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Zucchero: «In ‘Discover’ ho messo le mie due anime»

Ovvero il soul e la melodia italiana, che celebra nel primo disco di cover. Qui racconta com’è nato, la verità dietro alle collaborazioni coi big internazionali, il rap, i Måneskin: «Hanno colmato un vuoto»

Foto: Daniele Barraco

Poco prima del lockdown, Zucchero sembrava riassumere la sua missione e la sua filosofia di vita nella frase “Vorrei vedere tutto il mondo in festa” (da Spirito nel buio) e annunciava un tour mondiale. Pochi mesi dopo, lo abbiamo visto rappresentare l’opposto di tutto questo, intonando in solitudine brani malinconici e intimisti sui “nostri fragili giorni bui”: solo in casa a mormorare Everybody’s Got to Learn Sometime per il concerto planetario “in remoto” Together at Home, davanti al Colosseo deserto per Canta la vita, o in una altrettanto surreale Piazza San Marco a eseguire Amore adesso. Nel frattempo, sembrava che tutti i giornali volessero parlare con lui di depressione, tornando a un periodo non recentissimo della sua vita.

Il suo nuovo Discover, che è il titolo più eloquente del mondo (un disco di cover), consente di “scoprire” che quando non c’è da far festa Zucchero non rimane solo con i suoi blues: c’è anche un bel po’ di musica italiana. E tuttavia, già sentirlo parlare di musica, argomento su cui stranamente viene poco sollecitato, è un pochino una festa.

Durante il lockdown tutti abbiamo ascoltato più musica, magari ripescando vecchi dischi. È da qui che nasce l’album?
Ne ho ascoltata, anche se a dire la verità per me non è niente di strano, anzi: cinque-sei anni fa ho avuto un periodo in cui ne ascoltavo anche di più. Non posso dire che lo spunto del disco lo abbia dato la pandemia, questo era un progetto che avevo in mente da un bel po’. Avevo accumulato brani dei quali mi sarebbe piaciuto fare una cover – ero arrivato a 500.

Ma è impressionante. Cosa avevi, un file?
No, un quaderno, praticamente un libro. Giorno dopo giorno aggiungevo canzoni, precisando le varie versioni che mi ricordavo. Con la prima scrematura sono sceso a 100.

Come se fossero poche. Qual è stato il criterio per la scrematura?
Non volevo fare pezzi che fossero già stati coperti tantissimo. Oppure, nel caso, che non fossero precisamente quello che ci si aspettava da me. Con diversi titoli mi sono tirato indietro per rispetto e umiltà. In qualche caso sapevo già per esperienza che non potevo fare definitivamente mio un pezzo. Magari ero arrivato a farlo dal vivo come omaggio, come cosa estemporanea da condividere con il mio pubblico, ma farne una versione definitiva per un disco è un’altra cosa. Se non puoi dare qualcosa di tuo, meglio evitare.

Puoi fare un esempio?
A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum, una delle mie canzoni preferite in assoluto. In effetti ne ho sentite diverse di versioni, anche di grandi interpreti come Joe Cocker e Annie Lennox, ma non mi hanno mai appagato come l’originale. Canzoni come quelle è meglio non toccarle, non puoi apportare niente, non puoi farle tue. Come anche brani di cantautori che amo come Guccini e De Gregori, o Battisti, o le nostre band anni ’60, che peraltro spesso facevano cover.

Però nel disco c’è Ho visto Nina volare di De André e Fossati.
Quella l’avevo già cantata, nel 2000 al Carlo Felice di Genova, in un tributo intitolato “Faber amico fragile”. L’aveva scelta per me Dori Ghezzi, e devo dire che ha scelto meglio di quello che avrei potuto fare io. Questa è la versione con la sua voce, alla quale abbiamo pensato dopo.

Guccini e De Gregori li hai incontrati più volte, con De André in che rapporti eri?
Onestamente l’ho conosciuto tardi e non l’ho frequentato quanto avrei voluto, ho conosciuto meglio Dori, fu lei a chiamarmi.

Mi rendo conto che la domanda nasce dalla sensazione che tu abbia frequentato tutti i grandi nomi della musica. Capita anche a te di dare per scontato di incontrarli o c’è ancora qualcuno davanti al quale rimani in soggezione come ai tempi in cui li aspettavi alla fine dei concerti, da fan?
In realtà mi è rimasta un po’ questa curiosità del bambino, non do niente per scontato, tuttora quando vedo Peter Gabriel che conosco da anni, o Bono che ha dato una mano per questo disco (in Canto la vita, nda) o Springsteen che ho visto quest’anno a gennaio, c’è qualcosa che va oltre la stima dal punto di vista artistico e umano, li vedo sempre là (indica in alto). Ma non per falsa modestia, è che semplicemente riconosco quello che hanno fatto e non mi abituo.

Foto: Daniele Barraco

Oggi dei Måneskin, e delle star straniere che li prendono in considerazione, dicono le stesse cose che dicevano di te: che c’è sotto qualcosa… Dicevano che tu regalavi le Ferrari. In teoria dovresti averne regalate un sacco.
Ma non avevo neanche gli occhi per piangere!

A te qualcuno ne ha regalate, quando il nome da sfoggiare sei diventato tu?
Ah ah, sono ancora qui che aspetto. Mi ricordo un giorno che stavamo preparando un servizio fotografico con Miles Davis, ci fu una scena con un giornalista italiano piuttosto conosciuto che diceva: «Guarda che io Miles Davis lo conosco benissimo, me lo faccio dire cosa c’è dietro la vostra collaborazione, stai attento». In quel momento arriva Miles Davis, mi prende e mi porta al ristorante senza nemmeno salutarlo, mentre lui ci seguiva dicendo «Miles, sono qui!»… Quanto ai Måneskin, credo che abbiano colmato un vuoto.

Di che tipo?
Il rock era annacquato da tempo. I ragazzi giovani non sanno chi erano i Led Zeppelin, oppure li hanno sentiti nominare, ma non li hanno vissuti, non sanno cosa li ha fatti venir fuori. Loro sono trasgressivi, sono una nuova immagine per il rock: impudenti e imprudenti, belli e maledetti… L’estetica fa il suo porco lavoro, ma non è che basti: quando succede una cosa così grossa devono combaciare quattro-cinque ingredienti, basta che uno di quelli non vada al posto giusto e la reazione chimica non c’è più. Qui con loro sono combaciati quel vuoto da colmare, insieme a Sanremo, Eurovision, lo streaming e infine i social che amplificano tutto, perché anch’io ho fatto da supporto ai Rolling Stones nel ’99, ma non era una notizia che veniva commentata all’epoca, è successo e basta.

Ma di te cosa è piaciuto, ai musicisti stranieri?
Eh, questo me lo sono chiesto tante volte, perché tanti hanno parlato di pianificazione, di manager, ma la verità è che di un sacco di questi big non sospettavo nemmeno che mi avessero sentito nominare, tipo Brian May che mi chiamò per il Freddie Mercury Tribute senza che lo avessi mai incontrato. Lui aveva sentito la versione inglese di Senza una donna, mi spiegò che aveva comprato il mio disco nella versione per il mercato internazionale. Ancor oggi non so chi gli abbia dato il mio numero di telefono, anche perché avevo appena cambiato casa, un sacco di amici avevano ancora quello vecchio. Oppure Eric Clapton, portato da Lory Del Santo a un mio concerto ad Agrigento, che alla fine mi viene a dire: «È fantastico, vieni in tour con me». A volte sono combinazioni fortuite, Miles Davis è in tour in Italia, sente Dune mosse alla radio e dice: «Chi è questo? Voglio suonare su questo pezzo».

Però un album di figurine come il tuo non ce l’ha nessuno, non può essere tutto casuale.
Va bene, penso che la musica che faccio abbia aiutato. Quasi tutti loro amano gli italiani, è gente ben disposta nei confronti dell’italianità, ma è ovvio che se fai una musica che è anche in parte loro, ti facilita. Poi subentra il fatto che non vengo ritenuto un antagonista: non essendo né inglese né americano, perché tra loro si tirano anche qualche coltellata. Boh, non so, penso di essere affabile e divertente, si fidano di me, quel tanto che basta da fare come Sting e chiedermi di fare da padrino a sua figlia. Ma anche Pavarotti non voleva fare Miserere finché non mi ci siamo incontrati di persona.

Scatta un’empatia.
Ma non solo quella, perché quando inizi a lavorare con questi nomi devi essere all’altezza. Perché là fuori è pieno di produttori che prendono soldi per produrti il disco ma poi siccome «Italians talk too much» non ti ascoltano, fanno di testa loro e fanno il tuo disco nei ritagli di tempo… e fanno un disco di merda. Tu devi essere lì e dirgli che quel Re non è un Re maggiore o settima, ma è un Re quarta settima nona, e tu ce lo hai messo perché deve essere così e basta. Allora, se vedono la gavetta, ti rispettano. Quindi è un misto di carattere, professionalità, e fargli trovare nella musica qualcosa che conoscano però insieme a qualcosa che per loro è diverso e li intriga. Qualcosa di nostro e qualcosa di loro. È anche l’equilibrio che ho cercato in Discover. Ho due anime, non posso fare un album di sole cover in inglese: sono italiano, devo fare metà e metà tra l’anima afroamericana e la melodia italiana, perché io amo sia il soul e il rhythm’n’blues che la melodia italiana.

Quest’ultima cosa include?
Dalla canzone napoletana a Puccini, Verdi e Morricone, e tante belle canzoni di gente brava a scrivere. Per esempio, Fiore di maggio di Concato mi è sempre piaciuta fin da quando uscì negli anni ’80, ma mi pare che non sia mai stata riproposta, è sempre rimasta legata a quel periodo.

Nel disco c’è Con te partirò di Bocelli che è la definizione planetaria di melodia italiana.
Ed è una bellissima melodia, però ho pensato di poter provare a farla come canzone, levandole un po’ di pomposità orchestrale, interpretandola come fosse un mio pezzo. Anche se non lo è, a differenza del brano con cui Bocelli era andato a Sanremo l’anno prima. Però l’ho vista nascere, si potrebbe dire. Bocelli non la voleva cantare al Festival, non se la sentiva.

Volendo, aveva ragione: a Sanremo non andò bene.
Sì, è stato a partire dalla Germania due anni dopo che le cose hanno iniziato a muoversi. Aveva vinto invece con Il mare calmo della sera, che avevo firmato. Avendo vinto tra i Giovani, doveva passare tra i Big – siamo stati fino alle 5 del mattino a convincerlo a cantarla.

A Sanremo invece hai vinto con Elisa e in questo disco ti sei ripreso Luce (Tramonti a Nord Est). Nella tua versione sembra proprio un tuo pezzo.
Quello era un pezzo con un gran ritmo e una produzione fantastica di Corrado Rustici che aveva prodotto anche i miei dischi. Io in realtà ho messo soprattutto il testo italiano, perché lei in quel periodo non voleva cantare in italiano e non voleva andare al Festival. Caterina Caselli insisteva e mi ha chiamato per il testo, mi disse che io potevo conservare il ritmo, lo swing del testo inglese, ed era importante perché Elisa a Sanremo non ci voleva proprio andare.

Posso confermare, l’avevo intervistata qualche mese prima e mi aveva detto che la sua musica e Sanremo erano inconciliabili. E in effetti all’epoca forse lo erano.
Quando ho saputo che aveva vinto ero a San Francisco, sono rimasto davvero sorpreso – non era quel tipo di pezzo.

Hai fatto Natural Blues, resa famosa da Moby, insieme a Mahmood. Però non ti sei spinto a fare un featuring con qualche rapper.
Non sono ancora pronto, ahaha! La gente conosce la canzone di Moby ma l’aveva fatta negli anni ’50 Vera Hall, che l’aveva cantata a cappella, io conoscevo quella versione lì.

Però con Old Town Road di Lil Nas X interpreti per la prima volta un brano rap.
Diciamo che è un brano con andamento rap, non ha un flow da rap vero e proprio, a me ricorda moltissimo dei vecchi brani blues storici.

Perché secondo te il rap ha sostituito il rock?
Piace per il ritmo, per il fatto che ci sono dei testi osée, parole crude – a volte anche un po’ cotte e mangiate. È un linguaggio in cui i giovani si identificano di più, a partire dalle parole, la canna, la troia… Non credo siano affascinati dalla melodia perché non c’è, però sono affascinati dai personaggi, da come vengono presentati questi video. Essendo Adult Contemporary io vengo da un’altra storia: di un brano rap mi può piacere un ritmo un groove, un loop, ma poi quasi sempre non mi rimane niente, è difficile che ci sia un feeling. Quando vennero fuori i primi rapper americani li ascoltavo, mi interessava l’irriverenza, l’essere contro nei testi. Mi piaceva il fatto che ci fosse qualcuno che cantava contro, perché il rock non aveva più quel messaggio, la forza, la trasgressività, e non trovando più tutto questo nel rock, il rap mi dava questa immagine. Poi hanno iniziato a cantare di Rolls Royce e brillanti e praticamente tutto il genere si è allineato al music business.

Peccato che tu abbia tenuto fuori il pezzo dal disco standard.
È il primo dei bonus, è nella versione del box. E quindi è pur sempre un pezzo che è sopravvissuto ad altri 480 che ho scartato… Non volevo fare un album troppo lungo, non mi sono mai piaciuti. Un disco funziona quando ha otto-nove brani come si deve, quando dai la sensazione di aver voluto aggiungere roba a tutti i costi la gente se ne accorge. Poi bisogna avere anche qualcosa da lasciare per il box, dev’essere più ricco dell’edizione standard, altrimenti perché qualcuno dovrebbe comprarlo? Inoltre quella specie di suono e vibrazione roots era presente in altri brani. C’è High Flying Bird di Billy Edd Wheeler che credo la conoscano in tre in Italia, io l’ho conosciuta grazie alla vecchia versione di Richie Havens. Poi c’è Motherless Child che è un pezzo che ha quasi cent’anni, è stata scritta da un musicista di Memphis semisconosciuto e gira con titoli diversi, a me ha intrigato il ritmo che gli ha dato Eric Clapton nella sua versione di tanti anni fa. Così, essendo Old Town Road più recente e quindi ancora nelle orecchie della gente, ho preferito dare qualcosa di meno ovvio e meno conosciuto. Poi ci sta che io abbia sbagliato, perché ho un senso commerciale disastroso. Storicamente io mi do delle gran martellate sui coglioni. Sono specializzato nel farlo, non capisco mai il potenziale commerciale dei miei pezzi. Per esempio, da Senza una donna non ero convinto. Non volevo mettere nell’album Per colpa di chi perché all’inizio mi sembrava una marcetta. E non volevo mettere Miserere.

Sai quali sono le tue canzoni più popolari secondo Spotify?
Non sono molto attento, devo ammettere… Non mi fa impazzire.

Sì, ho letto qualcosa al riguardo. Così te le ho stampate.
Fammi vedere… Mah, mi meraviglio un po’. Queste sarebbero le mie dieci canzoni più ascoltate? Non c’è Un diavolo in me, non c’è Con le mani, non c’è Dune mosse… Forse sono le più popolari nel mondo. Questo spiegherebbe certe cose. C’è Diamante, c’è Così celeste che era piaciuta molto in Inghilterra e Sudamerica, poi la mia versione di Guantanamera che ha fatto un po’ il giro del mondo… Mi spiazza un po’ vedere Così delicato. Manca Miserere che era arrivata ovunque però c’è Occhi, che non mi pare sia stata una hit. Non so cosa dire! Vedo che c’è già Follow You Follow Me.

Quello credo sia perché il singolo viene ascoltato più degli altri quando esce, e l’algoritmo si eccita.
Ah, buon per lui.

Il pezzo dei Genesis come singolo è una scelta interessante. È un pezzo che anche i loro fan hanno rivalutato molto tempo dopo.
Io i Genesis ero andato a vederli nei primi anni 70, quando erano in cinque ed erano conosciuti solo in Italia. Non sospettavo che sarei diventato amico di Phil Collins e soprattutto di Peter Gabriel: ho registrato tre dischi da lui nei suoi studi, e sono stato nella sua bellissima tenuta in Sardegna.

È difficile pensarti come fan dei primi Genesis.
Quando mi sono messo a pensare a questo album ho ripensato molto a quando suonavo nelle balere. Allora le band erano chiamate per fare da attrazione anche se non erano conosciute, bastava l’idea… Noi suonavamo un’ora e mezza in questi baleroni e facevamo il cazzo che ci pareva. Se un pezzo ci piaceva, non importava se non era in classifica. Ci piacevano Otis Redding, Wilson Pickett, poi i Chicago, il nostro genere era più il rhythm’n’blues, ma conoscevo e amavo i Genesis. Poi quando ho iniziato a fare i miei dischi mi sono sentito bene nella dimensione soul e afroamericana perché la sentivo più affine. Come altri l’avevo scoperta tanti anni prima, me ne sono innamorato quando in Versilia sentii venire da un jukebox Sitting on the Dock of the Bay di Otis Redding. Forse sarebbe stato diverso se fossi rimasto a Reggio Emilia dove il blues è arrivato dopo. A Reggio era più popolare il rock.

Questo spiega un pochino il rock di Ligabue.
E anche Vasco, perché alla fine Modena non è lontana. Comunque credo che siano scelte personali, anche loro hanno fatto tragitti musicali più ampi prima di trovare la loro forma… Io oltre al blues ho bazzicato anche altri generi tra cui il prog, che poi se pensi a Procol Harum e Moody Blues non erano lontani mille miglia dal blues. Ma alla fine io non faccio blues, faccio anche blues. Attingo da lì, ma nella mia discografia c’è un po’ di tutto. Poi, so che qualcuno sarebbe rimasto sorpreso ma dei Genesis mi sarebbe piaciuto anche fare Carpet Crawlers o Looking for Someone o Time Table, ma sono più complicate. Sicuramente Follow You Follow Me è la loro canzone più semplice ma ha un fascino particolare, un riff di chitarra e un gancio di Tony Banks che la rendono un piccolo capolavoro. Non ha niente di blues, ma è una gran bella canzone, come The Scientist dei Coldplay. Uno dei criteri per Discover è stato di includere canzoni che avrei voluto scrivere io. Tipo Wicked Game di Chris Isaak.

Torno un attimo al blues. A un certo punto, negli anni ’80, e tu sei uno dei principali responsabili, agli italiani sembrava che il blues piacesse parecchio, fosse un fenomeno da classifica. Con un po’ di ritardo, diciamo. Tu, Pino Daniele e tanti stranieri che si ispiravano al blues andavano ai primi posti.
Sì, c’erano anche gli Style Council, di Paul Weller. Era sorprendente perché appena prima c’era stato un periodo in cui c’era molto pop, sintetizzatori, quindi tutti i discografici a me dicevano di lasciar perdere, non funzionerà mai. Eppure a un certo punto Paul Young con l’album No Parlez ebbe successo cantando Marvin Gaye. Lì pensai: «Forse ce la posso fare anch’io». Il successo di quel disco di Paul Young fu molto importante. Nella musica abbiamo sempre avuto qualcuno che a un certo punto sdogana un genere nero tra i bianchi, è successo col jazz, è successo con Elvis, poi con i Rolling Stones e una generazione di inglesi della beat generation che facevano conoscere quella musica di nicchia portandola nel mondo con la British invasion. Poi il blues tradizionale delle dodici barre è sparito, oggi è difficile trovarlo in quel poco di rock che è rimasto.

Parlando di blues in senso più ampio, ho notato che durante il lockdown continuavano a uscire tue interviste in cui ti chiedevano della depressione, degli attacchi di panico.
Si vede che erano domande che venivano spontanee per il periodo… Non mi piace stare a casa, volevo uscire e fare il mio mestiere. Però si riferiva a una fase superata, per fortuna. Erano gli anni ’80-90, un periodo in cui appena sul palco volevo sparire, ricordo in particolare il concerto al Cremlino: volevo morire, non sono scappato solo perché non volevo gettare spugna, poi a quel punto l’adrenalina ha iniziato a lavorare, ma in quell’epoca vedevo il pubblico pronto a mangiarmi.

Ma come mai? Era il tuo pubblico. Oppure non sapevi chi era il tuo pubblico?
Non avevo ancora realizzato che il mio pubblico è già appagato se io sono me stesso, se faccio le mie canzoni. Io invece credevo che volessero sempre qualcosa di più. Mi sono inventato di tutto, iniziavo i concerti seduto sul trono, ed era perché mi tremavano le gambe. Ora invece non vedo l’ora di salire sul palco e ripartire. Abbiamo dovuto ripianificare due volte una tournée di 150 concerti, partivamo dalla Nuova Zelanda, facevamo tutto il giro del mondo. Poi ogni Paese ha le sue regole. Ed è stato molto faticoso perché i biglietti erano stati venduti. Era un tour pianificato da un anno, avevamo scelto posti molto belli, dalla Royal Albert Hall alla Opera House di Sydney fino alle dieci date all’Arena di Verona. Il casino è che c’è stata e c’è ancora un’incertezza generale sulle riaperture, e ogni Paese ha le sue regole. E nel frattempo magari una location era stata prenotata da un altro artista.

Chi vorresti incontrare stavolta lungo il percorso? Con chi ti andrebbe di uscire a cena?
Prima parlavo di Springsteen… Non abbiamo dialogato molto, ci siamo visti a New York per la Rainforest Foundation, ovviamente mi piacerebbe approfondire.

Con chi ti andrebbe di uscire dopo cena? O anche: chi ti fa sesso?
Dua Lipa!!! Dua Lipaaa!!!

E invece tra i non musicisti, chi vorresti conoscere? Anche per sapere chi manca alla tua collezione…
Fammi pensare… Robert De Niro.

Ah, lui ti manca?
Sì, ho conosciuto Dustin Hoffman, che era matto per il mio disco e pensavo mi prendesse in giro. E anche Jack Nicholson: ci siamo incontrati due volte, lui è incredibile, mi intriga molto come persona. Invece De Niro non l’ho mai incrociato.

Che cosa gli diresti?
Come prima cosa, vorrei complimentarmi per quando ha detto che voleva prendere a schiaffi Donald Trump.

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