano i Beatles attraverso le epoche. Non ci sono effetti scenici invasivi: l’impatto visivo è affidato alle immagini e alla musica. E funziona molto bene.
Abe Laboriel Jr. e Brian Ray. Foto: Enzo Mazzeo
Foto: Enzo Mazzeo
Abe Laboriel Jr. dona una potenza incredibile a tutti i brani, con il tocco giusto e senza mai oscurare Paul (lezione evidentemente imparata da un certo Ringo). Wix Wickens esegue un bel solo d’organo su Let Me Roll It, e fa sorridere tutti quando suona il campanello d’ingresso in Let ‘Em In. Rusty Anderson è instancabile, mentre Brian Ray si alterna, all’occorrenza, tra chitarra e basso. Ma il momento magico arriva quando Paul omaggia Jimi Hendrix: dopo Let Me Roll It, si lancia lui stesso nell’assolo di Foxy Lady. Tra un brano e l’altro, racconta aneddoti che da soli varrebbero il prezzo del biglietto: la prima volta che vide Hendrix al Bag O’ Nails di Londra, la registrazione di Love Me Do agli Abbey Road Studios (all’epoca EMI Recording Studios), o di In Spite of All The Danger, il primo brano inciso dai Beatles. E poi l’incontro con George Martin, che Paul definisce «un uomo adorabile».
L’atmosfera è pervasa da un senso di nostalgia. Sappiamo tutti che questa potrebbe essere l’ultima volta che vediamo Paul McCartney dal vivo. Le immagini che scorrono sullo schermo, con i Fab Four da giovani, sottolineano questa consapevolezza. Durante Maybe I’m Amazed, vengono mostrati video più intimi e privati: Paul a cavallo, con una bambina piccola in braccio. «Avete visto la bambina? È mia figlia Mary. Oggi ha quattro figli. Incredibile come passa il tempo». Il momento più toccante arriva con Blackbird. Paul suona solo, in cima a una pedana che si alza verso il cielo. Poi racconta di quando, nel 1964, i Beatles si rifiutarono di suonare a Jacksonville, Florida, a causa della segregazione razziale. «Ci dissero che i bianchi sarebbero stati da una parte, i neri dall’altra. Pensammo: questa cosa è molto stupida. E ci rifiutammo di salire sul palco. Alla fine ci ascoltarono e suonammo per tutti».
Here Today è dedicata a John Lennon. «Da ragazzi, a Liverpool, non ci dicevamo mai quello che provavamo. Con questa canzone ho voluto farlo, anche se è troppo tardi». Something, scritta da George Harrison, è ovviamente dedicata a lui, e parte con Paul all’ukulele («Io e George ci trovavamo spesso a casa sua a improvvisare lunghe jam con questo strumento», dice) e si trasforma poi nella versione elettrica con tutta la band.
Rusty Anderson. Foto: Enzo Mazzeo
Foto: Enzo Mazzeo
Non c’è un attimo di calo. Band on the Run è devastante. Get Back, con le immagini tratte dal docufilm di Peter Jackson (che Paul ringrazia sul palco), emoziona. Let It Be e Hey Jude sono da pelle d’oca: si canta, si piange, ci si abbraccia. E poi, durante Live and Let Die, esplodono fiamme, fuochi d’artificio, Paul si tappa le orecchie scherzando. Sembra un concerto dei Guns N’ Roses (Live and Let Die era uno dei momenti topici dei loro concerti a inizio anni Novanta). Infine, nell’encore, duetta con John su I’ve Got a Feeling: sullo schermo, le immagini del celebre concerto sul tetto del 1969. «Grazie a Dio abbiamo questa tecnologia. Posso tornare a cantare con John. Mi manca cantare con John». Chiudono lo show Sgt. Pepper’s (Reprise), una potentissima Helter Skelter e il trittico finale: Golden Slumbers / Carry That Weight / The End. E come da copione, Paul saluta così: «È stato un bellissimo show, davvero. Ma credo che a un certo punto dovremmo anche andare a casa».
Sono 20 in tutto le date programmate per questo tour americano, con le ultime due previste il 24 e 25 novembre allo United Center di Chicago. Poi, chissà. Paul tornerà in Europa? Ci sarà una tappa italiana? Al momento, non è dato saperlo.
Ma quando esco dall’Isleta Amphitheater di Albuquerque, mi rendo conto di aver assistito a un evento vero. Uno di quelli da raccontare ai nipoti. E per la prima volta in trent’anni di concerti, faccio una cosa che non avevo mai fatto prima: infrango la mia regola non scritta, quella che mi ha sempre impedito di ascoltare, subito dopo lo show, la musica dello stesso artista. Metto su una playlist dei Beatles. E la ascolto. Ossessivamente.
