L’importanza di studiare l’hip hop | Rolling Stone Italia
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L’importanza di studiare l’hip hop

Negli atenei americani è oramai una consuetudine. Nas, ad esempio, finanzia delle borse di studio. In Italia gli 'hip hop studies' sono invece in mano a ricercatori indipendenti

L’importanza di studiare l’hip hop

Nas

Foto press

Ricordo ancora la faccia un po’ perplessa del mio docente relatore quando, nell’ormai lontano 2006, mi presentai da lui per proporgli una tesi di laurea in Sociologia sulla segmentazione geografica e culturale della scena hip hop. Oggi che la docente sono io, la situazione è parecchio cambiata: non passa anno che almeno uno dei nostri studenti approdi da me con una tesi sul rap italiano, che puntualmente viene accettata dall’università senza battere ciglio. Merito dei tempi che cambiano? Sì, ma non solo. La vera differenza la fa la mole di libri, ricerche universitarie e paper (banalmente: la mole di bibliografia utilizzabile) che negli ultimi 15 anni sono stati prodotti sull’argomento. E non solo su questo: basta dare un’occhiata al portale Academia.edu per scoprire quante materie precedentemente snobbate dai ricercatori sono state oggetto di indagine, di recente. Il punk, ad esempio, è stato sviscerato in lungo e in largo: dalle etnografie sulle varie scene dei Paesi musulmani ai processi organizzativi del DIY, passando per il linguaggio e l’estetica delle fanzine portoghesi fino alla teorizzazione di una “pedagogia punk”.

Negli atenei americani, la tendenza a rileggere in chiave accademica fenomeni prettamente pop è molto radicata. E in particolare lo sono i cosiddetti hip hop studies, che spesso vengono portati avanti dai dipartimenti di studi afroamericani. La materia si presta molto bene: non si tratta di un semplice genere musicale, ma di una cultura con uno slang codificato, un sistema di valori e varie discipline artistiche coinvolte. Capita così che a Georgetown l’eminente sociologo Michael Eric Dyson porti avanti un programma didattico interamente basato sulla discografia di Jay-Z o di Kendrick Lamar, o che a Syracuse esista un corso intitolato letteralmente Hip Hop Eshu: Queen B@#$h 101, dedicato a sviscerare la relazione tra i testi della rapper Lil Kim e la figura del dio nigeriano Eshu.

Tra i più importanti centri di studio sull’hip hop c’è quello di Harvard, che preserva un enorme archivio di testi e documenti, ma soprattutto ha un angelo custode davvero eccellente: Nas, universalmente considerato uno dei rapper più colti e articolati di sempre. «La Nas Fellowship, come la chiamano tutti, nasce nel 2013: lui in prima persona si è impegnato a finanziare quattro borse di ricerca all’anno per dieci anni», racconta Giuseppe “u.net” Pipitone, italiano e primo europeo in assoluto a entrare nel programma.

Normalmente la borsa in questione sarebbe riservata a chi ha già conseguito un dottorato, ma nel caso di Pipitone hanno fatto un’eccezione in virtù delle sue molte pubblicazioni già all’attivo: il suo eccellente biglietto da visita sono saggi divulgativi e appassionanti come Bigger Than Hip Hop, Renegades of Funk e Louder Than a Bomb (pubblicati in Italia da Agenzia X dal 2006 in avanti e saccheggiati da tutti gli studenti in tesi, tra cui io). Nella vita fa tutt’altro lavoro, ma è da sempre un grande appassionato di cultura afroamericana. «Fin dagli anni ’90 mi sono innamorato dei Public Enemy: in particolare sono rimasto folgorato da Party for Your Right to Fight, in cui facevano il verso ai Beastie Boys», racconta. Iscritto alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere, parte per gli Stati Uniti con l’intenzione di scrivere una storia orale delle Black Panther, ma «mentre ero lì mi sono reso conto che per raccontare la storia afroamericana recente e per spiegarla ai più giovani, la cosa migliore era farlo attraverso canzoni, libri, film e documentari legati all’hip hop». Da allora non si è più fermato e ha trascorso lunghi periodi all’estero raccogliendo le testimonianze di buona parte dei suoi protagonisti. «Essendo italiano e bianco, non me la sentivo di raccontare le loro storie attraverso la mia mediazione culturale: ho preferito che lo facessero loro, con la loro viva voce».

Quando decide di fare domanda per la Nas Fellowship, incoraggiato dalla direttrice del programma, lo fa «senza crederci fino in fondo, un po’ per la questione del dottorato, e un po’ perché fino a quel momento a ottenere la borsa di ricerca erano stati solo americani». Ma alla fine i meriti prevalgono, così per un anno si trasferisce a Boston, finanziato per approfondire la sua più grande passione. «Per la prima volta mi pagavano per studiare e scrivere. Un’esperienza incredibile, che oltre a darmi accesso all’immenso archivio di Harvard mi ha permesso di entrare a contatto con accademici di fama mondiale e artisti altrimenti inaccessibili come Terrace Martin o Rhapsody».

La sua ricerca si concentra sulla nascita e lo sviluppo della cultura hip hop in Inghilterra, che è raccontata anche nel suo ultimo libro, Original London Style, appena uscito in italiano sempre per Agenzia X. «Nel 2009 ero a Londra per assistere a una battle tra beatmaker e mi è capitato per caso di conoscere alcuni dei nomi più importanti della old school inglese», racconta. «Mi sono reso conto che non sapevo nulla di qual era stato l’impatto dell’hip hop in Inghilterra, così ho cominciato a indagare». Riportando nella giusta prospettiva alcune pietre miliare trascurate da altri studiosi, come il video di Buffalo Gals di Malcolm McLaren, che da ambasciatore del punk in America divenne anche ambasciatore del Boogie Down Bronx in Europa.

Giuseppe Pipitone non esclude di occuparsi anche dell’hip hop italiano, prima o poi: «Ma mi interessa soprattutto il periodo in cui ancora non c’era niente, quello di cui si parla meno. Vorrei chiudere dove la scena hip hop ha iniziato: mi piacerebbe che le ultime righe del libro parlassero di Militant A che canta “Batti il tuo tempo per fottere il potere”», dice, citando un celebre verso di Batti il tuo tempo di Onda Rossa Posse, che nel 1990 fu la prima canzone rap italiana pubblicata su disco. In attesa che anche alle nostre latitudini sorga qualche dipartimento di hip hop studies (o di punk studies, perché no), le speranze risiedono soprattutto in quelli stranieri, che si fanno sempre più competitivi e inclusivi: nel marzo 2022, ad esempio, la UCLA di Los Angeles ha inaugurato la sua Hip Hop Initiative, che ambisce a diventare il centro di ricerca più importante al mondo sull’argomento, con un fitto programma di «residenze artistiche, collane di libri, lezioni e seminari, un progetto di storiografia orale, un archivio digitale e numerose borse di ricerca», recita il comunicato stampa. La prima residenza artistica è stata affidata niente meno che a Chuck D dei Public Enemy. La ricerca continua, per la gioia degli studenti di domani.