La storia sconvolgente del concerto dei Pearl Jam a Roskilde | Rolling Stone Italia
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La storia sconvolgente del concerto dei Pearl Jam a Roskilde

Vent'anni fa, il 30 giugno 2000, nove persone sono morte nella calca di fronte al palco principale del festival danese. Ecco il racconto impressionante che Rolling Stone fece pochi giorni dopo gli eventi

La storia sconvolgente del concerto dei Pearl Jam a Roskilde

Foto: AP Photo/Sif Meincke

Per Johansen si è presentato in servizio venerdì 30 giugno alle ore 22:15. Volontario nella security del festival di Roskilde, in Danimarca, ha occupato la sua posizione nello spazio angusto fra le barriere di sicurezza e l’Orange Stage e ha guardato i 50 mila fan in attesa del concerto dei Pearl Jam. Non era un numero preoccupante, spiega. «Erano molto compressi, ma niente di particolarmente pericoloso». Johansen ha 37 anni. Nei dieci anni di esperienza al festival aveva «già visto un pubblico del genere, non rappresentava un problema».

Nel giro di un’ora l’area di fronte a Johansen si è trasformata in un inferno. Otto ragazzi di età compresa fra i 17 e i 26 anni sono morti nella calca durante il concerto dei Pearl Jam. Una nona persona è morta in ospedale cinque giorni dopo. Il Roskilde, uno dei festival più popolari in Europa, che si tiene da 29 anni a 25 chilometri da Copenhagen, è diventato il teatro di una delle tragedie peggiori nella storia del rock. In termini di morti, è seconda solo a quanto accaduto nel dicembre 1979 prima del concerto degli Who al Riverfront Coliseum di Cincinnati.

Aveva piovuto ed era freddo e umido quando i Pearl Jam sono saliti sul palco di Roskilde alle 22:30, subito dopo il set della band svedese Kent. Gli inglesi Travis suonavano su un altro palco, gli Underworld si preparavano a esibirsi nella parte del festival dedicata alla techno. All’Orange Stage, Johansen era a circa tre metri dal centro del palco e metteva in salvo i ragazzi schiacciati nel mosh pit. A un certo punto, mentre i Pearl Jam stavano suonando, ha notato qualcosa di strano. «C’erano delle ragazze», racconta, «e tirarle su era diventato estremamente difficile. Ci volevano due persone per farlo e di solito ne basta una».

Secondo un testimone oculare che si trovava sul palco, era difficile per tutti, musicisti compresi, vedere con precisione quel che accadeva nel pit, a parte il solito esuberante macello. Ma l’ondeggiamento della massa delle persone stava facendo perdere l’equilibrio ai fan che finivano sulla terra battuta, dove braccia, gambe e teste s’impigliavano in un groviglio letale. Christian Mueller, 28 anni, era tra il pubblico non lontano dalla postazione di Johansen, a una quindicina di metri dal palco. «La gente cadeva», racconta. «Riuscivo ancora a intravederne le teste, ma erano molti più basse delle nostre. Il tizio davanti a me ha capito il problema e mi incitava a spingere nell’altra direzione. L’abbiamo fatto tre volte, ma non è servito a niente».

«Si stava stretti prima ancora dell’inizio del concerto, la gente inciampava», ricorda Tomas Miller, 19 anni, che si trovava sotto al palco. «Tempo mezz’ora e ho capito che andava della mia vita. Non riuscivo nemmeno ad alzare le braccia. Faticavo a respirare. Alzavo la testa per sentire l’aria fresca. Temevo per la mia vita».

Alcuni ragazzi non hanno retto alla calca e alle ondate. Jannik Tai Mosholt, 22 anni, fan dei Pearl Jam e veterano di sette festival di Roskilde, era a una decina di file dal fronte del palco, sul fianco destro. «C’era troppa pressione», ricorda. «Era come stare a un incrocio. La gente voleva andare avanti, mettevano le mani sulle spalle degli altri e spingevano. Troppa aggressività. Ho resistito cinque canzoni e sono riuscito a sfilarmi di lì».

Non tutti sono riusciti ad andarsene, o a stare in piedi. La diciottenne Sara Kastrup ha detto al giornale danese Politiken che aveva amici vicini al palco che «erano in piedi su uno di quei poveracci. Pensavano fosse un sacco. Quando hanno capito che era una persona a terra, non sono riusciti a scendergli di dosso».

Un’altra donna, identificata solo come Charlotte, ha detto a Politiken di aver visto cinque persone in piedi su un uomo e di aver cercato di tirarlo su. «Sono andata fuori di testa, ho urlato: muovetevi, via di qui, deve alzarsi, deve alzarsi! Ma non si sono mossi, anche se sapevano che stavano sopra a quel tizio. Non ricordo che volto avesse o altro, ricordo però che mi guardava. Poi è finita. Credo sia morto».

Verso le 23:15, tre quarti d’ora dopo l’inizio del set dei Pearl Jam, Per Johansen si è rivolto al capo della sicurezza chiedendo di fermare la musica: «Credo sia morto qualcuno». Johansen dice d’averlo ripetuto altre due volte e che un altro membro della squadra lo ha detto una quarta volta. Alla fine, il messaggio è salito nella catena di comando fino ad arrivate all0ufficio di produzione dell’Orange Stage e infine a Dick Adams, il tour manager dei Pearl Jam, che si trovava a lato del palco. I Pearl Jam stavano finendo Daughter quando Adams si è precipitato sul palco e ha parlato con il cantante Eddie Vedder. Vedder ha fermato la musica e si è rivolto al pubblico.

«Quel che accadrà nei prossimi cinque minuti non ha niente a che fare con la musica. Ma è importante. Immaginate che io sia vostro amico e che dobbiate fare un passo indietro per non farmi del male. Tutti avete degli amici qui davanti. Al mio tre farete tutti tre passi indietro. Tutti quelli che sono d’accordo dicano “sì”». Dopo un grande applauso e qualche movimento da parte della folla, Vedder ha chiesto a tutti di fare un altro passo indietro.

«Si vedeva la folla indietreggiare», ricorda Manfred Tari, corrispondente tedesco della rivista statunitense Pollstar, che era fra il pubblico. «Sembrava che si fossero davvero allontanati di mezzo metro».

Il promoter Leif Skor era nel suo ufficio dietro l’Orange Stage quando un membro della crew è entrato e gli ha detto di uscire in fretta. «Sono andato nel pit», racconta Skov «e ho visto i ragazzi della security tirare fuori le persone da lì. L’incidente è avvenuto a un paio di metri dalle transenne anteriori. C’era come un buco nella folla, non si vedevano teste».

Nel fondo di quel buco umano, largo un paio di metri, c’erano dei corpi. Johansen e gli altri addetti alla sicurezza si sono tuffati nella folla e hanno iniziato a passare le vittime oltre le transenne, dove i ragazzi stati trasportati nel backstage per essere soccorsi. Il numero delle vittime ha rapidamente superato la possibilità di gestire le cose da parte della guardia medica dell’Orange Stage. Wob Roberts, direttore di produzione britannico di una delle altre band in cartellone all’Orange Stage, si è incaricato di spostare i camion per facilitare il passaggio dei feriti verso un’altra area.

Non si sa quanto tempo sia passato tra il primo avvertimento di Johansen e quando Vedder ha fermato la musica. Nei giorni immediatamente successivi all’incidente, Johansen ha parlato ai media danesi di oltre 15 minuti, e lo ha ribadito a Rolling Stone in un’intervista telefonica. Secondo Skov è stato molto meno. «Ha ragione sul fatto che [il messaggio di pericolo] doveva passare lungo la linea di comando», dice Skov di Johansen. «Ma non ha ragione sul tempo che ci vuole a farlo. Non usiamo telefoni. Stiamo usando i walkie-talkie»,

Comunque sia andata, Vedder ha ricevuto il messaggio quando era troppo tardi. Un cadetto della polizia ventiseienne di Amburgo, un ventitreenne olandese, tre svedesi e tre danesi sono morti per asfissia sul posto. Un nono uomo, australiano, ricoverato in ospedale con ferite al petto e attaccato a un respiratore artificiale è morto il 5 luglio. Bendt Rungstroem, vicecapo della polizia di Roskilde, ha confermato che altre tre persone sono state curate in un ospedale locale e altre venticinque hanno riportato ferite lievi.

Le autorità danesi non hanno diffuso nomi dei morti. «Lo dice la legge danese», spiega Rungstroem, «per proteggere le famiglie». Rolling Stone ha appreso l’identità di quattro delle vittime. Gli svedesi erano Carl-Johan Gustafsson, 20 anni; Fredrik Turesson, 22 anni; Henrik Bondebjer, 22 anni. L’uomo morto il 5 luglio è stato identificato da un’agenzia di stampa australiana come Anthony James Hurley, 24 anni, di Melbourne.

All’1:05 di sabato 1 luglio, un membro dello staff del festival ha spiegato alla folla stordita e sconvolta dell’Orange Stage che l’ultima band in programma, i Cure, non avrebbe suonato (la musica è invece andata avanti sugli altri palchi del festival, fino alle 3 del mattino). Poco dopo, i Pearl Jam hanno rilasciato una dichiarazione.

«È doloroso… Stiamo aspettando che qualcuno ci svegli e ci dica che è stato un incubo orribile… E non ci sono parole per esprimere la nostra angoscia nei confronti dei genitori e dei cari di queste vite preziose. Non ci è stato ancora detto cosa è successo, ma sembra che sia frutto del caso e che sia accaduto velocemente… non ha alcun senso. Quando accetti di suonare a un festival di queste dimensioni e con questa reputazione non immagini certo uno scenario così straziante. La nostra vita non sarà più la stessa, ma sappiamo che non è nulla in confronto al dolore delle famiglie e degli amici delle persone coinvolte. È tragico… non ci sono parole. Siamo devastati, Pearl Jam».

A quanto pare, la dichiarazione è stata scritta da Vedder nelle prime ore del mattino dopo la tragedia, mentre lui, i chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassista Jeff Ament e il batterista Matt Cameron erano chiusi in stato di shock nel loro hotel di Copenhagen. Il gruppo ha cancellato le ultime due date previste in Belgio e in Olanda di quello che sarebbe stato altrimenti un tour europeo di successo lungo sei settimane. I Pearl Jam dovrebbero iniziare un tour americano nelle arene il 3 agosto.

Più tardi, il 1° luglio, il chitarrista degli Who Pete Townshend ha chiamato Vedder per cercare di consolarlo. Ha poi scritto sul suo sito: «Gli ho spiegato quel che di sbagliato avevano fatto gli Who dopo il disastro di Cincinnati. In poche parole, ce ne siamo andati troppo presto e ho parlato con troppa rabbia alla stampa e senza la dovuta considerazione del fatto che le persone che meritavano rispetto erano i morti e le loro famiglie. Se credete, pregate per le vittime e le loro famiglie, e per chi è stato coinvolto. È stata un’esperienza orribile per loro».

I Pearl Jam e il loro management si sono rifiutati di commentare i fatti di Roskilde per questo articolo. Si dice che i membri del gruppo si siano isolati, alla ricerca di risposte, nel tentativo di trovare un senso nei tragici eventi del 30 giugno. Testimoni oculari quella sera dicono che sul megaschermo situato dietro alla torre del mixer è apparso il volto di Vedder mentre fissava dal palco il buco in cui giacevano i corpi. Piangeva.

Mentre Rolling Stone andava in stampa, le autorità danesi hanno continuato le indagini per stabilire le cause della tragedia dell’Orange Stage, della morte di nove persone e del ritardo nella risposta del personale del festival. «Non credo che scopriremo tutta la verità», ammette Rungstroem. «Non abbiamo detto ufficialmente che è stato un’incidente, ma pensiamo sia andata così». Rungstroem si aspetta di consegnare un rapporto al Ministero della giustizia danese per il 14 luglio, ma Mogens Sorenson, l’ispettore capo della polizia di Roskilde, ha riferito a un giornale britannico che serviranno mesi per completare il rapporto definitivo. Sorenson ha anche aggiunto che è improbabile che vengano mosse accuse penali.

Sulla base delle interviste condotte da Rolling Stone e delle ricostruzioni pubblicate sui media danesi, sembra che non ci sia stato un tentativo organizzato da parte dei fan di avvicinarsi al palco quando sono arrivati i Pearl Jam, e lo stesso vale per il resto del set. I racconti di chi era sul posto parlano di problemi di suono vicino alle torri dietro al pubblico, e molti si sarebbero avvicinati al palco per sentire meglio. Jannik Tai Mosholt dice che anche nelle prime file «il suono era tutto altre frequenze e a volume troppo basso. Si sentiva male».

Anche la pioggia e il fango sono state citate tra le cause della tragedia nelle prime interviste e nei primi articoli sull’accaduto. Il sito dove si svolge il Roskilde, infatti, è terreno agricolo e venerdì una pioggia fredda l’aveva trasformato in fango. Alcuni membri del pubblico camminavano tra i vari palchi del festival con i piedi avvolti da delle buste di plastica, perché lo stand dedicato aveva finito gli stivali di gomma.

Ai piedi dell’Orange Stage, però, non c’era fango. La zona immediatamente adiacente al palco è ricoperta da un mix di argilla e sabbia che si asciuga rapidamente. Gli organizzatori del Roskilde negano che la zona fosse scivolosa quella sera.

L’area dell’Orange Stage è anche puntellata da barriere di metallo – lunghi pali a forma di U rovesciata – posizionate per prevenire grossi movimenti del pubblico. Quelle barriere erano un classico degli stadi del campionato di calcio inglese, ma sono stati vietate nel 1980 perché troppo pericolose: quando il metallo diventava scivoloso per la condensa, il pubblico cadeva e qualcuno si fratturava le costole. Paul Wertheimer, a capo di Crowd Management Strategies – una società di consulenza di Chicago leader della sicurezza durante i concerti –, dice che quelle barriere avrebbero funzionato solo con un pubblico di dimensioni ridotte. Aggiunge che durante la catastrofe dei Pearl Jam «non hanno aiutato affatto. Anzi, quando è iniziata la reazione a catena hanno peggiorato le cose».

Prima delle morti del 30 giugno, Roskilde era famoso per essere uno dei festival rock più belli e sicuri di tutta l’estate europea. Fondato nel 1971 come Sound Festival, un’imitazione di Woodstock, aveva un solo palco, venti band e 20 mila persone nel pubblico per due giorni di concerti. Ha poi cambiato nome in onore della città che lo ospita. Nasce come gigantesco showcase organizzato a casaccio per le band prog rock della Scandinavia come i Gasolin e i Burton’ Red Ivanhoe, e nel corso degli anni si è ingrandito fino ad accogliere grandi gruppi inglesi come i Kinks e i Procol Harum.

Un po’ come successo negli anni ’80 e ’90 a Reading, Glastonbury e al Pinkpop, Roskilde si è evoluto fino a diventare uno dei festival rock più importanti d’Europa, capace di invitare headliner di livello mondiale. Negli ultimi anni ci sono passati artisti come Neil Young, Bob Dylan, R.E.M. e David Bowie. Un terzo del budget dell’edizione del 2000 – 7,5 milioni di dollari – è stato speso per il booking dei 175 artisti che avrebbero suonato nell’arco di quattro giorni.

«Negli anni ’70 i festival all’aperto negli Stati Uniti sono finiti perché erano gestiti malissimo», dice Wertheimer. «E continua a essere così, pensa a Woodstock ’99. In Europa non sono mai stati perfetti, ma erano organizzati meglio. È una società diversa e una cultura diversa. C’è una certa predisposizione».

Tutti i guadagni del Roskilde sono distribuiti dalla Roskilde Charity Society (in danese: Foreningen Roskildefonden) a Amnesty International, Human Rights Watch e altre organizzazioni di beneficienza danesi. L’abitudine scandinava al senso civico si riflette anche nella gestione aperta del perimetro del festival: niente barriere o filo spinato, solo alberi.

«Fa parte della nostra idea di sicurezza, fa sì che le persone siano positive e controllate», dice Leif Skov, 53 anni. È uno dei fondatori del festival, che ha organizzato per gran parte dei suoi 29 anni di storia con Henrik Rasmussen e Henrick Nielsen. «Non abbiamo armi», continua Skov in una lunga intervista condotta sul posto una settimana dopo il crollo, «solo un sorriso».

Oltre ai venti dipendenti a tempo pieno, lo staff di Roskilde è composto da volontari non pagati come Per Johansen, che gestisce un’officina poco fuori Copenhagen. Quest’anno, al festival i volontari erano 17 mila. Quando gli abbiamo chiesto se erano equipaggiati per gestire la crisi dei Pearl Jam, ha risposto: «Come si fa a studiare per la sicurezza? In Danimarca non succede. I loro “studi” sono l’esperienza. E la preparazione».

È così. Quando Wob Roberts, che è andato a Roskilde con varie band per più di dieci anni, è arrivato all’Orange Stage per montare l’attrezzatura, ha guardato la zona con ammirazione. «La prima cosa che ho pensato è stata: cazzo, ci hanno lavorato parecchio. La zona sembra grandiosa».

Roskilde non ha precedenti di tragedie legate alla sicurezza, ma non è sempre stato privo di problemi. Ironia della sorte, Eddie Vedder è stato al centro di un caso avvenuto durante il concerto dei Pearl Jam nell’edizione del 1992. Quando il cantante ha visto un ragazzo del pubblico che faceva stage diving trattato male dalla security, è saltato giù dal palco e ha scatenato una rissa violenta con la sicurezza, che non l’aveva riconosciuto e l’ha preso a pugni.

«C’era davvero tanta gente», dice Skov del pubblico dell’Orange Stage durante il concerto dei Pearl Jam del 30 giugno. «Ma è così da anni». Skov dice anche che quest’anno ha ridotto i biglietti in vendita da 90 mila a 70 mila (sono andati sold out con una settimana di anticipo). Secondo le sue stime, 40 mila persone erano sotto all’Orange Stage per i Pearl Jam: parliamo di tre quarti di tutte le persone che hanno comprato biglietti per tutti i quattro giorni di festival. Per farla breve, chiunque fosse al Roskilde quella sera ha cercato di arrivare su quel campo per vedere i Pearl Jam.

«Il problema tipico», dice Wertheimer di tragedie come quella del Roskilde, «è che quella è una folla troppo grande da gestire». Wertheimer, ex pubblico ufficiale di Cincinnati che ha indagato sul disastro degli Who del 1979, dice anche che il pubblico del Roskilde era troppo grande «perché nessuno sa dire un numero esatto. Come fai ad avere lo staff giusto, la giusta comunicazione, la giusta risposta a un’emergenza se non sai quanta gente è sul posto?».

Thomas Borberg, un fotografo per Politiken, era nel security pit quella notte. Ricorda perfettamente l’umore del pubblico. «Non sono un fan dei Pearl Jam», dice, «ma nessuno sorrideva. Non c’era gioia nei loro volti. Si vedeva che nessuno era felice». Borberg ha lasciato lo show prima della tragedia, ma quando ha saputo cosa era successo è tornato sul posto. «Ho visto un agente di polizia», racconta, «che urlava alla gente spaventata. Cercava di far spostare le persone. Urlava a un pubblico enorme. Ti fa capire che non c’era speranza. Non c’era niente che nessuno potesse fare».

Alle 5 del pomeriggio del 1° luglio, il vescovo di Roskilde Jan Lindhart è salito sul paco, ha pregato per il pubblico e ha chiesto un minuto di silenzio per i morti. Poi è arrivato Youssou N’Dour e la musica è ripartita. Vicino al palco, su un memoriale improvvisato arrivavano fiori e candele. Rose e lettere per le vittime erano infilate nel filo spinato che delimitava la zona del crollo. All’inizio della giornata, Skov ha detto in una conferenza stampa che il festival sarebbe continuato. «La vita è più forte della morte».

Due delle band in programma per sabato non erano d’accordo. Dopo la tragedia di venerdì, sia Oasis che i Pet Shop Boys hanno cancellato i loro concerti.

Neil Tennant dei Pet Shop Boys era nella sua camera d’albergo a Copenhagen la mattina di sabato quando il collega Chris Lowe l’ha chiamato per raccontargli della tragedia che aveva appena visto in televisione. Tennant ha subito chiamato il tour manager dei Pet Shop Boys, James Monkman, e gli ha detto che non riusciva a immaginarsi sul palco quella sera. «Questo concerto», dice, «è come un greatest hits. È una festa. Tutti saltano e gridano “Go West”. Fare una cosa del genere nello stesso posto dove sono appena morte otto persone è inconcepibile».

Tennant aggiunge che ha parlato con il manager degli Oasis, Marcus Russell, che si occupa del suo progetto parallelo Electronic. Secondo Tennant, Russell aveva già parlato con Liam Gallagher, che gli aveva detto che era impossibile aspettarsi che salisse su quel palco a cantare Live Forever. Russell ha pubblicato un comunicato a nome di entrambe le band che chiedeva agli organizzatori del festival di cancellare i concerti del Main Stage di sabato per facilitare le indagini e rispettare i morti e le loro famiglie.

Quella sera, a Roskilde, i rappresentanti di tutte le parti in causa – incluso Monkman – hanno incontrato Skov e un agente della polizia della città. Il poliziotto ha detto che le indagini erano in corso, che la sicurezza per quella sera era stata controllata due volte e che i concerti potevano continuare come previsto. Monkman sostiene che Skov ha detto anche che le band dovevano rispettare la storia di Roskilde, da sempre famoso per la sua sicurezza.

«Beh», ha risposto Monkman, «da 24 ore non è più così».

Alla fine dell’incontro, Monkman e i rappresentanti delle band hanno firmato una lettera con cui si ritiravano dallo show. Continuare a suonare, scrivevano, avrebbe messo in pericolo il pubblico dell’Orange Stage. «Se solo una persona si fosse fatta male», dice Monkman, «dopo quello che era appena successo, saremmo finiti in una brutta posizione».

Dopo la cancellazione di Oasis e Pet Shop Boys, Roskilde ha diffuso un comunicato stampa che accusava entrambi i gruppi: «Gli organizzatori del Roskilde sono dell’opinione che tutte le band che decidono di continuare a suonare alle condizioni appena verificate mostrano sia rispetto che considerazione per i morti, le loro famiglie e il resto del pubblico».

Skov adesso ammette che «alcune di quelle parole non andavano dette» e aggiunge che gli Oasis e i Pet Shop Boys «cercavano di rispettare i morti. Non eravamo d’accordo, ma capisco perfettamente perché non hanno voluto suonare». Skov dice che il 7 luglio ha mandato una lettera a entrambe le band in cui si «pentiva di quello che era successo». Sostiene che nella lettera avesse parlato anche del cachet dei gruppi, che voleva donare a un fondo per la sicurezza del festival: «Vedremo» (in un’intervista del 5 luglio, Tennant dice che ha saputo che Skov voleva trattenere il cachet dei Pet Shop Boys solo leggendo i giornali: «Non ne ha mai parlato con il nostro agente»).

Durante il resto del weekend, il pubblico e i musicisti a Roskilde hanno vissuto il lutto diversamente. Domenica 2 luglio è stato organizzato un funerale nella cattedrale locale, a cui hanno partecipato circa 1200 persone. Venivano tutti dal festival, e si sono presentati con i jeans e le scarpe ricoperte di fango. Quella notte, la band danese DA-D ha acceso otto torce sul palco e le ha passate al pubblico.

Una settimana dopo, Christian Mueller indossa ancora il braccialetto nero del festival, il lasciapassare che gli avrebbe garantito l’accesso a quattro giorni di paradiso rock’n’roll. «Non mi sembra giusto toglierlo», dice. «Non ancora».

La storia che avete appena letto è stata pubblicata su Rolling Stone il 17 agosto 2000.

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