'Let Them Talk' di Cesare Cremonini è la storia di una star cresciuta troppo in fretta | Rolling Stone Italia
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‘Let Them Talk’ di Cesare Cremonini è la storia di una star cresciuta troppo in fretta

Il pop italiano sta imparando a raccontare il proprio lato oscuro. Quello di Cremonini deriva dalla necessità di dimostrare di valere qualcosa dopo il successo ottenuto ad appena 20 anni d'età

‘Let Them Talk’ di Cesare Cremonini è la storia di una star cresciuta troppo in fretta

Cesare Cremonini

Foto press

C’è un pezzo di Cesare Cremonini che spiega quanto lui sia stato un ragazzo cresciuto troppo in fretta. Si chiama PadreMadre, è abbastanza un classico del repertorio e risale al 2002, a quando aveva 22 anni. Rientra nella cerchia dei brani insolitamente precoci, come Gli anni (il racconto pop della nostalgia per eccellenza, che Max Pezzali ha scritto però da nemmeno trentenne) e Canzone delle osterie fuori porta (un requiem per la giovinezza, i suoi ideali e tutto ciò che hanno rappresentato ora che sono chiusi in soffitta e buttata via la chiave firmata da un Francesco Guccini di appena 34 anni). Ma non riguarda né la malinconia né l’adolescenza. C’è semmai il rapporto coi genitori, tutto. Conflitto, allontanamento per andare a starsene da sé, infine riconciliazione con mamma e papà ormai nostri “pari”. Così, de botto: tesi, antitesi, sintesi. All’età in cui gran parte degli italiani si fanno ancora rifare il letto.

E Cremonini ce lo spiega bene, tutto questo, in Let Them Talk, il suo nuovo libro che esce oggi per Mondadori. Il volume – un po’ autobiografia e un po’ memorie, un po’ flusso di coscienza e bilancio esistenziale (a proposito, da marzo sono 40: auguri) e un po’ canzoniere spiegato – ripercorre in prima persona la vita dell’artista attraverso i suoi pezzi più importanti, in ordine cronologico dagli esordi all’ultima Ciao, usandoli come appigli narrativi (spesso citando gli stessi versi) per descriverne i retroscena, l’ispirazione, soprattutto il contesto in cui sono nati, le divagazioni di sorta. E, quando si tratta dell’emblematica PadreMadre, evoca il momento preciso del distacco dai genitori: l’arrivo di un assegno, il primo, da 60 milioni di lire (era il 2000, lui viveva coi genitori) dalla SIAE per i diritti sui brani dei Lùnapop; la madre che si alza da tavola, scura in volto, e capisce che lì, con quei soldi, qualcosa è finito per sempre.

Ma non c’è da girarci intorno: la parte più interessante dell’opera – perlomeno a livello umano, oltre che narrativo – è la prima, quella che appunto racconta l’esordio eclatante di …Squérez? e il tentennamento da solista (Bagus, Maggese), una volta che il giocattolo si è rotto, i pregiudizi piovono a grappoli e tutti pensano che Cremonini sia ormai bruciato, dall’essere abbastanza giovane per suonare adolescenziale all’essere ancora così giovane per presentarsi come maturo. Dopo la scoperta del mondo, quindi, da parte di una band di ragazzi che andava nei salotti televisivi come in gita («in ogni città in cui ci trovavamo organizzavamo divertenti festini in camera», «alcune volte ne uscivamo (dai camerini, nda) rubando la biancheria intima ai presentatori o alle soubrette più famose per portarle a casa come simbolici trofei da regalare agli amici») arriva la crisi. E la difficoltà di sopravvivere all’hangover («oltre cinquanta concerti totalmente gratuiti, portati a termine durante l’estate appena trascorsa, per recuperare i debiti del mio primo giro nei palasport da solista, andato malissimo. Posti letteralmente vuoti. Parterre imbarazzati»; è solo la primavera del 2003). Con necessità di doversi inventare “vecchio”, dimostrare di essere bravo cercando composizioni sempre più ambiziose, che avranno il loro culmine nel complesso Il primo bacio sulla Luna (2008). Educazione alla vita, si direbbe. Per lui, semplicemente, «dieci anni di improvvisazione, di curiosità per ogni uomo o donna che incontravo».

Eppure anche in questa fase di singhiozzi (di horror vacui, la definisce), dal racconto che ne fa Cremonini esce sempre bene, con lo sguardo sornione e romantico a cui ci ha abituati anche davanti agli schiaffi, quasi fosse un bellissimo perdente. Nelle canzoni, come in amore (i dettagli sentimentali non mancano, ecco). Poi qualcosa, in questo tipo di narrazione molto sfumata e dai toni colloquiali, si inceppa. E lo fa sul più bello, dopo che con Mondo, nel 2010, ha trovato la formula di un pop adulto, personale e traversale – quindi dai grandi numeri, e quindi degli stadi che sappiamo.

L’abbiamo letto: durante i lavori di Possibili scenari (2017) si è volutamente «perso» dentro il progetto, chiudendosi in studio tutto il giorno ma arrivando anche a soffrire di «schizofrenia». Lo spiega nel capitolo di Nessuno vuole essere Robin, una canzone fra le più importanti del pop italiano degli ultimi tempi, erede del Dalla in stato di grazia (sembra quasi una Quale allegria 2.0) e rigorosamente «scritta in quattro minuti». È un passaggio in contrasto con la seconda parte che lo contiene (il successo, il «boato» di San Siro, le difficoltà di dormire prima di un grande concerto) e, per toni, anche col resto del libro. La malattia mentale, infatti, non è né un palazzetto pieno a metà, né una fidanzata che lo lascia: non c’è il sorriso sornione, ed è come se il tempo della narrazione si annerisse. Ma unendo i puntini si ritorna sempre lì: l’ossessione per la melodia, le 20 ore al giorno passate in sala di registrazione come prova di un ragazzo diventato uomo in fretta, e quindi costretto a dover dimostrare sempre qualcosa. Di non essere un clown, un impostore o semplicemente quello dei Lùnapop. Perlomeno fino alla soglia dei 40, che sembra avergli portato la stima di certi ambienti e il consenso.

Il resto, raccontato con tono colloquiale e scorrevole, ogni tanto si perde fra qualche dettaglio à la Sgargabonzi (Sardegna, che nasce «dopo una notte d’amore passata con Selene, una ragazza semplice, gioiosa, incontrata in un locale notturno, seduta su una panchina rivolta verso il mare, che convinsi a struccarsi e svestirsi della paura di non essere bella» e «un pomeriggio davvero surreale passato insieme a Marta Marzotto sulla sua barca») e altri particolari un po’ troppo compiaciuti (la sua casa che, ai tempi di Maggese, «aveva un che di sacro», con «la luce che entrava dalle finestre era densa e rassicurante, e una volta che eri dentro ti avvolgeva come in una favola»; ok). Ma rimane, comunque, il romanzo di formazione lucido di una popstar precoce, che rischiava di essere divorata dagli squali.

E quindi sì, Let Them Talk è anche un romanzo di fragilità. Perlomeno come idea, non è distante da Ferro, il documentario intimo e personale uscito il mese scorso su Tiziano Ferro, in cui lui racconta delle proprie dipendenze e debolezze. Dubito fossero d’accordo, i due. E ognuno poi ha la propria storia personale (le loro sono davvero diverse, figuriamoci). Ma è come se la nostra musica d’alta classifica – bella, vincente, dalla faccia pulita – si stia aprendo a una wave in cui raccontare i propri lati oscuri. Gli artisti soffrono, vanno in terapia e lo fanno non per qualche vizio da star (comunque non meno importante, ma lontano dal quotidiano dell’ascoltatore), ma per problemi nostri, comuni. E vedere volti così famigliari e di successo parlare di questi problemi non può che aiutare il dibattito a uscire dalla reticenza. Del resto, si può crescere troppo in fretta in ogni contesto. Mica solo scrivendo 50 Special da adolescenti e scontarne la popolarità, come fosse una colpa, per i successivi dieci anni.

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