Le audiocassette spiegate alla generazione Z | Rolling Stone Italia
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Le audiocassette spiegate alla generazione Z

È morto Lou Ottens, l'inventore delle cassette, ma è vivo il fascino di questi oggetti che sono stati il modo più pratico, economico, personalizzabile di ascoltare, fare, piratare musica. E anche oggi...

Le audiocassette spiegate alla generazione Z

Foto: Mick Haupt/Unsplash

«Il progressivo sviluppo dell’uomo dipende fondamentalmente dalle invenzioni». Alla luce di questa frase di Nikola Tesla, la notizia della recente morte di Lou Ottens è qualcosa di storico. Quest’ultimo, geniale ingegnere olandese e direttore tecnico della Philips, inventò nel 1963 l’audiocassetta, pensando a qualcosa di compatto, piccolo e semplice che potesse avere ottima qualità sonora ed entrasse in tasca. Aveva 94 anni, ma la sua pensata ha davvero segnato la nostra evoluzione musicale prima del compact disc, che tra l’altro lui stesso aiutò a sviluppare.

Diciamocelo chiaramente: nessuno o quasi tra la massa sapeva chi fosse fino a oggi; eppure costui ideò il modo più pratico, veloce, economico e personalizzabile per avere quanta più musica possibile in casa e, soprattutto, per scambiarsela trasformando il mero consumo in una dirompente azione di socialità e diffusione di cultura a 360 gradi. Oggi che addirittura il peer to peer è superato avendo a disposizione YouTube, i blog, SoundCloud e i vari Bandcamp, forse molti della generazione Z non si rendono conto dell’importanza di questo formato. La parola “forse” è doverosa. Poiché in realtà il concetto di mixtape oggi tanto in voga nelle nicchie indie e trap viene direttamente dagli edit fatti in casa schiacciando il pulsante rec del proprio registratore a cassette magari sintonizzandosi sulla radio preferita, piratando senza essere controllati e costruendo indisturbati le proprie compilation, lontane dalle logiche delle lobby discografiche.

L’epica delle audiocassette è stata descritta in maniera mitica probabilmente negli ’80, grazie al brano dei Bow Wow Wow C30 C60 C90 Go. Guidati da Malcolm McLaren, visionario manager dei Sex Pistols che con loro aumentò esponenzialmente il tasso di provocazione, ne fecero un inno al sabotaggio dell’industria discografica. Ed era in un certo senso vero: rubando dalle radio, doppiando le cassette originali, addirittura copiandole e rivendendole al mercato nero il fatturato delle major veniva intaccato. Ma la cosa principale è che sull’audiocassetta potevi registrare quello che ti pareva, soprattutto la tua musica: quello che facevi tu, quello che cantavi tu, anche solamente con un microfono scrauso con un effetto di terza categoria incluso e una base fregata da qualche pubblicità. Negli anni ’80/90 la cosa si fece anche più tosta poiché i multitraccia a cassette, compatti e a volte addirittura tascabili, cominciarono a circolare a prezzi competitivi sostituendo la registrazione “cotta e mangiata”: finalmente potevi avere a casa tua un mini studio e farti le tue demo, amatoriali o meno, su un supporto che non aveva nulla da invidiare al vinile, che non ti puoi certo stampare in casa.

Certo la qualità dipendeva molto dai materiali. Ed ecco quindi che si girava febbrilmente per negozi alla ricerca della cassetta “hi quality”, skippando tra le versioni normal, quelle al cromo e le famigerate al ferro, che poi non si è mai capito se era vero o no cambiasse qualcosa. Per non parlare della durata. C’erano cassette che giravano 180 minuti, ci registravi interi LP ed entravano tutti nella tasca di un blue jeans, con grandissima goduria. Poi ti facevi la copertina personalizzata, disegnando personalmente i logo dei gruppi, tagliando le cover originali dai giornali di musica specializzati, oppure mettendosi di buzzo buono tipo piccolo scrivano fiorentino a dare sfoggio di calligrafia, magari con dedica per la “cotta” di turno.

Fare un’audiocassetta era un’esperienza multimediale, creativa, assolutamente interattiva e fuori da ogni logica di mercato. Solo che ovviamente il mercato a un certo punto fu in bilico tra il condannare la cosa e fomentarne l’utilizzo, mettendo sovente i piedi in due scarpe, nel cortocircuito assoluto nel dare carota e bastone visto il successo incredibile: e questo era chiarissimo quando anche in pieno sviluppo del CD c’erano i famosi negozi di noleggio. A poco prezzo potevi portarti a casa un bel po’ di CD originali di cui subito ti facevi copie pirata in cassetta: i più fortunati potevano subito godere di un masterizzatore di CD, certo, ma a quei tempi nei primi ’90 la cassetta era ancora il modo più veloce per farti una discoteca a prova di bomba.

Ancora adesso ho un valigione di cassette registrate che non ho alcuna intenzione di sostituire con le wav, e ancora adesso pubblico i miei dischi su tape. Poiché il valore “animista” delle cassette supera sicuramente quello del vinile, del CD o dello stereo8 che stranamente (pur avendo una qualità sonora superiore) non ha mai attecchito nell’immaginario di massa come qualcosa di “quotidiano”. La cartuccia infatti, per quanto alleata degli scapoli che tenevano il riproduttore incastonato al mobiletto degli alcolici in attesa delle prede di turno, non entrava infatti in un comodo walkman, che ti portavi appresso in ogni occasione godendo dell’autoreverse che ti metteva subito in loop la cassetta da ascoltarti fino allo sfinimento. Era – a differenza dello stereo8 – un piacere quasi autoerotico.

Inutile ricordare anche che nella cultura hip hop la tape portava la musica rap nelle strade grazie agli enormi ghetto blaster che imponevano una libertà assoluta senza se e senza ma che partiva appunto da un semplice girare del nastro magnetico. Ed esistevano anche modelli – principalmente Casio, ma  nei primi ’70 c’erano stranissimi ibridi “solid state” – in cui erano incorporati un mini sintetizzatore e una drum machine, in modo di poter registrare in diretta qualsiasi idea possibile e immaginabile ti passasse per la testa.

L’attualità scottante delle audiocassette è poi innegabile: sono dei sempreverdi. Se pensate allo sviluppo del lo-fI, dell’hypnagogic pop e del glo fi, l’immaginario sgranato e la produzione appunto incentrata nell’incisione su audiocassetta, capirete perché la fascinazione non si è mai arrestata. Con l’estetica DIY finalmente le famose demo sono considerati dischi ufficiali a tutti gli effetti: gente come Daniel Johnston, Ariel Pink, il punk hardcore estremo e il noise (soprattutto nella sua accezione “wall” che ben si presta a passare sulle testine), così come il weird e la cosiddetta neo outsider art hanno ribaltato il concetto di fruizione domestica per una visione “esistenziale” a 360 gradi. Tanto che negli anni 2000 i dj set a cassetta si sono diffusi quasi a macchia d’olio, e allo stesso modo il mercato underground tanto affezionato alla produzione di vinili in tiratura limitata si è poi spostato a quella di audiocassette, per ovvie ragioni economiche ma anche e soprattutto per la particolarità dell’oggetto in sé che diventa prezioso una volta accompagnato da un packaging accurato (all’estero non ne parliamo: roba come Ultraecxema, Chocolate Monk, My Dance The Skull, la stessa Orange Milk e la Posh Isolation hanno fatto la storia; in Italia ricordiamo tra le etichette che si prodigarono e si prodigano in quel senso la No=Fi, la MyOwnPrivateRecords, la Turgid Animal, Canti Magnetici, Commando Vanessa e potremmo continuare in una lista infinita).

La Korg, storica casa di produzione di synth, in un 1° aprile di poco tempo fa diffuse l’immagine di un fantomatico Volcassette che avrebbe sancito il ritorno della registrazione multitraccia a cassetta: era uno scherzo, ma neanche tanto in fondo. Perché oggi, ottenuto il risultato di rivedere i vinili in classifica, possiamo aspettarci senza meno un ritorno delle audiocassette, cosa d’altronde quasi sfiorata visto che in Gran Bretagna si è assistito a un incremento di acquisti in cassetta del +109%, tanto che anche Lady Gaga ha messo Chromatica su questo supporto. Perché abbiamo oramai capito che il file digitale si cancella in un attimo se non fai backup, un CD si rovina che basta un graffio e a volte è fabbricato col culo, un vinile si squaglia al sole: una cassetta, se non la calpestate con le scarpe o non la mettete nel forno, avrà una durata che se non è eterna poco ci manca. Ovviamente basta che non impigliate il nastro da qualche parte, ma lì sta il bello: alle abitudini usa e getta della civiltà digitale manca il concetto di “prendersi cura di”.

La cassetta è la nostra scatola nera: resiste alle condizioni estreme della nostra vita moderna e sa tutto di noi. Come diceva una pubblicità della Sony , «ti dà 46-60-90 minuti per migliorare». E quindi dateci dentro, pigiate il tasto rec.