Lo Zen e l’arte della manutenzione dei Led Zeppelin | Rolling Stone Italia
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Lo Zen e l’arte della manutenzione dei Led Zeppelin

Jimmy Page ci ha aperto le porte degli studi dove, come un paziente archivista, ha messo a nuovo tutta la discografia della band: «Ora potete ascoltarci in modo perfetto»

Un nuovo album dei Led Zeppelin in uscita

Un nuovo album dei Led Zeppelin in uscita

Salire i pochi gradini degli Olympic Studios di Barnes, elegante quartiere residenziale a sud di Londra, significa entrare nella storia del rock: tra queste mura i Rolling Stones registrarono 6 album, qui hanno preso vita canzoni come All You Need Is Love e A Whiter Shade of Pale, colonne sonore come Jesus Christ Superstar e Rocky Horror Picture Show, album come Who’s Next, e come il primo dei Led Zeppelin. Ed è qui che Jimmy Page è tornato per presentare la sua titanica opera di rimasterizzazione dell’intera discografia di studio della sua band.

Oggi gli Olympic Studios sono di nuovo un cinema, come all’inizio del ‘900, prima di essere trasformati in studi di registrazione, con annesso “members club” che ne celebra la storia (le copertine di Led Zeppelin 1, Fireball dei Deep Purple e Slade Alive! sono incorniciate sul muro della toilette) e la caratteristica di avere, nelle due sale cinematografiche, un impianto audio di qualità stratosferica, altro valido motivo per ospitare qui gli ascolti guidati da Jimmy Page in persona. Dopo 3 uscite scaglionate nel corso degli ultimi anni, inclusa l’edizione speciale per i 40 anni di Physical Graffiti, l’ultima comprende i 3 dischi finali della carriera dei Led Zeppelin: Presence (1976), In Through the Out Door (1979), e Coda (1982), assemblato dopo la scomparsa di John Bonham e capitolo finale della vita del gruppo che cambiò per sempre le sorti ed i suoni del rock.

Ognuno dei 3 album esce in edizioni sontuose (vinile o cd) con vari “companion disc” che contengono brani inediti o versioni alternative di canzoni incluse nell’edizione originale, con delle chicche straordinarie come Sugar Mama, registrata proprio qui agli Olympic Studios nel ’68, e Friends, che Page e Plant andarono a incidere in India nel ’72 con la Bombay Orchestra. Il dio della chitarra ci accoglie nel salotto appropriatamente denominato “Music Room”, è alto e magrissimo, con una sobria camicia di lino nero e i lunghi capelli bianchi raccolti dietro. Il suo sorriso riesce a distendere la tensione di chi è consapevole di essere di fronte ad una delle personalità più influenti della storia della musica, che nell’ultimo periodo si è scoperto paziente archivista di tutte le registrazioni della band.

Quale è stato il momento in cui hai deciso di mettere mano all’intero catalogo per dare il via a una operazione così ambiziosa?
Il punto di partenza è stato Celebration Day, il DVD del nostro concerto alla 02 Arena nel 2007. Da lì ho cominciato un lavoro di archivio su tutto quello che avevo, a partire dai demo registrati a casa su cassetta quando ero un teen ager. Volevo avere un inventario completo di tutte le mie registrazioni, anche quelle con gli Yardbirds, fino ad arrivare ai Led Zeppelin, e ho lavorato per diversi anni sul nostro materiale.

Dove erano conservati, fisicamente, tutti quei nastri?
I nastri sono sempre stati il mio punto di riferimento di tutte le registrazioni dei Led Zeppelin, e li ho sempre conservati con molta cura. Io lavoravo in studio più degli altri della band, quindi avevo la consapevolezza di quello che veniva registrato. In tutto questo lungo periodo solo un nastro analogico è andato perso, probabilmente rubato. Era una canzone che si chiamava Jenning’s Farm Blues, ma tutto il resto è rimasto nelle mie mani. Sono stato meticoloso nel conservare tutto, ma non lo avevo catalogato. Subito dopo aver prodotto Led Zeppelin DVD nel 2001 (uscì nel 2003, ndr) ho pensato a questo progetto, che inizialmente non era così ambizioso come quello che poi abbiamo realizzato. Non era facile far capire alla gente cosa vuol dire “ricreare” un album storico, arricchirlo con brani inediti, riproporlo con copertine alternative. Ora per fortuna tutti lo hanno capito, siamo arrivati alla fine del percorso con gli ultimi 3 album, e sono molto soddisfatto, perchè ogni album è molto diverso dall’altro, così come i “companion disc” con i brani inediti che li affiancano.

Alcuni tra i brani inediti sono versioni alternative di canzoni già esistenti, come To Ones are Won.
Quella è l’essenza di Achilles Last Stand, una delle prime registrazioni di quella canzone (dall’album Presence, ndr) in cui avevo inciso tutte le parti di chitarra in una sola sera e in questa versione le ho mixate tutte insieme. Lavoravo con un ingegnere del suono che si chiamava Keith Harwood, che aveva registrato le parti orchestrali di Kashmir e mixato Physical Graffiti, con il quale andavo molto d’accordo e che mi capiva al volo, il che è sempre utile. In questa versione tra l’altro manca una parte del testo. Robert aggiunse successivamente una strofa per la versione definitiva.

Un altro inedito da Presence è interamente strumentale.
Si chiama Pod, è un brano pianistico. John Paul Jones aveva scritto l’inizio di una struttura al piano, anche se Presence è essenzialmente un album chitarristico, intenso, molto “dark”. Quello per noi non era il momento di scrivere canzoni come…per darti un esempio, Going to California, così liricamente leggera. In questo brano non ci sono le parole perchè Robert non si sentì di registrare niente, neanche una “voce guida”. Ma era importante farlo ascoltare perchè ha un approccio così diverso da tutto il resto dei brani in questo album. Presence fu registrato, mixato e completato in 3 settimane, e mi piace l’idea che la gente oggi possa capire tutto quello che eravamo capaci di fare in quel momento.

Ascoltavo tutto quello che poteva influenzarmi, il jazz, il flamenco, il bottleneck blues…

Possiamo dire che Pod è un brano che sarebbe stato bene nell’album successivo, In Through the Out Door.
Si, certo, e con una parte vocale sarebbe stato superbo. Noi cominciammo a registrare In Through the Out Door nel momento in cui John Paul Jones acquistò una tastiera, la “Yamaha dream machine”, che in quel periodo era lo strumento più straordinario che esisteva, la tastiera definitiva, aveva un sacco di effetti, ed era famosa perchè la usava Stevie Wonder. John Paul Jones era così ispirato da quello strumento che si mise a scrivere canzoni, ed io ero contento perchè in Presence avevo scritto tutto io, e dopo un “guitar album” andava bene un disco più focalizzato sulle tastiere, anche perchè nel nostro sound le tastiere c’erano sempre state, fin dal primo album. La logica era che dopo un album di tastiere saremmo tornati poi ad uno con le chitarre in primo piano.

A proposito di chitarre: ho sempre avuto la sensazione, ascoltando i tuoi assoli, che la chitarra quando è nelle tue mani abbia una vita propria, è come se volesse andare da qualche parte e tu ne controllassi l’istinto, la sua voglia di ribellarsi.
Ma io l’ho sempre riportata a casa! Secondo me perchè ha paura della mia tecnica.

Infatti, e questo ha a che fare con il “potere del rock” che il sound dei Led Zeppelin esprimeva, in un periodo in cui il rock’n’roll non trasmetteva una così decisa sensazione di potenza.
Capisco quello che vuoi dire, il nostro era un suono molto intenso. Il rock’n’roll arrivava dagli anni ’50, dai tempi di, per quanto mi riguarda, Johnny Burnette and the Rock’n’Roll Trio, ed è interessante perchè nel rock’n’roll c’è sempre stato un cantante con un chitarrista accanto: Elvis Presley con Scotty Moore, Ricky Nelson con James Burton. Ma l’intensità di quello che consideriamo “rock” è data dai riff, e questa intensità nasce dal blues di Chicago. C’è una grande differenza di attitudine tra, ad esempio, Howlin’ Wolf e il rockabilly di un grande chitarrista come Cliff Gallup, che suonava con Gene Vincent. Il blues di Chicago è molto più dark, e i riff di chitarra possono riuscire anche ad indurre la trance. Questo è molto importante. La ripetizione crea l’intensità, questo è quello che volevo fare.

Parlando di trance e ripetizione, in queste riedizioni ci sono un paio di momenti, come Friends, in questa versione incisa con l’ orchestra di Bombay, nei quali si sente che la musica indiana, che ha molto a che fare con la trance, ti affascinava al punto di influenzare il tuo stile chitarristico e a farti andare fino a Bombay con Robert Plant apposta per registrare.
Questo ha a che fare con i miei inizi di musicista. Io ho cominciato come chitarrista acustico, a 12 o 13 anni, e non ho mai abbandonato la chitarra acustica. Ascoltavo tutto quello che poteva influenzarmi, il jazz, il flamenco, il bottleneck blues, tutti gli stili di chitarra, ascoltavo la musica araba suonata con l’ Oud e anche quella indiana, perchè le note “piegate” di quella musica (“bending notes”, ndr) le sentivo vicine a me, ero affascinato da quella musica da un punto di vista puramente emotivo, poi quando l’ho studiata sono rimasto sbigottito dalla tecnica che usavano per produrla, infatti scrissi Friends già con l’idea di realizzarla con un’orchestra indiana. Poi ebbi un contatto con una persona che mi fece conoscere Ravi Shankar.

George Harrison?
Successe ben prima che lui incontrasse George Harrison. Non sto dicendo che Harrison non ascoltasse musica indiana, non ne ho idea, forse ne era rimasto colpito per via della moda hippy quando tutti ascoltavano melodie indiane, ma io conobbi Ravi Shankar prima di tutto questo. Avevo un sitar, me lo ero fatto mandare dall’India, ma non sapevo come si facesse ad accordarlo. Ravi Shankar faceva un piccolo concerto a Londra. Tra il pubblico c’erano dei diplomatici indiani, un suo parente che che viveva a Londra e faceva l’attore, insomma erano tutti adulti, gli unici giovani eravamo io e la ragazza che me lo avrebbe presentato. Quella sera lo conobbi e lui mi insegnò ad accordare il sitar, e questo succedeva almeno due o tre anni prima che i Beatles lo incontrassero.

Tra tutti e tre gli album di questa serie, Coda sembra quello con più materiale inedito, forse perchè era già una raccolta di materiale inedito quando uscì la prima volta.
Esatto, hai colto il punto, era proprio questo, perciò dopo tutti questi anni ho voluto realizzare “La madre di tutte le Code”: la summa di quello che è stata la band nel corso degli anni. Ho salvato delle cose molto belle per questo “companion album”, che ha una qualità eccellente proprio perchè esprime colori diversi.

Ora il materiale di archivio esistente è finito?
Ho esplorato tutto il materiale registrato in studio. Ho fatto delle scelte, e queste sono le migliori che potessi fare. Ora è tutto disponibile, rimasterizzato, nei migliori formati con cui si può ascoltare la musica, e la gente non ha solo l’opportunità di ascoltare gli album originali in modo perfetto, ma con il doppio delle informazioni rispetto a prima, grazie ai dischi che li accompagnano. Quindi, per quanto mi riguarda, credo di aver fatto un buon lavoro.

Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di luglio-agosto.
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