Le piattaforme di streaming vogliono sostituire la musica con i podcast? | Rolling Stone Italia
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Le piattaforme di streaming vogliono sostituire la musica con i podcast?

A giudicare dalle mosse di Amazon Music si direbbe di sì: al posto di comprare i cataloghi di Taylor Swift o Bob Dylan, ha investito 300 milioni nei podcast. Non è un buon segno per l’industria musicale

Le piattaforme di streaming vogliono sostituire la musica con i podcast?

Becky G, Taylor Swift e Dua Lipa sul palco del Prime Day Concert

Foto: Kevin Mazur/Getty Images for Amazon

Era l’aprile del 2018 quando ho visto una delle pubblicità più intelligenti mai prodotte da una piattaforma di streaming musicale. Non era rivolta ai consumatori, ma ad altri business players. Dopo anni di forte crescita di tutta l’industria discografica, le etichette si erano rese conto che per la prima volta i guadagni derivanti dagli abbonamenti streaming stavano rallentando. C’era bisogno di investire in nuovi modi per attirare i consumatori, dai social media ai videogame, fino agli smart speaker.

E così il leader dello streaming audio Spotify ha acquistato una pagina pubblicitaria del Global Music Report, la “bibbia” dell’industria che IFPI pubblica ogni anno, per celebrare il numero dei suoi abbonati. Ma un’altra pubblicità, proposta dal competitor Amazon Music, era compleatmente diversa. Sopra all’immagine del suo Echo speaker, l’azienda ha scritto sei parole: “Don’t stop thinking about tomorrow”, non smettere di pensare al domani (dal testo di Don’t Stop dei Fleetwood Mac, ndt).

Va detto che Amazon Music ha dato seguito allo slogan. La sua strategia economica che prevede vari tipi d’abbonamento, la struttura demografica del suo pubblico (principalmente over 40, la fascia dalla crescita più rapida del settore) e l’abbinamento del servizio con Twitch dimostrano che i concorrenti di Spotify hanno intuito che cosa potrebbe riservare il futuro.

Se davvero Amazon ha visto giusto, le etichette discografiche hanno di che preoccuparsi. Le mosse dell’azienda di Jeff Bezos, infatti, suggeriscono che in futuro la musica potrebbe non essere più fra le priorità dei consumatori. Tutto questo è evidente non solo perché Amazon Music ha appena investito 300 milioni di dollari per acquistare Wondery, un’azienda che si occupa di creare podcast, ma anche perché l’accordo è stato annunciato con una frase precisa: «È un momento decisivo per ampliare l’offerta di Amazon Music al di là della musica, le abitudini degli ascoltatori si stanno evolvendo».

Sia detto in modo chiaro: è una previsione devastante per le etichette discografiche e per gli artisti. Dice che la musica non basta più ai consumatori, o per lo meno ai consumatori che Amazon desidera attrarre. anche se questi consumatori sono iscritti a un servizio che ha “music” nel nome.

L’operazione di Amazon è in parte ispirata a quella della concorrenza. Negli ultimi due anni, Spotify ha speso più di 800 milioni di dollari in aziende che si occupano di podcast (200 milioni per Megaphone, più i 100 per l’esclusiva di Joe Rogan). In un anno, l’operazione ha fatto raddoppiare il valore delle azioni di Spotify e anche l’impatto sui dati di ascolto è stato potente: nel terzo trimestre del 2020 il 22% degli utenti attivi della piattaforma si è interessato ai podcast. Sono più di 70 milioni di persone.

Come Spotify, anche Amazon sa che gli accordi di licenza con le grandi case discografiche cambiano ogni due o tre anni. Sa anche che più gli utenti ascoltano i podcast, meno s’interessano di musica, diminuendo il potere contrattuale e l’influenza di Universal, Sony e Warner (ricordate: secondo una ricerca di Edison, le ore che i consumatori americani dedicano alla musica continuano a diminuire; al contrario, i contenuti parlati come i podcast continuano a guadagnare terreno).

Per l’industria musicale, l’aspetto più negativo dell’acquisizione di Wondery è un altro: Amazon avrebbe potuto spendere quei 300 milioni in altri modi. In fondo, Wondery ha avuto una solo hit (Dirty John, che è diventato una grossa serie TV). Taylor Swift ne ha fatte molte di più e i master dei suoi dischi sono appena stati venduti a Shamrock Capital per 300 milioni. Allo stesso modo, l’intero catalogo di Bob Dylan è stato venduto a Universal Music Group per una cifra non troppo superiore.

Allora perché Amazon non ha fatto un investimento simile? Perché non era interessata?

Ovviamente, l’opzione Taylor Swift si sarebbe portata dietro un gigantesco problema di PR. Ma a parte questo, Amazon poteva benissimo acquistare il catalogo evergreen di un artista e trasformarlo in una propria esclusiva. È precisamente questa la strategia che ha caratterizzato Prime Video: acquistare licenze e pubblicare film e serie che non puoi trovare altrove. In più, i più grandi investimenti nello streaming video sono in buona parte mirati all’acquisto in esclusiva di show sempre popolari come Friends e The Office.

Si potrebbe pensache che Amazon abbia imboccato una strada diversa per paura di far infuriare i suoi fornitori principali, ovvero le etichette discografiche. L’idea, però, non regge per due motivi. Uno: i cataloghi come quelli di Taylor Swift o Neil Young non stanno finendo nelle mani di Universal, Sony e Warner. Due: Amazon ha acquistato Wondery battendo proprio Sony Music – che ha una sua strategia di investimenti nel podcast –, ed è difficile che l’operazione non abbia indisposto la seconda etichetta discografica più grande del mondo.

Considerando l’accelerazione causata dalle proposte fiscali di Joe Biden a proposito degli artisti che vendono i diritti d’autore delle loro opere, Amazon aveva di fronte un’opportunità unica per spendere i suoi 300 milioni e lasciare un segno nel mondo del copyright musicale. In un colpo solo si sarebbe anche differenziata da Spotify, offrendo accesso esclusivo al catalogo di uno dei più grandi artisti al mondo.

Il fatto che abbia deciso di agire diversamente, investendo una cifra enorme nei podcast, non è un buon segno per chi detiene diritti d’autore musicali, né per chi ci investe. L’azienda di Bezos sta ancora “pensando al domani”, ma è un domani in cui la musica non è al primo posto.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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