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La campagna di Russia di Litfiba e CCCP

Nel 1989, pochi mesi prima della caduta del Muro di Berlino, quattro band italiane si esibirono a Mosca e Leningrado. È una storia pazzesca, che Piero Pelù e Massimo Zamboni ci aiutano a ricostruire

La campagna di Russia. Nel marzo del 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, Litfiba e CCCP vanno in tour in Unione Sovietica: partono insieme ad altre due band, i Rats di Modena e i pugliesi Mista & Missis, per un paio di concerti a Mosca e Leningrado organizzati grazie a uno scambio culturale. L’anno precedente, infatti, il comune di Melpignano aveva invitato in Puglia un pugno di gruppi provenienti dal blocco comunista – Russia, Estonia, Slovenia – per un festival chiamato Le idi di marzo, due giorni raccontati sui quotidiani dell’epoca come – parole di Gino Castaldo su Repubblica – «il primo sbarco ufficiale della nuova armata musicale sovietica».

Così, Litfiba e CCCP, che erano stati gli ospiti locali dell’evento in Salento, nella primavera dell’89 si ritrovano all’aeroporto di Fiumicino per imbarcarsi su un aereo diretto a Mosca; in un momento di smottamenti epocali, quel viaggio segna un cambio radicale nella carriera e nella vita di entrambe le band.

Mentre crolla l’impero sovietico, i CCCP preparano il terreno ai CSI. Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni arruolano quattro musicisti conosciuti meglio proprio durante il tour in Russia: Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Ringo De Palma e Giorgio Canali. Tutti ex Litfiba. Dal canto loro, Piero Pelù e Ghigo Renzulli si lasciano alle spalle la militanza underground e spiccano il volo: nel novembre del 1989 esce il live Pirata e i Litfiba diventano il più grande gruppo rock italiano degli anni ’90.

La benedizione di Gorbačëv

«Il presidente Michail Sergeevič Gorbačëv ha visto il vostro progetto: è molto interessante e ha intenzione di finanziarlo». L’avventura inizia con questo messaggio di un rappresentante dell’ambasciata russa a Roma all’allora sindaco di Melpignano Antonio Avantaggiato e al suo giovane collaboratore Sergio Blasi, oggi consigliere regionale in Puglia, che ricorda così la genesi del tour: «Avevo letto un libro, Compagno rock di Artemy Troitsky, che raccontava i fermenti culturali dei Rock Club in Russia sotto la spinta della perestrojka. Organizzavamo un festival e l’ambizione giovanile ci portò a sognare in grande: perché non ne approfittiamo per fare venire oltrecortina i gruppi rock anti-establishment tollerati da Gorbačëv?».

Perestrojka e Glasnost, le parole d’ordine del nuovo corso sovietico: ricostruzione e trasparenza. Dopo un paio di no incassati da Comunità europea e associazione Italia-Russia, arriva dunque il via libera direttamente dal Cremlino. Il festival in Salento è battezzato Le idi di marzo perché Gorbačëv era stato eletto proprio nel marzo dell’85. Il Partito avrebbe finanziato non solo i concerti dei gruppi russi in Puglia, terra della Taranta, ma anche il tour delle band italiane in Unione Sovietica, terra del ballo del cosacco.

«È stato il modo più improbabile di avvicinarci al mondo sovietico», racconta pacato e riflessivo Massimo Zamboni, chitarrista dei CCCP: «Partire non dalla rossa Emilia, ma dal lontanissimo Salento: era quello che avevamo sempre sperato di fare e lo abbiamo fatto grazie alla piccola Melpignano, che era stata in grado di vedere così lontano. Non sapevamo bene cosa saremmo andati a fare in Russia, ma avevamo una gran voglia di farlo. Prima di tutto, vedere Mosca e Leningrado».

«Non credevamo neanche si sarebbe realizzata quell’idea», ricorda Piero Pelù. «E invece la cosa successe davvero: andare in Russia in primavera, che in realtà era ancora il loro pesantissimo inverno. Gli artisti italiani famosi lì erano Pupo, Toto Cutugno, Al Bano e Sabrina Salerno. Noi eravamo fuori da ogni logica commerciale e politica: quando arrivammo all’aeroporto 300 russi si fecero il segno della croce, nonostante ci fosse ancora il regime comunista».

Un regime comunista prossimo al collasso. Insieme alle band, a Sergio Blasi e al sindaco di Melpignano Avantaggiato c’era anche la giornalista Alba Solaro, che in un report pubblicato su Rockerilla nel maggio dell’89 raccontava così quei giorni: «Una soddisfazione essere lì presenti in giornate che non è eccessivo definire storiche, le giornate delle elezioni sotto Pasqua, anche se del loro esito, dell’accelerazione che hanno impresso alle scommesse della perestrojka, abbiamo saputo solo più tardi, al nostro rientro».

 

Scortati da Svetlana

Ad attendere la comitiva italiana all’aeroporto di Mosca c’è una donna, Svetlana. «Ci ha preso in consegna e ha chiesto i documenti di tutti» ricorda Zamboni: «Ha dato una scorsa veloce e poi ce li ha restituiti uno per uno, sapendo già a chi andavano: aveva memorizzato i nomi, le facce e la pericolosità di ognuno di noi. Evidentemente, aveva fatto una scuola di partito molto ferrea: sapeva quello che faceva e sapeva cosa non dovevamo vedere o dire».

«Ci hanno presentato questa bella signora russa, Svetlana: “Questa è la vostra guida”», racconta ghignando Pelù. «Dopo sei ore ho capito che era quella che ci doveva controllare, ma avevo anche capito perfettamente come liberarmi di lei, soprattutto a Mosca, una città blindata».

È a Leningrado però che Svetlana si svela in tutta la sua utilità. Un aneddoto snocciolato da Blasi, che descrive pienamente il fermento e le contraddizioni della Russia nel 1989: «Eravamo in questa casa della cultura dove arrivò un fiume di gente, personaggi strani con le creste colorate emersi letteralmente dall’underground. In quel momento la polizia sovietica cominciò a farsi qualche domanda e fermò il nostro sindaco, ma grazie all’intervento di Svetlana la questione si risolse in maniera molto veloce».

CCCP e Litfiba sgattaiolavano tra le maglie larghe del controllo sovietico. «L’idea che sulla piazza Rossa tu non potessi fumare e che occorresse mantenere un contegno» racconta Zamboni «era, per gli italiani, una cosa assolutamente dell’altro mondo. Ma grazie alle moine di Annarella, la nostra soubrette, siamo riusciti a scendere dalle scale di San Basilio, una cosa assolutamente proibita. Lei era vestita da matrioska, aveva cinque o sei strati di vestiti addosso, che pian piano cadevano uno dopo l’altro, con tutti i presenti nella piazza che la guardavano e fotografavano».

Mezza Armata Rossa come pubblico

«Allucinante». Piero Pelù ricorda così il palazzetto dello sport dove suonarono a Mosca: «C’erano solamente militari. Diecimila militari davanti a noi che più che esseri umani sembravano cartonati. Buttati lì a riempire il posto per fare vedere che c’era una grande apertura verso l’Occidente. Li avrei presi tutti quanti a calci in culo».

Un evento con tanto di presentatore descritto da Zamboni come «un brutto ceffo, sicuramente sarà stato un mafioso georgiano, che fece esibire in playback un gruppo heavy metal locale, agghindati come le band americane». E, stando ai ricordi di Pelù, c’era anche «una specie di Sabrina Salerno russa, formosa, molto provocante, che cantò due pezzi tra i CCCP e noi. Una cosa esilarante, poi l’abbiamo vista che ripartiva nel macchinone del generale che era in prima fila».

Prima del concerto delle band italiane succede un’altra cosa bizzarra. Né Pelù né Zamboni hanno memoria di questa asta tosta, ma a un certo punto della serata – racconta Alba Solaro nel suo report su Rockerilla – «viene portato un banchetto davanti al palco e il presentatore si trasforma in imbonitore per una vera e propria vendita all’asta. Copie degli album di Rats e CCCP, spedite come materiale promozionale, finiscono aggiudicate ai migliori offerenti. I soldi dovrebbero andare a un fondo per il restauro della vecchia Mosca, anche se nessuno sembra crederci più di tanto».   

Punk filo-sovietici, nati artisticamente all’inizio degli anni ’80 nella Berlino divisa dal muro, i CCCP raggiungono il capolinea a Mosca. «Non so se considerarla un’azione dadaista, ma è stato certamente il momento più alto», spiega Zamboni: «Cantare A ja ljublju SSSR e poi fare l’inno sovietico con la chitarra elettrica con tutti i militari davanti a noi obbligati ad alzarsi sull’attenti: arrivati a quel punto non c’era nient’altro che potessimo fare. La nostra storia si sarebbe dovuta concludere lì. E in effetti questo è successo, non molto tempo dopo».

Indiani a Leningrado

Da Mosca a Leningrado, oltre 700 km, è un viaggio della speranza. Le band caricano gli strumenti su un treno merci e, eroi sotto la neve, si imbarcano su un altro treno per arrivare a destinazione la mattina successiva, in un’atmosfera completamente diversa.

«Leningrado era un posto magico. C’erano echi di Dostoevskij, L’idiota e Le notti bianche», racconta Pelù. «Fu un concerto vero, con la gente sotto al palco. E le band locali ci invitarono ad andare nella loro sala prove, allestita in un palazzo disabitato stupendo, di fronte alla sede del KGB dove credo in quegli anni lavorasse già Putin. Questi ragazzi con tre cazzate di elettronica si erano costruiti da soli due sintetizzatori. Non avevano niente ed erano eccitatissimi perché era la prima volta che incontravano qualcuno di Oltrecortina: alla fine gli abbiamo lasciato strumenti, corde, plettri, cavi, un microfono… Averlo saputo mi sarei portato molta più roba».

«A Leningrado abbiamo suonato in un Rock Club nato da pochissimo», ricorda Zamboni. «Tutti i musicisti di lì ci aspettavano con molta ansia. E mentre stavamo suonando dal pubblico si è alzato un urlo: “Emilia Paranoica”. Era il presidente del Rock Club degli Urali che l’anno prima aveva sentito il nostro pezzo a Melpignano: se l’era ricordato e voleva che lo facessimo a Leningrado».   

«Era un popolo variegato assolutamente differente da quello che incontravi per strada». Sergio Blasi, il promoter di questa avventura in Russia, torna così sull’incontro con gli indiani sotterranei di Leningrado e i cambiamenti in corso nel mondo comunista del 1989. «Non è che percepissi nettamente il crollo prossimo, ma che qualcosa stesse montando in maniera carsica era evidente da quell’umanità, ragazzi e ragazze giovanissimi che si erano ritrovati lì per una serata dedicata al rock italiano».

Uno di quei ragazzi russi, Kolya, è stato arrestato proprio quella sera. Non c’era nessuna Svetlana a garantire per lui, ma le vie degli huligani dangereux sono infinite. Una storia riportata da Alba Solaro su Rockerilla: «Non ha potuto vedere la fine del concerto perché trattenuto dalla polizia con il pretesto dell’ubriachezza. Ma il fermo dura poco: “Sono un uomo molto popolare presso la polizia”, commenta ridendo».

«Erano anni che guardavamo in quella direzione», spiega Zamboni dei CCCP, «e siamo andati lì con un misto di curiosità, speranza e disgusto prematuro, sentimenti che poteva avere qualunque emiliano nei confronti dell’Unione Sovietica. Ma sembrava che il mondo fosse percorso da un’aria nuova: come nel gioco del domino, se dai un colpo a uno, dopo cadono tutti gli altri».

Per Piero Pelù e i Litfiba «era chiaro che stava succedendo qualcosa, ma non ci saremmo mai potuti immaginare che sarebbe successo così in fretta. C’erano le code per un piatto di fagioli e mi facevano girare i coglioni. Da quel punto di vista, solo Ferretti era esaltato».

«Ho un ricordo sbiadito: Ferretti si distese davanti al mausoleo di Lenin», racconta Blasi. «La mia idea dell’Unione Sovietica era dettata dalla curiosità di un giovane comunista. Un luogo che nell’immaginario adolescenziale rappresentava la liberazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma avevo avuto occasione grazie alla scuola del PCI di stare in Ungheria e Romania e ricordo che, a una cena alle Frattocchie con Giovanni Berlinguer, dissi “il comunismo non fa per me”. Ma ero molto affascinato da quello che stava accadendo ed esaltato anche da quell’incontro all’ambasciata russa: “Il presidente Michail Sergeevič Gorbačëv ha visto il vostro progetto: è molto interessante e ha intenzione di finanziarlo”. Apriva il cuore alla speranza, si poteva cambiare qualcosa».

I CSI nascono in aereo

Due concerti in otto giorni di rock & roll e cetrioli sottaceto, pane e burro a colazione, birre e vodka di sera. Un viaggio duro e freddo come la Guerra per fortuna mai deflagrata tra Occidente ed Est.

«Sull’aereo al rientro in Italia» ricorda Zamboni, «chiacchierando con Maroccolo, sono nati i CSI. Lui cominciava a essere stanco dei Litfiba, noi stavamo cambiando rotta musicalmente e, dopo i concerti in Unione Sovietica, è stato chiaro che per alcuni musicisti suonare a Mosca e Leningrado era stata una tortura. Dopo un po’ di mesi abbiamo registrato l’ultimo album dei CCCP, Epica Etica Etnica Pathos, in cui c’era una consistente presenza di fuggiaschi dai Litfiba. Le storie che nascono in viaggio sono le più forti, cose che se fossi rimasto a casa nella tua vita ordinaria, per quanto stramba, non sarebbero mai successe».

Caduta del muro di Berlino, tracollo del mondo comunista e nuova vita per due delle band più importanti della musica italiana degli anni ’80 e ’90. «Una casualità incredibile. Evidentemente alla fine di ogni decennio deve succedere qualcosa», dice Piero Pelù, nel 1989 proiettato verso le vette delle classifiche italiane, «e quindi è successo anche a noi. Quel viaggio è stato un caravanserraglio incredibile. Ricordi stupendi e rapporti umani che tutt’oggi, per fortuna, continuano. Ci vogliamo sempre bene».     

Dissoluzione del comunismo e rinascita del Salento. Se non ci fossero state Le idi di marzo e la tournée in Russia di CCCP e Litfiba, non sarebbe mai nata la Notte della Taranta di Melpignano, una creatura di Sergio Blasi. «Siamo all’inizio degli anni ’90, ricordiamoci lo sbarco degli albanesi e la nostra accoglienza: ci chiedevano di liberarsi dal bisogno, come avevamo fatto noi italiani partendo per le Americhe, il nord Europa e il nord Italia. Stavamo rivivendo la nostra storia: altre persone con la nostra stessa faccia, i nostri stessi bisogni. La notte della Taranta è la metafora di tutto questo, una richiesta di incontro e amicizia tra musica popolare e altri linguaggi della musica contemporanea. Il muro che crolla libera questa terra».

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