La guida definitiva agli album di Joni Mitchell | Rolling Stone Italia
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La guida definitiva agli album di Joni Mitchell

Quando il mondo là fuori fa schifo c’è un rimedio certo: l’ascolto dei dischi della più grande cantautrice della storia. Ecco i migliori

La guida definitiva agli album di Joni Mitchell

Joni Mitchell nel 1968

Foto: Jack Robinson/Hulton Archive/Getty Images

Le sue non sono semplici canzoni. Sono mappe, sono progetti, sono pietre di paragone essenziali per stabilire gli standard in base ai quali misurare profondità emotiva e quantità d’invenzioni musicali di un pezzo. L’ombra di Joni Mitchell s’allunga sui lavori di tante, da Taylor Swift a Lana Del Rey passando per FKA twigs, Vagabon, Joan Shelley, Aldous Harding, e la lista potrebbe continuare a lungo. Se volete saperne di più, ecco gli album da cui partire.

Gli imperdibili: “Ladies of the Canyon” 1970

C’è un momento preciso in cui Joni Mitchell passa dall’essere un prodigio folk a qualcosa di più. È il momento in cui le ultime note di Morning Morgantown lasciano spazio a For Free coi suoi accordi di pianoforte blue e la sua coda jazz di clarinetto. Le tre canzoni che chiudono l’album, poi, l’hanno resa una star: l’eco-incubo allegro di Big Yellow Taxi, la celebrazione malinconica di Woodstock, omaggio ai sogni di una generazione, e The Circle Game, risposta a Sugar Mountain di Neil Young.

Gli imperdibili: “Blue” 1971

Mitchell raggiunge il punto più alto del suo stile confessionale con Blue, album folk solo all’apparenza, con melodie inebrianti, sincopi stupefacenti (anche se spesso invisibili) e testi mozzafiato. “Le canzoni sono come tatuaggi”, canta nella title track. In effetti, ognuna di esse è indelebile, tanto più il mesto inno natalizio River e A Case of You, scritta pensando al suo ex Leonard Cohen e suonata con un altro ex alla chitarra, James Taylor. “Le mie non sono fantasie maschili”, ha detto una volta. “Hanno lo scopo di rendere gli uomini un po’ più informati”.

Gli imperdibili: “Court and Spark” 1974

Un certo sound losangelino degli anni ’70 in purezza: un giardino di pop brillante e jazzato pieno di fioriture corali armonizzate in modo originale. È il top di Mitchell in quanto autrice di canzoni pop. È anche il suo disco più venduto, con 2 milioni di copie in un solo anno. Se la musica è giocosa, persino appariscente, i testi sono profondi. Down to You è uno dei suoi momenti più cupi, mentre in Twisted Dice, adulta che ricorda sé stessa a 3 anni, che “sapevo di essere un genio”. È così e questo disco azzera ogni dubbio a proposito.

Gli imperdibili: “The Hissing of Summer Lawns” 1975

Dopo Court and Spark, un altro capolavoro proiettavo verso l’avant pop. Solo che pochi all’epoca lo considerarono tale. Mitchell rovescia il punto di vista dall’interno all’esterno scombinando lo sguardo maschile e fissa il cuore di tenebra dell’America. Gli arrangiamenti sono intricati, stratificati e armonicamente densi, eppure la musica scorre in modo naturale. Col suo mix radicale di campionamenti, sintetizzatori e percussioni del Burindi, The Jungle Line finirà per influenzare il pop degli anni ’80 (si veda I Want Candy dei Bow Wow Wow). Si dice che il megafan Prince l’abbia definito “l’ultimo album che ho amato da cima a fondo”.

I classici: “Clouds” 1969

È il disco dove Mitchell matura come artista, arrangiatrice, produttrice, autrice. È qui che rivendica la paternità di Chelsea Morning e I Don’t Know Where I Stand, che erano state interpretate dai Fairport Convention, e di Both Sides Now che Judy Collins aveva portato in top 10. Songs to Aging Children Come anticipa le vertiginose armonie di Kate Bush e The Fiddle and the Drum, una delle più belle canzoni di sempre contro la guerra, è semplicemente senza tempo.

I classici: “For the Roses” 1972

Un altro disco di transizione nel quale Mitchell arricchisce la sua tavolozza musicale. I fiati jazz sono integrati alle canzoni, non si limitano a code strumentali; gli intrecci vocali sono sempre più intricati; James Burton aggiunge una chitarra elettrica swampy. Poche canzoni sulla fama sono profonde quanto la title track o fresche quanto Blonde in the Bleachers.

I classici: “Miles of Aisles” 1974

Pubblicato sull’onda del successo di Court and Spark, il primo vero e proprio live di Joni Mitchell documenta il suo tour inaugurale con una band, i turnisti della California meridionale noti come L.A. Express. Il meglio arriva quando i musicisti si rilassano, cosa che per fortuna accade spesso, e Mitchell ridà vita a Blue e Last Time I Saw Richard, strazianti. In quest’ultima Mitchell interpreta anche il ruolo di un barman all’orario di chiusura.

I classici: “Hejira” 1976

Il senso della melodia di Mitchell si fa più diafano man mano che la musicista s’addentra nell’esplorazione del jazz. Arrivano Jaco Pastorius e il suo basso fretless, e le sue linee definiscono Coyote, un’osservazione del comportamento maschile, con un testo più vivido che mai: “Prende il mio odore sulle dita / Mentre guarda le gambe delle cameriere”.

I classici: “Don Juan’s Reckless Daughter” 1977

Sempre più jazz. Nei 16 minuti di Paprika Plains ci sono Pastorius e il suo compagno di band nei Weather Report, Wayne Shorter. L’immagine di copertina di Mitchell truccata con la blackface è stata considerata da molti offensiva, ma all’interno c’era un’accusa di ipocrisia culturale e razzismo: si veda l’impressionistica Dreamland, con la voce di Chaka Khan.

Per approfondire: “Song to a Seagull” 1968

È musica folk di fine anni ’60, ma fuori da ogni epoca. La voce è ornata, lunatica e meravigliosa, e se la vede con cambi di accordi inusuali. Prodotto da David Crosby con tocco leggero (ma ahimè con una certa torbidezza), è basato principalmente su Joni e la sua chitarra. Le bellissime melodie in cui echeggia il folk inglese arrivano dall’altra parte dell’oceano: I Had a King sarebbe una delle tante fonti d’ispirazione ‘mitchelliane’ per Going to California dei Led Zeppelin.

Per approfondire: “Mingus” 1979

Realizzato col leggendario Charles Mingus, che si trova alla fine della sua carriera e della sua esistenza, l’album vede Mitchell gettarsi ancora più profondamente nel jazz e scrivere parole per il classico di Mingus Goodbye Pork Pie Hat e altri brani scritti dal jazzista appositamente per lei. La gemma è The Dry Cleaner From Des Moines, con fiati selvaggi e linee di basso funk di Pastorius. Un modello per la musica venuta dopo.

Per approfondire: “Shadows and Light” 1980

È un doppio live con una band all-star che comprende l’imprevedibile chitarrista jazz di casa ECM, Pat Metheny. I pezzi autografi sono tutti post Court and Spark tranne una delicata Woodstock e una sbarazzina Free Man in Paris che ricordano quanto poco interessi a Mitchell “alimentare la macchina delle star dietro la canzone pop. I Persuasions la aiutano a diventare Frankie Lymon in un’affascinante e pungente Why Do Fools Fall in Love.

Per approfondire: “Wild Things Run Fast” 1982

Eccola Joni Mitchell che fa il suo ingresso negli anni ’80 con una serie di canzoni d’amore che segnano l’inizio di quella che sarebbe stata la lunga relazione con il bassista e produttore Larry Klein. Giocosa, con la voce ancora in gran forma, trae ispirazione dalla Bibbia (Love), ma pure da Elvis Presley (una vertiginosa cover di Baby, I Don’t Care).

Per approfondire: “Both Sides Now” 2000

È il primo di due dischi in cui la voce ormai matura e fumosa di Mitchell è abbinata ad arrangiamenti orchestrali. Che gioia sentirla interpretare standard come At Last, la canzone che Beyoncé canterà al ballo inaugurale del presidente Obama. La title track che chiude il set, un pezzo su acquisire saggezza che Mitchell ha scritto quand’era ancora ventenne, è la perfetta, commovente chiusura del cerchio.

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