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La favola senza lieto fine dello Stone Castle, dov’è nato un pezzo di musica italiana

Ascesa e declino dello studio di registrazione del Castello di Carimate: Pino Daniele che dorme con le luci accese per paura dei fantasmi, Dalla con la pistola, l'incontro che darà vita a 'Crêuza de mä', la Coca per i rutti degli Skiantos. La sala d'incisione che nell'era pre-digitale diventa essa stessa rockstar

Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

In un roboante fotomontaggio apparso su Billboard nel gennaio del 1977, lo skyline di New York è invaso da un castello merlato di stile neogotico. Abbagliato dai raggi solari sembra un transatlantico diretto verso le Torri Gemelle inaugurate solo quattro anni prima. Piuttosto macabro, col senno di poi.

Con quel tono dimesso tipicamente americano, l’incipit dell’articolo è affidato nientemeno che al dio Apollo: “Ciò che faccio è così banalmente divino da non destare più interesse, non sarebbe male se qualcosa di buono ci arrivasse dalla Terra. Giorni fa Mercurio ha portato buone notizie: sembra che nell’area del caro vecchio Mediterraneo, in una terra chiamata Italia, ci sia un castello scoperto da alcuni americani che vi hanno costruito uno studio di registrazione”.

Gli americani. Sempre pronti ad arrogarsi meriti, anche per interposta divinità.

Ad aprire i grandiosi Stone Castle Studios, in realtà, era stato Antonio Casetta, piccolo imprenditore milanese attivo nell’industria discografica dal 1959 con la Bluebell Records (che avrà in scuderia Fabrizio De André). Negli anni ’60 aveva occupato ulteriori caselle dello scacchiere fonografico indipendente con la Belldisc, la sperimentale Off e altre piccole realtà, confluite nel 1970 nella Produttori Associati. Come da prassi per le etichette minori, si era reso necessario un accordo di distribuzione con un’azienda più grande, la Ricordi: un patto di cui Casetta si sarebbe pentito amaramente.

L’idea alla base dello Stone Castle è quella di una struttura residenziale, lontana dall’aspetto industriale e claustrofobico delle sale tradizionali. Un ambiente confortevole con tutto il necessario affinché musicisti, produttori e tecnici vi si stabiliscano senza limiti di tempo. Perché non un castello medievale?

In oltre cinque secoli di storia, la fortezza eretta a Carimate dai Visconti era passata di signoria in signoria, finché nel 1950 il ponte levatoio si era abbassato per dare accesso alla modernità immobiliare, che con mediocre incantesimo aveva trasformato il castello in un country club. Casetta lo rileva nel 1975, per meno di 400 milioni di lire, affidando la progettazione degli studi alla Eastlake Audio. Intanto il dollaro si impenna, e ognuna delle due sale viene a costare suppergiù un miliardo di lire, ben più dell’intero edificio.

«Ma mio padre non si preoccupava», ricorda il figlio Simone, «avendo il catalogo distribuito dalla Ricordi, che pagava a fine giugno e fine dicembre. I conti tornavano, ma a giugno del ’77 Ricordi ha fatto il gioco sporco. Innanzitutto non ha effettuato il versamento dovuto, e nel contempo ha contattato tutti i fornitori e gli artisti legati a mio padre, dicendo che non aveva soldi e spingendoli a passare con loro. Tranne Bruno e Paolo Morelli degli Alunni del Sole e Santo del duo Santo & Johnny tutti sono migrati. Dopo un processo durato cinque anni, mio padre è uscito vincitore, ma a quel punto ha ottenuto solo il risarcimento sull’inadempienza contrattuale. È stato un tradimento terribile».

Il sacrificio della Produttori Associati permette agli studi di tenere aperti i battenti. Inaugurate all’inizio del 1977, la sala rossa e quella verde si preparano ad accogliere il gotha discografico dell’epoca: Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Lucio Dalla, Stadio, Skiantos, Pino Daniele, Francesco Guccini, Ivan Graziani, Antonello Venditti, Pooh, Decibel, Mia Martini, Mauro Pagani, Roberto Vecchioni, PFM, Loredana Bertè, Patty Pravo, Eugenio Finardi, Riccardo Cocciante e innumerevoli altri. Più che l’elenco conta il fatto che questi artisti partoriranno allo Stone Castle alcuni dei loro lavori più importanti, punti di svolta delle rispettive carriere.

Non mancano ospiti stranieri come Paul Young e gli Yes. Anche perché le tariffe italiane dell’epoca, per via delle oscillazioni monetarie, sono molto inferiori a quelle europee: intorno al 1980 l’affitto di uno studio va dalle 40 alle 130 mila lire l’ora; il budget medio per produrre un album allo Stone Castle è di circa 30 milioni di lire. Per non dire del rapporto qualità-prezzo di vitto e alloggio…

Di quella inserzione su Billboard, d’altronde, è evidente il richiamo internazionale fondato anche su fattori geografici: «Lo studio si trova a 12 miglia da Milano e a 20 da Lugano. Tutto il resto d’Europa è dietro l’angolo», rimarca Arun Chakraverty, proveniente dalla gloriosa RCA-Victor e ora studio manager a Carimate assieme a un giovanissimo Luca Rossi, che sottolinea il fascino tecnologico e ambientale degli studi. «L’equipaggiamento era tra i migliori al mondo, macchine sempre nuove, manutenzione al 100%. E poi l’ambiente, perché era un posto in cui potevi alloggiare, con oltre 100 stanze, bar, ristorante, sala giochi, cinema, finanche un piccolo teatro. Il parco era enorme, ci potevi suonare con il palco allestito… Usavamo le antiche segrete come camere di eco naturali, gli archi in salotto…».

Per gli avventori, Rossi diventa presto «il guardiano del castello», assieme a Casetta junior: «Giustamente, essendo il figlio del padrùn, mi davano i turni di notte. Così ho avuto modo di stare con Battiato, Patty Pravo, Paolo Conte, Finardi, Pino Daniele… Ho portato io le casse di Coca-Cola agli Skiantos per fare i rutti nell’album Kinotto, è una delle cose di cui vado più orgoglioso!».

A Carimate si coltiva una sensibilità musicale inedita nel panorama discografico italiano, anche grazie a ingegneri del suono di primissimo piano come Ruggero Penazzo e Ezio De Rosa, il quale lascia un solido impiego alla CGD affascinato dal progetto (nonostante le difficoltà di Casetta, che riesce a comprare i microfoni solo grazie a un prestito da parte di suo cugino).

Dal borgo comasco transitano figure come David Scherchen — figlio del compositore Hermann — e Allan Goldberg, quasi un’entità mitologica nell’ambiente. La vocazione internazionale degli Stone Castle Studios è testimoniata dagli stessi riferimenti discografici citati ancora da Rossi: «La musica inglese post Beatles, i grandi produttori americani… Per la disco music Donna Summer, Moroder, che poi sono venuti anche al castello. La Amii Stewart di Knock On Wood, quello era il tipo di cose che si facevano da noi con i fratelli La Bionda, produttori di tutta la disco che girava tra Emilia, Carimate, Monaco, New York e Los Angeles. Gli arrangiatori che venivano da noi, come Ken Duncan, lavoravano anche in America… Tutto il mondo della musica è passato da Carimate».

I ripetuti cenni all’allora nascente disco music ci riportano all’orizzonte cui si rivolge uno dei primissimi lavori prodotti allo Stone Castle, Figli delle stelle (1977) di Alan Sorrenti. Culturalmente è una dissonanza ancora percepibile rievocando il clima di quei mesi, che vedono l’Italia entrare nel vivo di una seconda stagione di protesta dopo quella del ’68. «A Milano, più che a Roma, c’era battaglia vera», continua Rossi. «Io ero nel giro dei licei, con Bisio e Salvatores, arrivato dalla Sicilia. Era un giro creativo, di impegno politico, era un altro mondo». Contesti e contestazioni profondamente legati alla musica del tempo, i cui principali portavoce finiscono essi stessi sul banco degli imputati, come dimostra il processo del Palalido a De Gregori.

Il suo personale ’77, invece, Lucio Dalla l’aveva iniziato con tutt’altro spirito, chiudendo dopo quattro anni di simbiosi la collaborazione con il poeta Roberto Roversi. Ennio Melis, onnipotente leader della RCA, era stato categorico: o Lucio si decideva a scrivere da sé i testi oppure addio contratto. E così il cantautore bolognese era tornato a Roma con una manciata di brani scritti in solitudine. Uno in particolare aveva fatto sobbalzare Melis dalla poltrona: Come è profondo il mare. Fatto trenta, il boss aveva pensato bene di fare trentuno, suggerendo a Dalla — sempre con fare piuttosto persuasivo — di tagliare un altro cordone ombelicale, quello che lo legava a Renzo Cremonini, e farsi produrre da Sandro Colombini.

Per volere di costui, insoddisfatto del brano già inciso negli studi romani della RCA, Dalla prende la via di Carimate, seguito da Ron e dai turnisti Flaviano Cuffari (batteria), Claudio Bazzari (chitarra) e Paolo Donnarumma (basso). Dal lavoro congiunto di Colombini e De Rosa la voce di Lucio esce rinnovata, con una profondità e una sensualità mai mostrata prima. Non è solo l’immancabile Neumann U87 a plasmare questa nuova identità vocale, ma le sperimentazioni del produttore con il Dolby, da cui deriva quella qualità “sussurrata” ispirata alle voci di Peter Gabriel e Phil Collins.

Quando Rossi mi mostra il suo archivio fotografico, un’immagine in particolare colpisce l’occhio e l’immaginazione: Lucio Dalla seduto in poltrona, i piedi sul banco mix. Solo pochi mesi prima, tra gli stanzoni di via Tiburtina, avrebbe dovuto bussare e attendere diligentemente, prima di entrare in cabina di regia. Due anni dopo è ancora allo Stone Castle, per l’album eponimo chiuso da L’anno che verrà. A completare la formazione un giovane sessionman, Aldo Banfi, destinato a monopolizzare le voci synth e programmazione elettronica nei dischi di quegli anni: «Al castello ero di casa, dormivo lì perché non riuscivo nemmeno a rincasare dopo i turni. Una sera, siamo pronti per andare a cena ma Lucio decide di restare ad aspettare Ron, partito da Roma. “Portatemi pure un panino”, ci dice. Torniamo verso le 10, ed è lì a scrivere: “Ron si ferma a Modena, c’è troppa nebbia, ripartirà domattina”. L’indomani lo troviamo con due calamari al posto degli occhi, non aveva dormito, ma aveva completato tutto il testo: “Caro amico ti scrivo”… Abbiamo inciso la base in meno di due ore».

Per un nottambulo come Lucio, il castello è il posto ideale. «Mangiava cotolette e si metteva a scrivere nella sala del camino», ricorda ancora Banfi. «Certe notti c’eravamo solo io, lui, il custode e i cani. Una volta sono entrato nella sua stanza e lui ha tirato fuori una pistola».

A chiudere la trilogia, Dalla (1980), disco più venduto dell’anno e divenuto iconico per la foto di copertina scattata proprio al castello da Renzo Chiesa, con Lucio tagliato dagli occhi in su, lo sguardo rivolto verso il suo celebre berretto su cui poggiano gli occhiali tondi.

Da una trilogia a un dittico, quello di Edoardo Bennato, anch’egli condotto al castello da Colombini. Due album, Uffà uffà e Sono solo canzonette, registrati nel corso delle stesse sessioni e pubblicati sempre nel 1980 a distanza di appena un mese, sfidando le comuni regole del mercato discografico. È la prima volta che un fatto del genere avviene in Italia. Dietro il banco, con Ezio De Rosa siedono Mario Lovallo e i due veterani Carlo Martenet e Mario Carulli. Allan Goldberg, invece, si occupa in quelle stesse settimane di registrare un’altra maturità musicale, Nero a metà di Pino Daniele. Che al castello, dicono, dorme con la luce accesa per paura dei fantasmi. Ciò non gli impedisce di tornare, per Vai mo’ (1981) e Bella ‘mbriana (1982), frutto di un continuo lavoro di session e interplay tra i musicisti.

Tra quelle stesse stanze si ritrovano anche Fabrizio De André e Mauro Pagani. Il primo sta incidendo l’Indiano, che con echi pinkfloydiani e suggestioni blues, reggae e latinoamericane, segna l’apice del processo di “occidentalizzazione” del cantautore dopo la tournée con la PFM. Pagani invece lavora a Sogno di una notte d’estate nella sala accanto (e di notte, per l’appunto, nel grande parco): ne approfitta per far ascoltare a Faber alcuni suoi pezzi ispirati alle musiche del Mediterraneo. Tre anni dopo saranno di nuovo lì, nello stesso studio, per il loro capolavoro. Tra i musicisti che li accompagnano, il bassista Massimo Spinosa: «La prima volta che entrai al castello passando per il ponte levatoio, come avevo visto solo nei film storici, mi sembrò di essere in un’altra dimensione: la location era favolosa, e gli studi fantascientifici. Si aveva l’impressione che, invertendo di secoli la successione temporale, il castello fosse stato costruito intorno agli studi, tutto era perfettamente integrato, con i registratori incastonati nelle pareti di pietra… L’acustica era incredibile, come non si era mai sentita da nessuna parte, tutto era talmente al top da farti sentire inadeguato: sarò mai all’altezza di una simile perfezione?».

L’eco mediatica suscitata da Crêuza de mä amplifica la popolarità degli studi di Carimate. Per la prima volta uno spazio fisico arriva a possedere un carisma paragonabile a quello di un artista. Se la metafora del decennio precedente era quella dello studio di registrazione come strumento musicale, a metà anni ’80 lo studio è esso stesso una rockstar. «Tanto che persino i Rolling Stones volevano prenotare», rivela Banfi. «Solo che chiedevano campo da golf, equitazione, piscina, e si portavano dietro 300 persone tra amanti, pusher, eccetera (ride)».

Nel frattempo il tentativo di Casetta di rimettersi in piedi come discografico — con l’etichetta Cicogna — non va a buon fine e attorno al 1985, tra le mura del castello, inizia a serpeggiare un’atmosfera da addio imminente. Altri fantasmi aleggiano in quelle stanze, silenziose come non accadeva da secoli.

«A un certo punto mio padre ha dovuto prendere la decisione di chiudere», sospira Simone. «Da produttore discografico si era trovato a fare il gestore dell’albergo e degli studi, sempre vivendo molto modestamente per questi grossi debiti, stanco di un lavoro che non era il suo. Dapprima Red Canzian ha preso i macchinari della sala rossa. Poi nel 1987 è stato venduto l’intero immobile, per risanare gli ultimi debiti, e così gli studi sono stati smantellati».

Dopo soli dieci anni si conclude tristemente la parabola di quello che Spinosa definisce «l’apice nel suo genere, prima della crisi del settore che ha portato agli studi attuali fatti di computer, plug-in che imitano gli hardware storici e una legione di fonici e produttori improvvisati».

È un epilogo simbolico delle tendenze discografiche del tempo. Le macchine riprendono la strada per Milano, come risucchiate da un magnete. Sembra un richiamo all’ordine. Ma se la provincia piange, la metropoli di certo non ride: anche nell’enorme stabile dela CGD di via Quintiliano, dove vengono portate le attrezzature, sta calando un grigio sipario. Quando arrivano i nuovi giocattoli digitali, l’obsolescenza sembra inghiottire macchine e palazzi. Il grande edificio al numero 40 viene lasciato ai fantasmi, quelli veri, nel 1998. Il castello di Carimate, otto anni prima, si era trasformato in un hotel. Incantesimo mediocre.

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