Zitti tutti, parla Bassi Maestro | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Zitti tutti, parla Bassi Maestro

Con il ‘king’ dell'hip hop italiano abbiamo parlato di tutto: del nuovo album "Mia Maestà", della scena old school e della sua passione per Kendrick Lamar e A$ap Rocky

In un mondo in cui ognuno di noi è solo una cosa, massimo due, per volta, Bassi Maestro è un’anomalia. Perché nell’hip hop fa davvero tutto, e lo fa bene: è un rapper che ha fatto scuola, è un produttore così abile che perfino in America i suoi beat sono una garanzia, è un dj dalla cultura musicale smisurata, come ingegnere del suono è richiestissimo, come organizzatore di eventi ha segnato uno dei periodi più fiorenti del rap italiano. A un certo punto, con il format Down With Bassi, ci ha rubato perfino il mestiere e ha fatto l’intervistatore. Generazioni di giovani (e non più tanto giovani) rapper guardano a lui come l’emanazione perfetta dell’autorevolezza e della competenza: se Bassi ti dice che qualcosa si fa così, tendenzialmente si fa così e basta. Ad esempio, se ti spiega – come ha fatto in un breve video riservato a tutti i giornalisti convocati ai preascolti – che il suo nuovo album Mia Maestà, fuori da oggi, andrebbe ascoltato almeno una volta tutto di fila, perché è stato concepito come un unicum e come un percorso, non ti viene neanche in mente che possa essere sentito in una maniera diversa: ti adegui con fiducia. E arrivato/a al termine dell’ultima traccia, capisci che effettivamente aveva ragione lui: le playlist assemblabili a piacere possiamo lasciarle tranquillamente a Drake.

Non ti eri mai preso una pausa così lunga: l’album che precede Mia Maestà, ovvero Guarda in cielo, risale al 2013. Perché uscire proprio adesso?
È stata più un’esigenza mia che un’esigenza del mercato. Anche perché io faccio musica sempre e soprattutto per me stesso: come ha detto mio papà dopo aver sentito Metà rapper, metà uomo, “Bello il nuovo singolo, forse un po’ autoreferenziale!”. In effetti in quel pezzo mi auto-cito: il titolo è tratto dal primo verso di Cosa resterà, un mio brano del 1998 in cui campionavo Cosa resterà degli Anni ’80 di Raf. Mi sembrava carino riprenderlo, visto che la gente ci è molto affezionata, e aggiornarlo ad oggi. Il tema è sempre la difficoltà di dividersi tra la vita di tutti i giorni e quella artistica, ma nel frattempo la quotidianità per me è cambiata molto, ora che ho due figlie, delle responsabilità e la musica è diventata il mio lavoro e non solo un sogno. In quasi tutti i miei pezzi parlo di cose che tocco con mano. Sicuramente avevo bisogno di nuovi stimoli, però, e ci sono voluti parecchi nuovi ascolti per spingermi a tornare a registrare un disco.

Avevi deciso di smettere, come molti hanno pensato?
Queste cose non si possono decidere a tavolino, però effettivamente (come sanno bene i vari colleghi che mi hanno chiesto di collaborare in questi ultimi anni) a un certo punto ho smesso di scrivere; le poche mie strofe recenti mi sono uscite molto a fatica. In precedenza mi era sempre venuto molto facile, sono uno che scrive rapidamente e di getto, ma a un certo punto qualcosa è cambiato, forse anche perché mi sono dedicato ad altri progetti – lo studio, l’etichetta, Down With Bassi… Ci ho messo un bel po’ a ritrovare lo stimolo. Anche perché non mi andava di sedermi sugli allori: la sfida era fare un disco che fosse al passo coi tempi, senza ripetermi. Brani che potessero piacere al mio pubblico di sempre, ma che parlassero anche un linguaggio contemporaneo, sia come rap che come produzione. Qualcosa che fosse in linea con la musica che mi piace ascoltare ogni giorno, insomma.

Ad esempio?
C’è chi pensa che io ami solo il rap degli anni ’90, ma non è affatto così: chiunque abbia visto un mio dj set sa che io ascolto e suono davvero di tutto, non ho limiti di genere. Il mio pezzo preferito del momento è Slide di Calvin Harris, Frank Ocean e Migos, per dire. Proprio per questo volevo creare qualcosa che non fosse totalmente fuori dal tempo. Per me è la cosa peggiore, per chi fa musica, è astrarsi completamente dall’attualità: vuol dire che di fatto hai smesso di ascoltare, di guardarti intorno, hai rinunciato all’idea di fare qualcosa di nuovo.

A costo di turbare i tuoi fan più tradizionalisti?
Sia chiaro, io non voglio essere il paladino di niente e di nessuno: la mia unica ambizione è quella di fare la musica che piace a me. Non si può rimanere legati per forza a dei dogmi. Credo che una delle più grandi conquiste di questi ultimi anni sia esserci liberati dall’idea che l’hip hop vada preso come una specie di religione o di setta. Era una cosa che ci eravamo inventati noi in Europa, in America non è mai fregato niente a nessuno di questo. Per anni ci siamo autocensurati, pensando che certi suoni non fossero abbastanza hip hop. Per fortuna, però, oggi la gente scopre finalmente grazie ai documentari che Afrika Bambaataa, il padre fondatore della cultura, adorava la techno, la house, la musica elettronica e il rock e che non c’è niente di male in questo.

A proposito di musica che piace a te, mi sei venuto subito in mente quando ho ascoltato gli ultimi singoli di Kendrick Lamar e Joey Bada$$, i due enfant prodige del rap americano, che cambiano beat e atmosfera ad ogni strofa, cosa che anche tu fai spesso in Mia Maestà
Per me un album dev’essere un viaggio in cui c’è un punto di partenza, un punto d’arrivo e diversi cambi di panorama, e non una semplice raccolta di brani messi lì a caso: anche all’interno delle singole canzoni deve succedere qualcosa di sorprendente. In questo senso sicuramente mi hanno ispirato i vari A$ap Rocky e Schoolboy Q, che ho ascoltato parecchio negli ultimi anni. Mia Maestà è un album di passaggio, in cui ci sono ancora elementi classici della mia produzione ma provo anche a spingermi un po’ oltre. Quando hai avuto una carriera lunga come la mia, c’è sempre il problema di dover spiegare ai nostalgici che evolversi è giusto e normale: non farò mai trap, perché chiaramente non è il mio linguaggio, ma non posso neanche suonare come vent’anni fa, altrimenti che senso ha? A quel punto tanto varrebbe limitarsi a ristampare i miei dischi vecchi, come fanno tanti miei coetanei in questo periodo. Credo che anche Fabri Fibra viva il mio stesso problema: anche lui ha sempre ascoltato e fatto di tutto, e invece si trova assediato da chi vorrebbe che replicasse lo stesso tipo di musica che faceva nel ’96.

Oggi il mio nuovo album #miamaesta è fuori su tutte le piattaforme digitali e da venerdì 7 in tutti i negozi!Grazie a…

Pubblicato da Bassi Maestro su Venerdì 31 marzo 2017

Curioso che tu dica questo, però, perché il pezzo che hai fatto con Fabri, Non muovono il collo, ha degli elementi molto nostalgici degli anni ’90. Il tema di fondo è che una volta ai concerti rap la gente saltava e muoveva la testa a tempo, mentre ora i ragazzi sotto il palco sono immobili… È un paradosso voluto?
È una provocazione, più che altro, anche un po’ disincantata. Molti che lo hanno sentito mi hanno detto che quel pezzo è “molto old school”, e la cosa è voluta: anche nel beat abbiamo scelto insieme di inserire elementi un po’ datati, alla Naughty by Nature o alla Cypress Hill. È un tributo, insomma: detto questo, sia io che lui siamo persone che guardano avanti.

A proposito di guardare avanti, hai superato da un po’ i quaranta: molti dei tuoi colleghi hanno letteralmente la metà dei tuoi anni e in Italia il rap è ancora considerato una musica “giovanile”. Come ci si sente a muoversi in questo panorama?
Ho inserito nel disco l’audio di un’intervista a Bumpy Knuckles che parla proprio di questo. Bumpy ha già superato i cinquanta, e racconta che per lui è una pugnalata al cuore sentirsi dire che dovrebbe smettere di rappare perché non ha più l’età: “Sarebbe come dire ad Aretha Franklin o a Smokey Robinson di smettere di cantare perché sono vecchi”, spiega. Non ha senso pensare che l’hip hop sia un genere legato all’età di chi lo fa. Sicuramente da noi in questo momento ha popolarità perché è legato all’età di chi lo segue, però anche in Italia cominciano ad esserci diverse generazioni di ascoltatori, ormai. Le cose migliori arrivano quando il gap anagrafico non si sente: se mi trovo a lavorare con un ragazzo che spacca e ha vent’anni meno di me, e né io né lui avvertiamo la differenza d’età perché musicalmente parliamo la stessa lingua, non può che nascere qualcosa di bello. I miei coetanei non devono andare alla ricerca della gioventù a tutti i costi, e i giovani non devono cercare per forza qualcuno che li riporti con la macchina del tempo alle origini del rap: l’incontro funziona solo se è spontaneo e naturale. Soprattutto se si riesce ad andare oltre la musica e a passare anche una serata insieme a parlare davanti a una birra.

Tra l’altro quasi tutti gli ospiti dell’album (fatta eccezione per CDB e Fabri) sono giovanissimi…
Ci sono persone con cui tradizionalmente collaboro spesso: i vari Mondo Marcio, Jack the Smoker, dj Shocca. Ecco, a questo giro ho preferito precludermi queste collaborazioni, che mi fanno sempre molto piacere, per cercare stimoli diversi. Sia chiaro, non volevo accaparrarmi a tutti i costi il nome del momento o l’mc più fresco per farmi pubblicità: ho scelto sì ragazzi molto giovani, ma che seguo già da qualche anno e che magari sono già venuti a registrare nel mio studio in altre occasioni. Lazza, ad esempio, aveva cominciato a registrare da me quando aveva appena sedici anni. Quello che conoscevo meno era Vegas Jones, ma ci siamo trovati benissimo perché è uno come me, rapido e preciso. Il criterio, comunque, è il solito: lavoro solo con gente che rispetto completamente e che fa musica che mi ascolto volentieri anch’io.

Sei sempre stato un punto di riferimento per i rapper più giovani di te e anche in Mia Maestà sei prodigo di consigli: in Ancora in giro, ad esempio, dici “Perché lasciate il vostro piccolo paese?/ qui senza skillz non arrivate a fine mese”…
Ultimamente c’è la convinzione che se ti piace il rap e sei bravino a farlo, arrivi a Milano con il tuo fagotto e nel giro di breve puoi svoltare e fare i soldi con la musica. Non è sempre così, però. Bisogna che tu sappia cosa vuoi fare, quali sono le tue reali possibilità, se ne vale davvero la pena. La passione da sola non basta, soprattutto ora che tutti imitano chi ha già successo anziché sviluppare uno stile proprio: il che è un po’ come essere negli anni ’60 e provare a copiare i Beatles. La cosa che mi dispiace di più, oltretutto, è che puntando direttamente sulle grandi città si trascurano le realtà locali, che invece andrebbero sviluppate. Pensa ad esempio alla Sardegna: molti rapper sardi, in primis i ragazzi di Machete, hanno puntato tutto sulla loro identità e hanno costruito qualcosa che prima non c’era, un’ottima realtà indipendente, credendo nelle proprie forze.

Ecco, a proposito di realtà indipendenti: il tuo album esce per Com’Era, l’etichetta che hai fondato. Perché lanciarsi anche in questo business?
Ho iniziato un paio di anni fa, con l’idea di produrre esclusivamente su vinile (niente ristampe, ma pezzi unici o prime stampe): si può dire che Mia Maestà sia il primo capitolo di Com’Era Digital, c’è sempre una prima volta per tutto! (ride) Diciamo che non è una vera e propria etichetta, ma un supporto alle mie avventure discografiche, cosa che mi ha permesso di dare un formato in vinile a tutti i miei album indipendenti che non ne avevano mai avuto uno. Compreso Mia Maestà, ovviamente, che spero uscirà a breve anche in LP.

Tornando ai brani, in Fottuto O.G. fai un elenco degli originatori della scena hip hop italiana, includendo anche nomi che non ci si aspetterebbe da un duro e puro come te, ad esempio gli Articolo 31. Come mai?
Nella prima strofa cito degli O.G. (ovvero originatorz) americani, e nella seconda ho voluto fare la stessa cosa con gli italiani. Ho scelto di nominare persone che c’erano già quando ho iniziato io a fare rap, persone che ho visto sul palco prima ancora di salirci personalmente, tra cui anche gli Articolo 31. Li avevo visti in apertura di un concerto a Bologna già nel ’93, e a livello di resa dal vivo erano molto avanti rispetto a tutti gli altri: ai tempi erano i Jazzy Jeff and the Fresh Prince italiani, secondo me. Detto questo, in quel brano nomino molte altre persone e realtà. O.G. è un termine molto diffuso nello slang hip hop, ma sta diventando un po’ troppo inflazionato: se rappi da qualche anno appena, indipendentemente dai risultati, NON sei un O.G. E questo era il mio modo per ribadirlo.

Un altro brano che colpisce molto è Gesù Cristo, in cui parli di un Messia parecchio incazzato rispetto a quello a cui tradizionalmente siamo abituati: “Ora a Betlemme non volano stelle, ma solo mazzate”. Onde evitare fraintendimenti bigotti, ce lo spieghi meglio?
Anche questa è una provocazione, ovviamente. La mia avversione per le religioni, intese come sistemi organizzati di lavaggio del cervello dei popoli, è nota. Però quel pezzo l’ho scritto soprattutto alla luce dell’attualità, dalle fobie di massa che si stanno creando ultimamente e che spesso sono motivate o giustificate da un fanatismo indotto. Mi sono fatto un viaggione sulla figura di Gesù, con tutta la sua tradizione, che si trasforma in un leader contemporaneo, di quelli che dettano legge a livello mediatico e che magari sono percepiti in maniera distorta dal grande pubblico, come i rapper. Da lì nasce il mio Gesù immaginario e controverso, controverso peraltro come qualsiasi altro religioso o politico dei nostri tempi, in fondo: nessuno è più un santo, oggi. Il pezzo si chiude con l’audio di un discorso di Papa Ratzinger, tanto per rincarare la dose, e non a caso segue $$$, un brano che parla di soldi, altro grande tema dei nostri tempi.

Parliamo invece dei due skit intitolati Social Man: nella vita non sei un grande amante dei social network, tant’è che hai addirittura creato il portale web Down With Bassi, per veicolare contenuti senza per forza passare dai vari Facebook e Twitter…
Mi piaceva l’idea di inserire degli skit che segnano il periodo attuale e che tra dieci anni, probabilmente anche meno, suoneranno già vecchi e faranno sorridere ripensando a quei tempi. Un po’ come quando oggi senti quelli degli anni ’90 in cui c’era il suono dei modem per la connessione a Internet, che una volta era il massimo della futuribilità… I social cerco di usarli il meno possibile, praticamente solo a scopo promozionale, ma nella vita reale sono proprio come mi racconto in quegli skit, un po’ schiavo della freneticità tecnologica. Credo che molti si riconosceranno in quelle scenette.

Last but not least: il disco si chiude con L.B.D.L., una traccia molto bella e personale ma su cui hai scelto volutamente di dare poche informazioni. Cosa puoi/vuoi raccontare su questa canzone?
Che come tutte le altre, è una canzone che ho scritto in primis per me. Questa in particolare è legata al periodo attuale e la dedico a una persona molto cara ma, come sempre succede, ciascuno può attribuirle il significato e l’interpretazione che vuole. Ci tenevo che fosse nel disco perché la musica è la mia forma espressiva migliore, è il mio modo per rendere onore alle cose a cui tengo di più. E questo è un messaggio che vorrei rimanesse.