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Yola: da senzatetto a prossima stella del blues

Per due settimane ha vissuto letteralmente dentro una borsa, dopo un'infanzia a dir poco complicata. Adesso la cantante è prodotta da Dan Auerbach e sogna in grande

Yola ha pubblicato a febbraio il suo primo album 'Walk Through Fire'

La spontaneità con cui Yola racconta la sua storia è merce rara, nel music business. Non solo perché gli artisti, nelle interviste, tendenzialmente sono molto meno comunicativi di quanto ci si aspetterebbe, ma anche perché chi ha un vissuto a tratti drammatico come il suo di solito preferisce non sbottonarsi troppo. Lei, invece, non solo ci scherza su, ma riesce anche a trovare una morale e un risvolto positivo in ogni batosta che si è presa. Il che la rende perfetta per la musica country, da sempre popolata di eroi tragici e sfortunati che riescono a trarre il meglio dalle loro difficoltà. Ma che ci fa una 35enne nera di Bristol, Regno Unito, nel profondo sud degli Stati Uniti, a cantare il genere più bianco che esista? Festeggia la sua rinascita, innanzitutto. Il suo album di debutto, Walk Through Fire, è il lieto fine arrivato dopo una lunghissima serie di peripezie, e carriere musicali parallele: da quella di corista (per i Massive Attack e i Chemical Brothers, tra gli altri) a quella di cantante della band Phantom Limb, passando per brevi parentesi soliste.

In questo caso, strano a dirsi, la fata turchina è rappresentata da Dan Auerbach dei Black Keys, che l’ha sentita per caso in uno showcase a Nashville e ha voluto a tutti i costi produrle un disco con la sua etichetta Easy Eye Sound. Al momento sta girando il mondo per promuoverlo, è per la prima volta in Italia da protagonista – ci tornerà anche il 22 novembre, per un concerto in Santeria a Milano – e quasi non ci crede, di essere nella sala riunioni di un lussuoso albergo per parlare della sua musica. Soprattutto perché, da bambina, i suoi genitori le avevano addirittura proibito di occuparsene.

Com’è stato crescere in un ambiente che cercava di tarparti le ali, musicalmente parlando?
Quando avevo quattro anni, andai da mia mamma e le dissi che entro un anno volevo diventare una cantante come Michael Jackson, che aveva cominciato a fare musica a cinque anni. Mi spiegò che non tutti diventavano musicisti a quell’età, anzi, che Michael era praticamente l’unico, e mi invitò a prendere un po’ più di tempo prima di decidere. Così tornai da lei un po’ più tardi, a sette anni, ripetendole la stessa cosa. E poi a dodici, tredici, quattordici… A quel punto, arrivata alle superiori, mi vietò del tutto di fare musica – non di ascoltarla, però; a casa c’era sempre qualche disco che suonava in sottofondo – perché aveva capito che non era una fase. Per lei, a quell’età era già ora di mettere la testa sulle spalle e cominciare a pensare a un lavoro serio, con cui portare il pane a tavola.

Come mai?
Faceva parte della cosiddetta Windrush Generation: era arrivata da Barbados in Inghilterra negli anni ’50, perché le era stata promessa una vita migliore qui. “Lasciate i Caraibi! A chi mai potrebbe piacere vivere lì? Molto meglio la pioggia!”. (Ride) I cittadini di Barbados avevano passaporto britannico ed erano sudditi della regina, perciò in teoria sarebbe dovuto essere come trasferirsi da, che so, Londra a Manchester, ma ovviamente non andò così. Venne molto discriminata, perse tutto ciò che aveva e crebbe con la convinzione che l’ambiente intorno a lei fosse ostile e pericoloso, per quelli come noi. Non credeva che i miei sogni potessero realizzarsi. Da una parte, però, quando si accorse di quanto costava mantenermi all’università, fu molto felice di vedermi abbandonare gli studi per fare la corista!

Ecco, a proposito: leggenda vuole che nel tuo primo periodo a Londra, quando cercavi di trovare un ingaggio, tu sia stata una senzatetto…
Non molto a lungo, per fortuna: non ho avuto letteralmente un tetto sulla testa solo per un paio di settimane. Successe agli inizi, per via di una serie di coincidenze sfortunate. Vivevo in un appartamento con due coinquilini, che all’improvviso si trasferirono altrove, lasciando solo me a pagare affitto e bollette. Erano spese stratosferiche per una ventenne che si arrabattava con mille lavoretti, così mi sfrattarono. E all’improvviso scoprii che né alla mia famiglia né ai miei amici fregava un cazzo di me, perché nessuno fu disposto ad aiutarmi e ad accogliermi. Ero sola al mondo, ma non lo sapevo.

Davvero? Nessuno ti aiutò?
Nessuno. Pensavo di essere circondata da gente un po’ bizzarra ed eccentrica, come me, ma in realtà erano solo dei sociopatici, probabilmente. Trovarono tutti le scuse più assurde per non ospitarmi, compresa mia madre. Avevo solo bisogno di un po’ di tempo per rimettermi in piedi, non chiedevo altro, ma evidentemente era comunque troppo, per quelle persone. Così presi un borsone da palestra, il più grande che trovai, e lo trasformai in casa mia. Scavai una buca sotto un cespuglio, in un parco, e ci misi dentro la borsa: ogni notte mi ci infilavo dentro e chiudevo la zip. Se nessuno mi poteva vedere, pensavo, nessuno mi avrebbe aggredito. E andai avanti così per una quindicina di giorni.

Ne parli con una tranquillità allucinante, ma due settimane a dormire dentro una borsa devono esserti sembrate un’eternità…
Certo, fu orrendo, soprattutto per una ragazza di quell’età. Per fortuna, dopo un po’ finalmente un amico si convinse a prendermi in casa. Dopo un’esperienza del genere, la gente normale ha un’illuminazione, fa dei cambiamenti nella sua vita, si libera delle persone tossiche. Ma io ero una ventenne stupida. E quindi, indovina un po’?

Non l’hai fatto?
Bingo! (ride) Sai com’è a vent’anni, no? Sei una cogliona e vuoi continuare ad esserlo. In qualche modo, pensavo di meritarmi tutte le sfighe e le difficoltà che mi arrivavano addosso. Arrivai a capire che dovevo fare qualcosa solo a ventinove anni, perché ero nel panico: stavo per compierne trenta e la mia vita andava di merda da almeno dieci. All’improvviso mi chiesi “Che cazzo sto facendo?” e realizzai che dovevo rimettere insieme i pezzi.

Il che ti ha portato a Nashville, tra le altre cose. Come ci sei finita, dall’altra parte dell’Atlantico a fare musica country?
La prima volta ci capitai per uno showcase festival, insieme a un gruppo di altri artisti inglesi, e mi resi conto che Nashville è davvero vicinissima a Memphis, in tutti i sensi: la musica proveniente da Memphis la conoscevo bene, soprattutto il soul della Stax, mentre il country di Nashville lo scoprii solo sul posto, e mi resi conto che hanno tantissimi punti in comune. C’è una specie di conversazione che le due città, e i due generi musicali, portano avanti da sempre. Capii che volevo diventare parte di quella conversazione, mescolare quelle influenze per creare qualcosa di nuovo.

In Italia il country non è molto apprezzato: chi non lo conosce se lo immagina come un genere per bifolchi e razzisti bianchi…
Penso che, una volta che capisci da dove arriva e come ci è arrivato, riesci anche ad apprezzarlo davvero. Devi solo trovare (metaforicamente parlando) la tua droga da principiante, quella che ti introduce alle droghe pesanti. Per me sono stati il country blues, il country gospel, il country soul. Magari esiste anche un country che deriva dalla musica latina o da quella melodica italiana, chissà.

YOLA CARTER


Cos’hai pensato, quando ti hanno detto che Dan Auerbach voleva conoscerti per registrare un album con te?
È stato surreale, anche perché avevo appena comprato il suo album solista e stavo giusto pensando che avrei voluto intraprendere una direzione simile, musicalmente parlando! (ride) Per fare il disco che avevo in mente era davvero necessario avere al fianco una persona eclettica come lui. Abbiamo scritto le canzoni in una session quasi ininterrotta di cinque giorni: appena ne finivamo una, ci guardavamo e ci dicevamo “Che ne dici se ne scriviamo subito un’altra?”. Pura magia, non mi era mai successo prima. Anzi, con la mia precedente band avevo capito che qualcosa non andava proprio perché facevamo fatica a comporre musica nuova, dovevamo sforzarci per trovare delle buone idee. Stavolta, invece, era tutto naturale e spontaneo.

La title track, Walk Through Fire, è ispirata a un’altra tua incredibile esperienza di vita…
Diciamo che è una metafora sull’ambiente in cui sono cresciuta, non proprio incoraggiante. Anni fa mi è capitato di trovarmi ad affrontare un incendio domestico, e ovviamente la prima sensazione è stata di panico. In quella situazione ti blocchi del tutto, non riesci a reagire, il tuo corpo non risponde ai comandi. Ricordo che in quel momento, per scuotermi, cercai di pensare a qualcosa che fosse peggiore del fuoco che si avvicinava, e all’improvviso mi venne in mente la mia infanzia. “Se sei sopravvissuta a tutte le difficoltà che hai vissuto, sopravviverai anche a questa”, mi dissi. E all’improvviso reagii: riuscii a spegnere le fiamme che avevano già iniziato a bruciacchiarmi i vestiti, uscii, presi un estintore e affrontai il fuoco. Fu una rivelazione.

Dopo tutte queste (dis)avventure, hai finalmente trovato un posto che puoi chiamare “casa”?
Casa mia è sempre stata Bristol: a parte un breve periodo a Londra, ho sempre vissuto lì, come buona parte della mia band e molti dei miei amici. Tante altre persone care sono a Nashville, però, e da ora in avanti vivrò lì per metà dell’anno, perciò si può dire che ora abbia due case. Entrambe le città hanno vibrazioni molto country: spero che mi porterà bene.

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