Raggiungo l’albergo nel centro di Milano per l’intervista e capisco come deve essersi sentito Mosè all’apertura delle acque. Solo che, al posto del Mar Rosso, a spalancarsi davanti a me ci sono centinaia di fan di Yungblud accorsi dopo che lui stesso ha condiviso la sua posizione su Instagram. Un’accoglienza calorosa e quasi reverenziale che fa capire il legame profondo e diretto che l’artista ha col suo pubblico.
Il disco che pubblicherà venerdì 20 giugno si intitola Idols e, paradossalmente, attraverso questo lavoro Yungblud si scrolla di dosso l’immagine di idol per abbracciare – o perlomeno cercare di abbracciare – quella di musicista autore di grandi opere. Lo fa prendendo ispirazione e nutrimento dal glorioso passato della sua terra, l’Inghilterra, che ha plasmato come forse solo gli Stati Uniti la storia musicale occidentale negli ultimi 80 anni.
Idols si presenta come una vera e propria opera della maturità, un lavoro che, pur attingendo a influenze rock classiche come gli Who, gli Oasis e i Green Day, cerca di ritagliarsi uno spazio personale e contemporaneo. Il progetto fonde platealità e introspezione, con brani che si spingono fino a durate inconsuete, a sottolineare la volontà di osare ed esplorare territori nuovi.
Hai parlato di un percorso lungo quattro anni in cui non sapevi dove sarebbe andato a finire il disco. C’è stato un momento preciso in cui hai capito che dovevi fare qualcosa di più autentico, di vero, senza compromessi?
Assolutamente sì. Il mio ultimo album ha rappresentato una curva di apprendimento bella tosta. Avevo cinque canzoni incredibili, ma il resto era fatto di fretta, avevo fatto compromessi che non mi piacevano.
Che tipo di compromessi?
Beh, tagliavo parti di canzoni, cercavo di accontentare i trend del momento, non era più me stesso. E quando il disco ha raggiunto il numero uno in sette Paesi invece di festeggiare mi sono detto: ok, adesso basta con le mezze misure, è ora di fare qualcosa di vero. Yungblud era troppo prevedibile, la gente sapeva già cosa aspettarsi da me. Io volevo qualcosa di più grande: un album senza forma, senza pensare ai singoli, un disco che potrebbe essere fatti tra 50 anni o 50 anni fa. Il mio obiettivo era chiaro: fare un classico. Per questo abbiamo usato orchestre, strumenti veri, roba che non legasse l’album a nessuna epoca.
Mi ricorda la canzone degli Smiths che dice “I want to go down in musical history”. Ti senti così anche tu?
Esatto, proprio così. Non volevo solo fare un altro disco carino. Volevo un’eredità. Un disco che resista, che non passi di moda. Sono stanco delle cose usa e getta, della musica che vive solo per un’estate.
Quindi ti sei finalmente liberato, hai fatto un album rock classico, senza pensare ai gusti delle radio o del pubblico?
Esatto, fanculo a tutto quanto! Amo il rock, ma fin da quando avevo 19 anni ho sentito di doverlo distorcere, piegarlo per entrare nella cultura mainstream.
E cosa ti ha fatto cambiare idea?
La stanchezza. Volevo fare un album rock classico, un’avventura piena di forza ed emozione, alla maniera di band come Led Zeppelin, Who, Janis Joplin, Fleetwood Mac. La gente ha paura di quel rock “da vecchi”, ma se lo fai con uno sguardo giovane e onesto, è il miglior genere del mondo. È quello che ascolti dopo mezzanotte, quando smetti di fare il figo. Il rock è stato soffocato per anni, ma ora sta tornando da angolazioni diverse: hardcore, punk, indie, metal… Noi volevamo andare dritti al centro, fare rock vero, senza preoccuparci della radio o dei fan. Ho fatto questo disco per me stesso, perché Yungblud mi stava soffocando. A 27 anni o muori o rinasci, se non vuoi diventare una parodia.
Questo album sembra proprio un momento cruciale per te, una questione di vita o di morte.
Esatto, è stato tutto o niente, rosso o nero. Il rischio più grande che abbia mai corso, ma fatto con tutta l’emozione e la verità grezza che avevo dentro.
Hai paura delle conseguenze?
No, anzi, è un onore poterlo suonare per il resto della mia vita. Se lo fai con sincerità, il pubblico lo sente.
Quando hai iniziato a scrivere e lavorare a questo disco, c’erano album o artisti particolari a cui ti rifacevi?
Tantissima roba. Houses of the Holy dei Led Zeppelin, Stephen Sondheim, Leonard Bernstein, il teatro, l’opera, American Idiot dei Green Day, The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, Rumours dei Fleetwood Mac… Anche roba più recente come Peripheral Vision dei Turnover, gli Stone Roses, (What’s the Story) Morning Glory degli Oasis. Album che ti portano in un viaggio dall’inizio alla fine, non quei dischi fatti di quattro hit e il resto riempitivi.
Ti sembra che oggi la musica sia diventata troppo veloce, troppo confezionata per stare nei formati di streaming e social? Quanto ti ha pesato questa tendenza?
Tutto deve stare in 15 secondi, due minuti, canzoni fatte per lo streaming veloce. Tutto diventa mediocre, omologato. Io stesso ero parte di quel sistema: tagliavo l’ultimo ritornello per far funzionare la canzone in radio o streaming. Non volevo portare quella mentalità in questo album. La magia non si può ridurre a formato TikTok, altrimenti diventa finta.
Per te quindi era fondamentale riportare l’umanità nella musica, con tutti i suoi difetti e la sua verità.
Sì, l’umanità è tutto. Abbiamo vissuto anni in cui tutto era algoritmico, ma la gente è stanca e vuole verità. Se qualcuno si sente vivo anche solo un secondo ascoltando questo disco, abbiamo fatto il nostro dovere.
La tua onestà e autenticità passano molto anche dal tema della salute mentale. Quanto è importante per te essere così trasparente?
È tutto. Questo album è la verità più pura che abbia mai detto. La mia arte è la mia vita, io sono l’arte.
Ti senti sotto pressione per questo?
Se sento di diventare poco autentico, mi fermo, anche per sei mesi o un anno. Non posso permettermi di dire bugie, non è solo una questione di carriera, è la mia vita. Ora non accetto un “no” come risposta. Ho sempre bisogno di qualcosa contro cui ribellarmi. Questo disco è un atto di ribellione, di verità. È il disco che volevo fare a 18 anni, ma questa volta l’ho fatto davvero per me stesso, perché o fai così o molli tutto.
Hai iniziato a esplorare chi eri veramente a Londra, come ti senti adesso dopo tutto questo viaggio?
Ora so chi sono davvero. Sono andato a Londra per sperimentare, mettere il trucco, vestirmi come volevo, esplorare la sessualità. Ora ho tirato fuori tutta la merda, il trauma, ho cercato di capire la mia mortalità per vivere davvero, non solo esistere. Ho trovato una forza che non mi fa più fregare di cosa pensano gli altri. La trappola è dare potere a chi ti dice «ti odio». Io scelgo di non farmi più fregare.
L’Inghilterra ha un ruolo importante in tutto questo? Che rapporto hai con le tue radici britanniche e come si riflette nel disco?
Lo adoro. Amo essere inglese. Amo il tè, il fish and chips, la pinta di birra, le sigarette sotto la pioggia, portare il cane su una spiaggia gelida. Amo la musica nata qui.
E come si riflette tutto questo nell’album?
Questo album è un punto di ancoraggio, un ritorno alle radici, alla terra e al fumo del nord. Amo l’Inghilterra per il suo minimalismo, le piccole cose: un pub con un camino, la colazione inglese, la birra lager. Se vai lì aspettandoti il cliché, rimani deluso. La verità è nascosta nelle cose semplici. Non puoi prendere in giro il pubblico inglese: o sei vero o non sfondi.
Ti capita che i fan ti attribuiscano un ruolo troppo grande?
Una persona mi ha detto: «Tu mi hai salvato la vita».
E tu cosa hai risposto?
Che non è vero, che era lui ad essersi salvato. La mia musica è solo una colonna sonora. La verità è che prendi ispirazione da idoli diversi, ma alla fine sei tu a creare la tua identità.
Cosa vuoi che le persone trovino nelle cose che scrivi?
Pace. Combatto con l’idea della vita, non volevo cantare amore o rabbia, volevo dire qualcosa di vero.
Come riesci a mantenere questa sincerità?
Ho imparato che i miei testi prima erano troppo specifici, ora voglio che siano ambigui, che ti costringano a fare la tua conversazione interiore. Change è la canzone più difficile che abbia mai scritto. Ho ascoltato i Pink Floyd, ho voluto scavare in fondo al perché viviamo e moriamo. E spero di avercela fatta.