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‘Ko de mondo’, l’inizio immenso dei C.S.I.

A 25 anni dall’uscita, il primo album in studio del gruppo di Ferretti, Zamboni, Maroccolo, Canali e Magnelli viene ristampato. Ecco la storia romanzesca di uno dei grandi dischi italiani degli anni ’90

Gennaio del 1994. In Sicilia fa particolarmente caldo. Lo hanno detto anche alla radio. Dal terrazzo della casa al mare, il verde quasi primaverile contrasta la fredda cronaca che da giorni si sente nei telegiornali. In Chiapas, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ha iniziato l’anno combattendo; Los Angeles ha affrontato un terremoto fatale per molti; nell’ex Jugoslavia si continua per il quarto anno una guerra sanguinosa e fratricida. Dal portico sul Canale di Malta, passo le mie giornate girando e rigirando i lati di una musicassetta dalla copertina in bianco e nero. Due occhi severi mi fissano di sbieco, ma sembrano guardare più alle brutture del mondo che al sottoscritto. Magari alle ceneri dei CCCP. Perché quelli non sono due occhi qualsiasi, sono gli occhi di Giovanni Lindo Ferretti, e quella è la copertina di Ko de mondo, primo album in studio dei C.S.I. oggi ristampato con un booklet aggiornato, una cartolina d’epoca e – soprattutto il dvd Immagini sul finire della terra che ne testimonia la realizzazione.

I C.S.I., ossia il Consorzio Suonatori Indipendenti – ma anche la Comunità degli Stati Indipendenti, in un rimando politico post caduta del Muro di Berlino – si mostrano al pubblico nel 1993 sul palco di Maciste contro tutti, con Üstmamò e Disciplinatha. Per quelli della mia generazione è un gruppo già adulto. Al suo interno ci sono Giovanni Lindo Ferretti, cantante, poeta e mago di arcobaleni opachi e Massimo Zamboni sul fronte emiliano-berlinese superstite dei CCCP; Francesco Magnelli e Gianni Maroccolo su quello toscano reduce dai Litfiba; nel mezzo, Giorgio Canali, un chitarrista lungocrinito e nell’aspetto simile a Mark Lanegan, con un passato da tecnico del suono (a cui poi si aggiungeranno batteria e percussioni di Pino Gulli e Sandro Gerby e i cori di Ginevra Di Marco). I cinque avevano trovato l’equilibrio che superava l’esperimento dello show performativo e del disco Maciste contro tutti, già edito per la loro etichetta, I Dischi del Mulo, e distribuito dalla Virgin nel 1993. L’idea si fece strada e si mischiò ai ricordi delle esperienze vissute registrando Epica Etica Etnica Pathos, l’addio alle armi dei CCCP. Da quel momento l’avventura si è spostata in Bretagna, nel Finistère, luogo indicato un tempo come uno dei confini della Terra. È durata solo cinque anni, ma ha consegnato alla storia tutti i suoi autori – ironia della sorte gli stessi che, dieci anni prima, volevano proprio “un piano quinquennale, la stabilità”.

«Come i CCCP», mi racconta Massimo Zamboni, «anche i C.S.I. hanno avuto una nascita romanzesca. Il volo di ritorno da Mosca, la somma delle insoddisfazioni e delle ansie personali coagulata attorno a una idea forte, il tutto ha causato una moltiplicazione. Io sono stato parte di quella moltiplicazione, esplorando assieme ai miei compagni la bellezza, la fragilità, il potere di avere dato vita a una creatura più grande di noi». Molto più concreto è Giorgio Canali, che aggiunge: «All’inizio avevo molte perplessità sul proseguimento di Epica Etica Etc Etc, vivevo per la maggior parte del tempo in Francia e, se proprio dovevo sentirmi parte di una famiglia, la mia era nei Noir Désir, con cui ho passato cinque anni a mixarli dal vivo e non». E rincara la dose: «C’è pure da dire che dopo l’esperienza con i CCCP mi ero promesso che non avrei fatto più nulla con Gianni, avevamo avuto troppi scazzi. Poi Giovanni e Massimo dissero che serviva un ago in quella bilancia strana con due reggiani da una parte e due fiorentini dall’altra, gli amici mi dicevano di non perdere quel treno e mi sono detto “proviamo”. Col tempo mi sono reso conto che ero un C.S.I. a tutti gli effetti; forse più degli altri che erano tutti ex Qualcosa, mentre io no».

Uno degli ex è proprio Gianni Maroccolo, bassista nei Litfiba degli anni d’oro. È lui ad addentrarsi loquace nel rocambolesco ricordo della genesi del disco: «Con Lindo andammo da Stefano Senardi, allora presidente della PolyGram, per dirgli della nascita dei C.S.I.. La riunione fu a tratti surreale. Gli chiedemmo i soldi per andar in Bretagna a fare il disco. Non avevamo uno straccio di provino, né un testo e non c’era nemmeno il tempo materiale per trattare un contratto. Lui ascoltò sornione e ci chiese di quanto avessimo bisogno per partire. Così ci ritrovammo su un mega-furgone strapieno di materiali audio, registratori, nastri… e parmigiano! Allestimmo lo studio in un agriturismo bretone e iniziammo a suonare». Il primo brano fu Finistère, luogo dove tutto stava cominciando e manifesto perentorio dell’umore del disco (“Annus horribilis in decade malefica / decade malefica in stolto secolo / secolo osceno e pavido / grondante sangue e vacuo di promesse”), per poi dedicarsi giorno e notte alla composizione della splendida A tratti. «Ero teso in quei giorni» continua Maroccolo «perché, dovendo curare la produzione, mi sentivo responsabile nei confronti di tutti, ma finita A tratti mi resi conto che avremmo fatto un disco importante». Le motivazioni sono presto dette: «Era nata una sorta di comunità creativa dove vigevano regole di mutua assistenza. Si suonava molto e di notte con Gasparini (il fonico della band, nda) e Giorgio si riascoltava il lavoro e si organizzava il giorno successivo. Alchimia pura. Indimenticabile». Visione vespertina, vitale e ricca di empatia artistica, che pure lo scorbutico Canali è costretto, a suo modo, a confermare: «Avevamo trasportato tutta la baracca a ‘casa mia’, la Bretagna. Gli scazzi interni non mancavano, guarda, ma se mi rompevo i coglioni, conoscendo la zona, me ne andavo a zonzo per calmarmi, e funzionava».

Al ritorno in Italia, i C.S.I. si ritrovano in studio per finire l’emblematica In viaggio, a cui mancava il cantato, e per mixare tutto. Nessuno di loro credeva fosse stato possibile comporre, arrangiare e registrare un disco in quaranta giorni partendo da zero. Non solo ci erano riusciti, ma avevano tirato fuori un album come Ko de mondo. Dodici tracce che attraversano la mente più che l’udito. Un letto di suoni su cui la voce di Giovanni Ferretti danza in Intimisto, tra i capitoli più riusciti e tragici del disco, prima di sciorinare impietosa i titoli dei film di Celluloide, il brano più passatista di tutti. Ko de mondo trasmette però a ogni nota la volontà di non voler essere considerato in nessun modo come punto d’unione con i CCCP. «È un disco minimale», disse al Mucchio lo stesso Maroccolo nel 1994. «È stata una precisa scelta artistica puntare all’essenzialità. Epica esagerava con l’epicità e non lo si voleva assolutamente ripetere». Ko de mondo ammette quindi, candido, di non andare d’accordo con nessuno. «La gente» è Canali ad asserirlo «nella quasi totalità ha bisogno di leader, quelli che restano o si sparano o vanno ai matti. Poi c’è chi guarda divertito o atterrito ciò che succede. Io credo di fare parte di quest’ultima categoria». Rabbia, compassione e gloria perduta sono le nuove componenti di tutte le menti associate, che osservano disilluse la realtà attraverso la lente deformata dalla ricerca di suoni e parole che evochino delle immagini oltre che sensazioni palpabili (totalizzanti in Fuochi nella notte).

«In realtà Codemondo è un paese in provincia di Reggio Emilia, il cui nome significa Capo del mondo», svelava Ferretti a Rockerilla. «Scritto così può voler dire “K.O. del mondo”: il mondo occidentale al tappeto». E le canzoni di Ko de mondo sono ancora lì, da venticinque anni, a ricordarci che c’è poco da stare allegri. Le membra disgiunte, la mancanza di pietà, gli interessi personali che superano persino il semplice buon senso sembrano governare tutta la nostra esistenza, ieri come oggi. «Nell’anno domini 1993 o a scelta 5754 o 1710 o 1414 l’innocenza come qualità sociale non esiste», affermava Lindo Ferretti nel 1994. «L’innocenza come qualità individuale vive solo negli occhi di ogni cucciolo di animale, anche umano. È la forma di difesa assoluta e si perde presto in cambio dell’autosufficienza». Di ciò Ko de mondo musica il dramma.

Il 1994 dei C.S.I. si conclude con l’uscita del live In quiete. Mentre il gruppo sta provando per il tour, gli viene proposto un format simil-Unplugged per una trasmissione su VideoMusic. A dire il vero, non c’è molto di acustico in quella situazione, a eccezione del piano di Magnelli e di una chitarra su tre, quella di Maroccolo, “la grattugia”, per dirla alla Ferretti, che si contrappone alle chitarre “disturbate” di Canali e Zamboni, ma In quiete racchiude al massimo lo spirito del disco (Memorie di una testa tagliata è da brividi) e di quel periodo, grazie anche una superba cover di Lieve dei Marlene Kuntz freschi di Catartica. «In quiete» precisa Maroccolo «ha il grande pregio di donarci Inquieto. Una tra le canzoni più belle o perlomeno a cui sono più affezionato. Nata nella soffitta di Giovanni: una tastierina e un’acustica, parole che arrivarono quasi subito. Un piccolo miracolo».

“Quindi hanno imparato a suonare!”, scrisse ironico un giornalista di Repubblica, ma Gianni smentisce: «In quiete non fu fatto per dimostrare capacità tecniche/strumentali. Siamo tutti musicisti particolari e unici e credo che conti avere personalità per comporre musica speciale». Zamboni conferma: «Fu una rivelazione anche per noi questa dimensione trattenuta». Comunque sia, ne esce un album imprescindibile. Uno dei picchi della storia dei dischi dal vivo di casa nostra, al pari di De André con la PFM o di Fronte del palco di Vasco. Non molti gruppi sono in grado di sfornare in undici mesi due dischi di eccezionale valore artistico: i C.S.I. lo fecero, con Ko de mondo prima e a seguire con In quiete. Rendiamogli almeno grazie.

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