Non è stata un’edizione semplice per il Sónar, punto focale della geografia dei festival elettronici europei. I legami emersi col fondo americano KKR hanno fatto parecchio discutere, con alcuni artisti minori che hanno deciso di chiamarsi fuori poco prima dell’inizio e altri che, dal palco, hanno voluto esprimere la propria solidarietà alla Palestina con bandiere, slogan e discorsi a fine concerto. Nonostante questo, il Sónar 2025 è stata una delle edizioni più vissute degli ultimi anni, con 161 mila presenze nel weekend.
Di questo Sónar preferiamo però raccontarvi altro, per ricordarci che siamo all’interno di un festival trentennale che da sempre promuove la diversità, l’inclusione, la cultura queer e la musica alternativa, elevando il clubbing da passione di nicchia ad esperienza condivisa. Di questa edizione vi raccontiamo cinque performance pensando non agli show migliori in assoluto – sarebbe troppo facile con una line-up che aveva come nomi Bicep, Four Tet e Peggy Gou – ma provando a selezionare gli act più interessanti per scelte musicali, pubblico, esibizioni.
Alva Noto & Fennesz

Foto: Nerea Coll
L’artista tedesco e il chitarrista austriaco ci accolgono alla SonarHall come se fossimo in un teatro di Vienna invece che alla fiera di Barcellona. Passiamo dalla cassa dritta e dal cemento grondante di calore che ci sono all’esterno a una sala drappeggiata di velluto rosso, una dimensione spazio-temporale parallela in cui il pubblico ascolta in religioso silenzio e ad occhi rigorosamente chiusi. Il duo ha portato sul palco Continuum, omaggio al produttore giapponese Ryūichi Sakamoto scomparso nel 2023 (qui la nostra intervista sul progetto). Continuum è un live che ti rimbomba in petto, è una sospensione dei sensi, un deep listening mistico. Alva Noto, vestito a metà tra un prete e un samurai, “suona” il computer come se fosse contemporaneamente una tastiera, una batteria e una drum machine. Ci mette un’intensità totale, accompagnato dalla chitarra shoegaze di Fennesz che con discrezione crea un tappeto sonoro.
Ambient? Industrial? Noise? Ma che importano le definizioni, ci troviamo di fronte a un momento sacrale, a un’ipnosi collettiva che aiuta per un attimo a staccare da tutto quello che c’è fuori e a riconnetterci con quello che abbiamo dentro. Dei due artisti colpisce la sobrietà quasi austera, il suono elevato ad opera d’arte (non a caso Alva Noto ha collaborato con i più importanti musei di arte contemporanea del mondo). Colpisce la dedizione totale alla musica come immersione, senza scorciatoie, imbellettamenti e distrazioni visive che ti fanno dire wow, ma distolgono l’attenzione dalla musica. Sullo sfondo i colori caldi di un tramonto digitale bello quasi come uno vero ricordano comunque che sei a Barcellona e che c’è il mare a qualche chilometro di distanza e che il festival è appena cominciato.
Tarta Relena

Foto: Clara Orozco
Le Tarta Relena sono state la vera scoperta di questo Sónar. Hanno suonato nel tardo pomeriggio di venerdì in un teatro chiuso e buio con le poltrone da conferenza, tutto quello che non vorresti da un festival estivo. Il duo catalano si intravede appena sul palco, tanto è scuro l’ambiente che hanno creato. Ma quando due faretti di un bianco lunare le illuminano da dietro, andiamo in estasi per la bellezza di fronte a noi.
Il duo, attivo dal 2016, è uno di quegli ibridi contemporanei frutto di una cultura musicale vastissima che mixa passato e presente, pop e folk, elettronica futuristica e suoni tradizionali. Le due cantanti esplorano la polifonia vocale, reinterpretando canti tradizionali del Mediterraneo e composizioni proprie, attraversando secoli e culture. L’armonizzazione delle loro voci (col vocoder) produce un suono vitreo, sempre sul punto di rompersi. Usano mille strumenti percussivi che amplificano la potenza dell’ensemble: drum machine, tamburi, tammorre, accompagnate da una band di soli uomini (in secondo piano, le vere protagoniste sono loro) vestiti con gonne viniliche e taffettà rosso sangue.
Coperte di abiti-armatura, le Tarta Relena sembrano venire da un tempo medievale in cui si ascoltavano però Lucrecia Dalt, Marina Herlop e Rosalía. Tra i pezzi portati sul palco c’è anche Mille risposte, brano in italiano che parte con un bisbiglio per poi esplodere in una melodia a metà tra il sogno e l’incubo. Le Tarta Relena sono una creatura rara e aliena in cui folk, musica da camera, sacro, elettronico e melodico possono coesistere nella stessa frase. E sono aliene anche perché riescono a far spostare il pubblico spagnolo in costume e pantaloncini dal dancefloor queer di Honey Dijon ad un piccolo tempio dove si gode in silenzio.
Pa Salieu

Foto: Clara Orozco
Premessa doverosa: Pa Salieu fa una musica difficilissima. È difficile la sua vibe incazzata e impetuosa; è difficile il suo genere, grime meets rap meets UK drill; è difficile portarlo in un contesto come quello del Sónar, dove la gente ha voglia di ballare senza troppo impegno. Ma l’artista inglese, fresco di carcere – non esattamente uno stinco di santo, viene da una storia personale tribolatissima – ha portato sul palco l’acclamato disco del 2024 Afrikan Alien, in cui parla della sua esperienza in prigione, ma anche di identità, crescita e riscatto sociale in un’Inghilterra in cui si riconosce solo a tratti. Eppure riesce a portare sul palco talmente tante influenze, come l’afrobeat, il jazz e una punta di r&b, da farti dimenticare quanto ruvidi siano i testi che canta. Pa Salieu è un maestro nell’affidarsi al suono morbido del sassofono e al ritmo africano dei bonghi, che aggiungono quella gentilezza capace di trasformare la sua rabbia personale in un percorso collettivo di liberazione. Peccato per quei visual greco-romani-dechirichiani che ricordavano Megalopolis, uno dei film più brutti di Francis Ford Coppola.
Dengue Dengue Dengue
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Qui siamo proprio in un altro campionato, quello della Fiesta con la f maiuscola. Il duo peruviano non ha eguali quando si tratta di farti sudare tutte le croquetas de jamón mangiate nei tapas bar di Barcellona. Sono semplicemente di un altro livello. Il loro set ci fa fare un viaggione psytrance che in un attimo vira su dancehall, breakbeat, drum’n’bass e baile funk. Chiusi tra i tendoni circensi del palco SónarCar, è il set che ci ha fatto incontrare sotto cassa anche il pubblico più bello. Nulla da togliere ai ventenni inglesi con le loro maglie da calcio sintetiche – vagli a spiegare che non c’è bisogno le mettano anche fuori dallo stadio – e nemmeno ai veneti over 40 che usano lo Spritz per idratarsi tra un gin tonic e l’altro. Qui c’erano uomini rasati con vestiti à la Schiaparelli, coppie di amici usciti da un video delle TLC, ragazze con nuche stupende e capelli cortissimi. Tutti a ballare come in un grande carnevale di Lima, ginocchia basse e sedere all’insù. I Dengue Dengue Dengue sono un’animale da festival che vi consigliamo di seguire ovunque vi capiti.
Jayda G
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Eravamo indecisi se inserirla o meno tra gli act più interessanti di questo Sónar – soprattutto considerata la concorrenza di nomi come Four Tet, Bicep e Overmono – ma il suo presobenismo ci ha fatto decisamente propendere per il sì. Jayda G è una trascinatrice, una che si diverte più del pubblico. Molla la consolle, si mette a ballare davanti alla gente, salta su ogni pezzo come se fosse la sua festa di compleanno. Il suo è un set facile che può prendere tutti senza bisogno di grande applicazione. E in questa semplicità ci abbiamo trovato un valore. In un’era in cui la musica techno si è presa tutto – l’estetica, il suono, la chiusura in se stessi – Jayda G se ne frega di ogni intellettualismo e crea un viaggio quasi monografico dentro la Chicago House. Ha rispolverato miti ormai sopiti del clubbing: Most Precious Love dei Blaze (senza il The), Believe dei Ministers De La Funk, gente che ballavamo da adolescenti ai dj set degli Octave One e che ritroviamo come artisti in estinzione da adulti cresciuti e pure un po’ snob. Jayda G è un invito a ritrovare le radici del clubbing, che stanno sì nei parcheggi e nelle warehouse scalcagnate con la gente che balla in faccia ai sound system, ma anche nel funk e nel soul, nella voce gospel di Jocelyn Brown e in un’America che all’epoca era ancora un posto felice.