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A 83 anni Paul McCartney dà ancora tutto

Gli omaggi a John e George, il senso della storia, il repertorio gigantesco: la recensione del primo concerto del tour americano, quasi tre ore in cui Macca si è dannato per dimostrare che è all’altezza della sua leggenda

Foto: MJ Kim/MPL Communications

Il picco emotivo del concerto di Paul McCartney a Palm Springs, primo show del tour dopo la “prova generale” della scorsa settimana a Santa Barbara, è arrivato subito, alla prima canzone. Help! è il grido disperato di John Lennon che Paul non cantava dalla fine dei Beatles. S’è fatto carico della parte di John, mentre i suoi chitarristi facevano le controvoci che lui stesso ha scritto 60 anni fa. Nella sezione acustica ha cantato da solo e la voce che s’è incrinata lievemente su “So much younger than todaaaaay”. Un momento da ko di un concerto pieno di momenti da ko.

«È la prima sera del tour, quindi siamo giovani, freschi e spericolati», ha detto Macca prima di lanciarsi in una versione euforica di Drive My Car. Essendo lui uomo on the run e costretto a superarsi ogni volta che va in tour, ha trasformato la il concerto in una dichiarazione d’intenti, in una sfida al pubblico a stargli dietro, in una celebrazione del cammino fatto in tutti questi anni.

Il pubblico dell’Acrisure Arena, 11 mila persone, ha raccolto la sfida di divertirsi più di lui – se è possibile, visto che il suo entusiasmo è sovrumano per uno che ha 83 anni. Del resto Macca non è mai stato uno che si adagia, anzi, l’ha sempre caratterizzato il senso di urgenza emotiva che ne ha fatto il più grande performer rock dal vivo: ha la capacità di prendere una canzone che tutti conoscono e di caricarla di energia qui-e-ora. Let him roll it? Come se fosse possibile fermarlo…

«Faremo canzoni vecchie, nuove e una via di mezzo. Questa non è nuova. Vi do un indizio», ha detto prima di attaccare Got to Get You into My Life. Adora sentire le urla del pubblico, un suono che conosce da quand’era adolescente e che pare proprio non stancarsi di ascoltare. «È fantastico, mi prendo un minuto per assaporarmelo». Si rifiuta ostinatamente di rallentare. Suona per quasi tre ore senza pause, passa da uno strumento all’altro, non vede l’ora d’iniziare la canzone successiva. L’ultima volta che l’ho visto era in un piccolo club, il Bowery Ballroom di New York, e prima ancora in uno stadio, alla vigilia dell’ottantesimo compleanno. Ovunque sia, dimostra che è all’altezza della sua leggenda.

La zona di Palm Springs è nota per la popolazione anziana. Per dire, per arrivare all’Acrisure Arena bisogna prendere la Frank Sinatra Drive passare per la Ginger Rogers Road incrociando la Sonny Bono Memorial Expressway. Niente pensieri senili, stasera. Un po’ come l’amico Dylan, a cui curiosamente per certi versi oggi somiglia, McCartney è un ultraottantenne impegnato in un un Never Ending Tour. Il suo, di tour, si chiama Got Back e va avanti dalla fine della pandemia. In un certo senso sfida l’età che ha. Anzi, la domanda è: chi, indipendentemente dall’età, è in grado di mettere in piedi un concerto del genere?

Ha tirato fuor la hit del 1980 Coming Up con gli Hot City Horns che l’hanno fusa al Peter Gunn Theme di Henry Mancini e anche questa scelta ha a che fare con Lennon: Coming Up è la canzone che un giorno John ha ascoltato per caso in radio nella sua limousine, gli è piaciuta subito e quando ha capito chi era a cantarla ha esclamato: «Porca puttana, è Paul!».

«La prossima è relativamente nuova», ha detto McCartney prima di Come On to Me del 2018. «Dico nuove, ma in realtà hanno dieci anni. Diciamo che sono abbastanza nuove» (magari i fan speravano in una Queenie Eye o in una Dominoes, viste le tante ottime canzoni che ha pubblicato nell’ultimo decennio). Ha dedicato My Valentine alla moglie Nancy Shevell e ha intonato Maybe I’m Amazed con voce potente e soul, accompagnata da un montaggio di foto di Linda McCartney scattate nella fattoria scozzese dove l’ha scritta. «Come passa il tempo. Quella bimbetta ora è una donna con quattro figli, mia figlia Mary». Ha spiegato che era anche il compleanno di un’altra Mary, la madre. «O meglio, avrebbe compiuto 116 anni. Ci sono Mary ovunque». Di certo è stato impossibile non pensare a Mary McCartney quando più tardi ha cantato Let It Be. Il tutto a un ritmo serrato assicurato dalla band che lo affianca da più del doppio del tempo in cui sono stati assieme i Beatles: il chitarrista Rusty Anderson, il chitarrista Brian Ray, il tastierista Paul “Wix” Wickens e alla batteria l’incredibile Abe Laboriel Jr (ci sono solo tre batteristi che possono rendere giustizia a Hey Jude: Abe, Ringo e il compianto Roger Hawkins dei Muscle Shoals).

Ob-La-Di Ob-La-Da suona oggi più attuale che mai essendo un’ode a una famiglia di immigrati delle Indie Occidentali a Londra registrata in un’estate in cui il politico di destra Enoch Powell alimentava isterie anti-immigrati. Macca ha sparato una sequenza di classici come Jet, Get Back e Band on the Run. Negli anni ’70 Let Me Roll It poteva sembrare un inno a canne, baci e chitarre, e forse anche un modo per mettere un po’ di paura a Lennon. Oggi suona come una dichiarazione d’intenti, soprattutto quando canta “I want to tell you, and now’s the time”, una frase che poteva passare inosservata quando Paul aveva 30 anni, ma che ora che ne ha già di 80 è carica di significato.

Il tributo a George Harrison Something viene suonato con l’ukulele regalatogli dall’amico. «Un saluto speciale a una persona presente stasera, la moglie di George, Olivia», ha detto McCartney facendo alzare in piedi la sala. Nell’intermezzo acustico ha fatto Blackbird, sulla lotta per i diritti civili, e Here Today, l’elegia per Lennon. «Non ci siamo mai detti: ti voglio bene, amico», ha confessato all’inizio di Here Today, che ha chiuso in un falsetto appassionato. Si è sentita anche Now and Then, l’ultima canzone dei Beatles datata 2023, la demo incompiuta di John che Paul ha voluto a tutti costi completare. Alcuni l’hanno snobbata solo perché McCartney ha detto imprudentemente che per finirla è stata usata l’intelligenza artificiale, facendo credere che si trattasse di una sorta di falso digitale. In realtà è Paul che mantiene la promessa all’amico. È una canzone che nessun altro considerava e che lui si rifiutava di abbandonare finché non è diventata un pezzo dei Beatles, come meritava d’essere. Proprio come è successo con Help!, ha cantato le parole dell’amico che avrà sentito tante volte rivolte a lui. E ha aggiunto un «grazie John per aver scritto questa canzone meravigliosa».

Hey Jude è arrivata come una benedizione e ha trasformato il pubblico in un enorme coro (qualcuno reggeva un cartello: “Hi I’m Jude”, ma non lo siamo tutti quanti in fondo?). Quando Paul divide il coro tra uomini e donne non fa nemmeno finta di voler sentire le voci maschili, lo fa solo per arrivare a quelle femminili. «Adoro quel suono, ancora una volta, ragazze».

«La prossima è speciale per me e capirete perché», ha detto nei bis presentando I’ve Got a Feeling, il duetto video e audio con John. È un momento da brividi: le riprese stringono sul volto di Lennon che esclama «fuck yeah» nell’ultimo minuto. «È sempre bello cantarla e cantare ancora con John». Si è come sempre mostrato dispiaciuto quando ha dovuto chiudere il concerto – ah, se solo fossimo così fortunati da odiare qualcosa quanto Paul odia congedarsi dai fan. Ha mandato tutti a casa in estasi col medley di Abbey Road e i tre chitarristi uno di fronte all’altro, come nella battaglia chitarristica originale tra Paul, George e John.

Uno dei momenti più forti è arrivato alla fine, dopo i saluti e l’uscita di scena. Paul era praticamente dietro le quinte quand’è corso di nuovo al microfono. C’era una cosa che voleva aggiungere: «Ci vediamo la prossima volta». Come diceva Got to Get You into My Life, “did I tell you I need you?”.

Negli ultimi mesi ho visto concerti incredibili di gente che ha superato gli 80 anni: Bob Dylan, Neil Young, Willie Nelson. Ce l’hanno nel sangue, non possono farlo altro. A differenza di Bob e di Neil, ma un po’ come Willie, Paul non cambia granché le scalette (come ha detto nel 2014, «non sono mica i Phish»). Ma come tutti loro, non nasconde incrinature nella voce, non cerca di fermare il tempo (scherziamo?), né di negarlo. Cambia assieme a esso. Perché si spinge così oltre, sera dopo sera, quando tutti se ne andrebbero felici e contenti anche se si concedesse molto meno? È un mistero che nessuno può comprendere, ma che è meraviglioso vedere. E forse anche Paul ne è meravigliato, come tutti noi.

Set list

Help!
Coming Up
Got to Get You Into My Life
Letting Go
Drive My Car
Come On to Me
Let Me Roll It
Getting Better
Let ‘Em In
My Valentine
Nineteen Hundred and Eighty-Five
Maybe I’m Amazed
I’ve Just Seen A Face
In Spite of All The Danger
Love Me Do
Dance Tonight
Blackbird
Here Today
Now and Then
Lady Madonna
Jet
Being for the Benefit of Mr. Kite
Something
Ob-La-Di, Ob-La-Da
Band on the Run
Get Back
Let It Be
Live and Let Die
Hey Jude
I’ve Got a Feeling
Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise)
Helter Skelter
Golden Slumbers
Carry That Weight
The End

Da Rolling Stone US.

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