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Jennifer Hudson è una Aretha Franklin da Oscar, ma a ‘Respect’ manca qualcosa

Il film dal 30 settembre nelle sale italiane racconta la prima parte della vita della regina del soul, e lo fa bene, ma sovrastima l'impegno politico e sottostima la vocazione femminista

Foto: Quantrell D. Colbert

Raccontare la vita di Aretha Franklin in un film biografico è un affare parecchio complicato. Innanzitutto perché per dipanare interamente la sua carriera ci vorrebbe una serie tv da sette stagioni, come minimo: ha iniziato a cantare da bambina e non ha smesso fino alla sua scomparsa, a 76 anni, attraversando maestosamente – anche se con qualche periodico scivolone – ogni fase della musica nera, dall’epoca d’oro del gospel al boom dell’hip hop. E poi per una questione ben più sostanziale: valla a trovare una in grado di interpretare in maniera credibile la più grande cantante soul di sempre, senza limitarsi a riprodurre una pallida imitazione della sua straordinaria voce. Non a caso il progetto di una biopic era in cantiere da quasi vent’anni, con il beneplacito di Aretha stessa, che però era frenata proprio dall’impossibilità di trovare una sua degna erede. Almeno, narra la leggenda, fino a quando non sentì Jennifer Hudson cantare a Broadway e capì che l’unica in grado di vestire i suoi panni era proprio lei.

Quarant’anni compiuti qualche giorno fa, ex corista in una crociera a tema Disney, ex concorrente (eliminata dopo poche puntate) del talent show American Idol, dopo molte delusioni Hudson aveva raggiunto inaspettatamente il successo per avere interpretato un ruolo secondario nel musical Dreamgirls, a fianco della divina Beyoncé, per il quale aveva vinto un meritatissimo Oscar come migliore attrice non protagonista nel 2007. La sua ascesa nell’olimpo di Hollywood e del music business, però, era andata di pari passo con la discesa all’inferno dal punto di vista personale: nel 2008 sua madre, suo fratello e suo nipote erano stati brutalmente assassinati dall’ex marito di sua sorella, una tragedia che rischiava seriamente di stroncare la sua carriera e la sua vita privata. Ma Jennifer è una donna forte e piena di risorse, è riuscita a rialzarsi e da allora è diventata una delle più apprezzate attrici e cantanti dello star system afroamericano. Il che, oltre alla voce straordinaria, è una delle tante cose che ha in comune con Aretha: entrambe hanno saputo rinascere più volte dalle proprie ceneri, contro ogni previsione e difficoltà.

Respect, che arriverà nei cinema italiani il 30 settembre, segue la storia di Aretha Franklin dalla sua infanzia alla registrazione del suo disco più venduto, l’album gospel Amazing Grace del 1972, con il quale fa ritorno allo spirito originario della sua vocazione canora. Aretha è infatti figlia di un pastore, il reverendo Clarence Franklin, e pertanto canta in chiesa fin da piccola. Non è estranea neppure alla cosiddetta musica secolare, ovvero al jazz e all’R&B: il reverendo Franklin è un nome di spicco della chiesa nera battista di Detroit, e casa sua è frequentata regolarmente da ospiti come Ella Fitzgerald, Dinah Washington (qui interpretata da una splendida Mary J. Blige), Sam Cooke, Duke Ellington e molti altri. Il talento di Aretha è incoraggiato ed elogiato dalla famiglia e dagli amici, che la aiutano fin da giovanissima a svilupparlo in tutte le sue potenzialità, ma la sua vita non è certo rose e fiori: i genitori sono separati, e oltretutto la madre Barbara, la prima a insegnarle a cantare e a suonare il piano, muore per un attacco cardiaco ad appena 34 anni, poco prima del decimo compleanno della bambina.

I guai della giovanissima Aretha non finiscono qui, e in parte coincidono anche con i guai del film, o meglio, con i suoi aspetti meno convincenti. Perché se non ci sono dubbi sull’interpretazione da potenziale secondo Oscar di Jennifer Hudson, che riesce nella quasi impossibile impresa di riportare in vita la potenza e la delicatezza del timbro unico di Franklin, ce n’è più d’uno sulla scelta di soprassedere abbondantemente su alcuni aspetti fondamentali. Ad esempio, sulle gravidanze infantili di Aretha, che rimane incinta la prima volta a 12 anni e la seconda a 14. Nella realtà non ha fatto mistero della cosa, anche se non ha mai svelato l’identità dei padri (molti, negli anni, hanno insinuato che si trattasse di personaggi di alto profilo nel mondo del gospel); nella finzione scenica, si accenna appena all’argomento, con una scena muta che mostra la bambina con il pancione. Lo stesso dicasi per la violenza domestica subita dal primo marito, i problemi con l’alcol, la depressione e il rapporto controverso con il reverendo Franklin e le sorelle/coriste, a cui era legata da un grande affetto ma anche da grandi rivalità e conflitti. Il tema aleggia quasi impalpabile in alcune scene, ma non si scava mai a fondo più di quel tanto. Ed è un peccato, perché sono questi grandi dolori ad averla resa la donna che era.

Henry Riggs, Jennifer Hudson, Hailey Kilgore, Saycon Sengbloh, Alec Barnes, John Giorgio, Marc Maron, Joe Knezevich in una scena del film. Foto: Quantrell D. Colbert

Altro capitolo un po’ troppo agiografico è quello sul suo ruolo nelle battaglie per i diritti civili. Sia chiaro, nessuno vuole negare che Aretha Franklin sia stata una donna che supportava e approvava in pieno le legittime rivendicazioni dei cittadini afroamericani. Ma la verità è che, in confronto a tanti altri artisti, soprattutto nella prima parte della sua carriera, ha preferito mantenere un basso profilo, limitandosi a partecipare alle raccolte fondi organizzate dalla chiesa e a supportare il lavoro di Martin Luther King con commossa partecipazione, ma dalle retrovie. Non incise mai un vero brano sulla situazione drammatica dei neri in America, come fece il suo amico Sam Cooke (A Change Is Gonna Come, 1964); non mise mai al centro della sua poetica il suo retaggio, come fece Nina Simone (To Be Young, Gifted and Black, 1969, di cui Aretha fece più avanti una cover); non mascherò un inno di protesta da canzoncina pop perché potesse essere diffusa nelle radio di tutto il Paese, come fecero Martha Reeves and the Vandellas (Dancing in the Street, 1965); non realizzò mai un intero album di protesta contro la politica del governo, come Marvin Gaye (What’s Going On, 1971).

A giudicare dal film, però, sembra che la liberazione dei neri americani sia stato uno dei filoni centrali della sua opera, dalle marce anti-segregazione fino alla difesa a spada tratta della militante comunista Angela Davis; è uno dei temi più ricorrenti all’interno della narrazione. Il che è forse un filino eccessivo, nonché non necessario, perché la grandezza di Aretha non si misura certo dal suo attivismo politico, o mancato tale. Anzi, se vogliamo puntare i riflettori sulla più grande rivoluzione che ha incarnato (e purtroppo Respect non lo fa fino in fondo), forse bisognerebbe guardare a quella femminista. In un’epoca storica in cui Tammy Wynette e altre star del country cantavano di voler rimanere accanto al proprio uomo a qualsiasi costo, anche se maltrattate, tradite e ignorate, Aretha prendeva la canzone di un uomo (il geniale e già famosissimo Otis Redding) e la trasformava in un inno per tutte le donne del mondo. Un brano potentissimo sul rapporto tra sessi in cui non solo è lei che pretende rispetto da lui, e non viceversa, ma addirittura è lei che mantiene lui, e glielo sbatte in faccia, invitandolo ad accomodarsi fuori dalla porta se la cosa non gli sta bene.

Oggi che Rihanna, Beyoncé e perfino Britney Spears ci bombardano quotidianamente con messaggi simili – e a ragione, perché a giudicare dal tasso crescente di violenze e femminicidi il concetto non è ancora permeato a sufficienza nella società – bisognerebbe rendere il dovuto onore alla prima che ha avuto il coraggio di urlarlo ad alta voce: l’incommensurabile Aretha.

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