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Xavier Rudd, dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare

Abbiamo intervistato lo spirito libero prima del concerto milanese con i suoi The United Nations il 9 luglio

Secondo i puristi del movimento hippie con Woodstock è finito tutto, e quello che prima era solo musica e libera espressione è diventato commercio. L’arte è passata in secondo piano, il musicbiz ha trasformato dei ragazzi talentuosi a cui importava solo di suonare in vere e proprie macchine da soldi: il commercio ha creato la figura della rockstar.

Guardando il soundcheck di Xavier Rudd abbiamo però l’impressione che il mercato della musica non ce l’abbia fatta fino in fondo, e che essere in cima alle classifiche non significhi automaticamente essere iper costruiti. Anzi. Quello che vediamo davanti a noi è un biondissimo ragazzone australiano un po’ fricchettone, t-shirt e costume da bagno, capelli lunghi raccolti in una crocchia.

Finito il soundcheck cammina scalzo fino al backstage, dove, ignorando completamente le sedie, dice: «aspettate, cerco un cuscino. Sono caduto in skate l’altro giorno e mi fa un po’ male sedermi per terra senza cuscini».

Nel tragitto palco-backstage ti hanno già fermato in tre per chiederti una foto: ti diverte la vita da star o uno come te la trova stressante?
Bah.. Non mi lamento! Anche se vengo da un paesino sul mare, lì è tutto molto tranquillo. Quando non sono in tour mi piace vivere come una qualsiasi persona normale che abita sulla spiaggia: faccio surf e mi rilasso. Non amo particolarmente circondarmi di persone. Non mi piacciono molte persone in generale.

La musica della tua terra e le tue origini sembrano essere molto importanti per te: la tua musica parte da lì o è stato qualcos’altro a farti decidere cosa volevi fare da grande?
Per come la vedo io riguarda in ogni caso le mie origini: scrivo canzoni da quando sono piccolo, anche questo fa parte delle mie origini. Da bambino non sapevo neanche di scrivere canzoni, semplicemente inventavo delle melodie sulle quali cantavo le cose che mi succedevano. Era un processo totalmente inconsapevole. Ed è in un certo senso quello che faccio ancora adesso: metto in musica le cose che vivo, né più né meno. Scrivere canzoni è parte di me, è essenziale. come respirare. Ma è anche una cosa molto personale. Sono stati poi i miei amici ad incoraggiarmi, a dirmi sempre più spesso “dai, cantaci qualcosa!””. È lì che ho cominciato a prenderla seriamente e ad esercitarmi sempre di più.

Non solo la musica della tua terra ma la roots music in generale, a giudicare dalla band multietnica che hai messo insieme. Come vi siete trovati?
È stato un esperimento interessante, qualcosa che volevo fare da sempre. La mia musica suona sempre diversa, cambia molto da un album al successivo. Ho sempre voluto fare un disco reggae, ma non si può dire che mi ci sia impegnato: quando è stata ora mi sono semplicemente apparse le persone giuste, e la cosa è diventata reale. Non programmo molto le cose in generale, ed è così anche per la musica: mi piace pensare che sia lei a dare forma a sé stessa e guidarmi, non viceversa. Il prossimo disco suonerà sicuramente molto diverso.

Quindi non hai ancora idea di come sarà il prossimo disco?
Un’idea ce l’ho, ma non mi piace pensarci troppo: aspetterò come al solito che sia il suono giusto a venire da me. Sicuramente però mi piacerebbe metterci un po’ di elettronica.

Elettronica tipo?
Tipo i Sacred Spirit. Ma non voglio fare un disco di elettronica, semplicemente aggiungere qualche elemento… Boh, vedremo!

A volte si ha l’impressione che molti dei temi a te cari diventino popolari più per moda che per convinzione, come succede con i tatuaggi tribali o il vegetarianismo. Ti fa mai arrabbiare?
A me non interessa cosa fa la gente, non giudico nessuno: che ognuno faccia a modo suo, ascolti la musica che preferisce, mangi quello che vuole. Mi interessa la salute mia e quella della mia famiglia, per il resto non mi esprimo. Poi la diversità è un po’ ciò che rende il mondo un posto interessante..

Ho visto che la maggior parte dei tuoi lavori è in streaming gratuito sui tuoi canali YouTube e Soundclound: mi sembra una scelta molto coerente con il tuo approccio alla vita
È stata una scelta del mio management in realtà, ma ne sono molto contento. Negli USA ad esempio sono diventato famoso grazie ai video dei concerti fatti dai miei fan: da quei video non abbiamo visto un soldo, ma sono serviti per allargare il nostro pubblico… In linea di massima però non penso a queste cose, non mi importa dei soldi. Sono un artista: mi interessa solo esprimermi, e sono contento se la mia musica riesce a raggiungere un pubblico sempre più grande. Del resto non mi importa.

Una scelta coraggiosa che ti ha ampiamente ripagato, vedendo dove sei arrivato
Decisamente! Il beneficio all’arte è sicuramente una delle cose migliori che possiamo trarre dalla tecnologia. Poi io mi appassiono a qualsiasi cosa: arti visive, multimediali, illustrazioni… Anche in campo musicale sono così, potresti vedermi tranquillamente a un concerto punk, o a uno di musica classica.

Quindi hai un po’ di influenze inaspettate. Cosa ascolti in questo periodo?
Ahhh, difficilissimo. I Sacred Spirit, tutta la discografia.

Poi?
Hmmm, ascolto molto i Tools. Natalie Merchant anche, ho tutti i suoi dischi. Poi un po’ di roba vecchia, tipo Neil Young, Hendrix o i Doors. E vado a un sacco di concerti di band locali, anche se vivo in una piccola città trovo sempre tanta buona musica in giro. Soprattutto roba etnica o sperimentale… Ascoltati gli Oka per farti un’idea di cosa gira in Australia a livello locale. È l’altro progetto del mio batterista, a me fanno impazzire!

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