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Wayne Coyne: «La volta in cui ho fatto felice Axl Rose»

Fra pochi giorni i Flaming Lips suoneranno in Italia. Abbiamo chiesto al cantante di raccontarci un po’ di cose: la musica come antidoto «al caos e al dolore del mondo», l’importanza di non farsi «fregare dall’amarezza», la ristampa di 'Yoshimi'... e i Guns N’ Roses

Foto: Blake Studdard

Sembra un luogo comune, ma intervistare Wayne Coyne è un’esperienza davvero psichedelica. È la persona più gioviale, simpatica e disponibile del mondo, ma vive in un mondo tutto suo. Dopo aver rimandato un paio di volte la chiacchierata per motivi imperscrutabili («scusami, in questo momento sto guidando in Texas, è un casino!»), riusciamo finalmente a stabilire un contatto via Zoom. Wayne è spiaggiato su un letto nella camera d’albergo con la famiglia (moglie e primogenito di tre anni), durante un giorno off nell’agenda dei concerti dei Flaming Lips. La band si appresta a imbarcarsi per l’Europa, e suonerà in Italia il 2 agosto a Villa Torlonia (San Mauro Pascoli, all’interno del festival Acieloaperto). «Wow, l’Italia! Grande Paese, mi ci sono sempre trovato benissimo, una volta non ricordo dove ci siamo anche fatti tutti un tatuaggio, il nostro Italian tattoo!».

La conversazione parte da qui, e procede spedita con Coyne che si interrompe giusto ogni tanto per decidere insieme al figlioletto (e all’intervistatore) il nome da dare al suo T Rex di gomma.

A parte i concerti in giro per il mondo, cosa bolle nel pentolone Flaming Lips nel 2022? Idee, progetti, follie?
Non stiamo mai con le mani in mano, questo è certo. Ci sono sempre un sacco di cose da fare, e tante altre che per ora sono solo spunti per eventuali progetti che magari non si realizzeranno mai. Oltre ai tour, quest’anno siamo impegnati soprattutto con il ventennale di Yoshimi Battles the Pink Robots. C’è un box set da sette CD in uscita a cui stare dietro, e ti assicuro che è un bel casino (ride). Inoltre stiamo seguendo la finalizzazione di un documentario sul concerto che abbiamo fatto a Oklahoma City durante la pandemia, con il pubblico nelle bolle. Di dischi per quest’anno e forse anche per l’inizio del prossimo non se ne parla: è inusuale, come intervallo di tempo tra un album e l’altro dei Flaming Lips, ma in questo momento va così. Ho uno studio casalingo, butto giù in continuazione idee e scheletri di canzone, ma per ora di un nuovo lavoro non se ne parla.

Volevo appunto introdurre il discorso sui vent’anni di Yoshimi, ma ci hai già pensato tu. Come ti rapporti oggi a quel disco, ma soprattutto: Yoshimi alla fine li ha sconfitti, i robot rosa?
Ah ah, spero di sì! Io sono sempre per gli happy ending. Comunque, amo ancora molto quell’album, così come The Soft Bulletin. Per tanta gente sono i due dischi che incarnano l’idea Flaming Lips, e mi sta bene. Quelle canzoni le suoniamo sempre ancora oggi, sono rimaste con noi. E come potrebbe essere diversamente? Di quel periodo ricordo soprattutto il fermento creativo che sentivamo. Il big sound un po’ cinematografico di Bulletin e Yoshimi era figlio di quello che ascoltavamo all’epoca. Cose tipo Timbaland, per dire. Cioè, non che suonino allo stesso modo, è ovvio. Più una specie di “Timbaland battles The Flaming Lips” (ride). Ci sentivamo avventurosi, spinti in avanti. Chi poteva immaginare che Do You Realize? diventasse quello che è diventata? (Tra le altre cose, canzone ufficiale dello Stato dell’Oklahoma, nda) È più popolare adesso di allora, è il pezzo che ci definisce come band, ma quando l’ho scritta era solo una canzone come le altre, un pezzo che parlava della mortalità, del distacco dalle persone che vengono a mancare. Nessuno qui sta diventando più giovane, questo è sicuro, ma le band sono come una famiglia. E quel disco fa sicuramente parte dei ricordi famigliari felici.

A tal proposito: alla fine del 2021 Michael Ivins, nei Lips fin dall’inizio, ha lasciato definitivamente la band. Come ci si sente a essere rimasto l’unico membro originale dopo quasi quarant’anni?
Oh, nessun problema, non ci ho pensato in questi termini. Anche perché Steven (Drozd, nda) è nel gruppo dal ’90 o dal ’91, quindi ormai è come se ci fosse da sempre. E comunque Michael ha solo dato ufficialità a una situazione che si trascinava da tanti anni, forse addirittura dai ’90. Il suo contributo era sempre meno importante, molte parti di basso nei nostri dischi sono suonate da Steven o da me. La pandemia ha fatto il resto, per cui a un certo punto, molto onestamente, ci ha detto «ragazzi, ormai sono troppo vecchio per fare queste cose». Tipo suonare dentro una bolla. No bad feelings, ma in definitiva è meglio così sia per lui che per noi.

L’ultimo vostro disco, se si eccettua la singolare collaborazione con la giovanissima fan Nell Smith con la quale rifate pezzi di Nick Cave, è American Head. Personalmente credo che sia uno degli album più dolci e malinconici che abbiate mai fatto. La mia impressione è che i temi centrali di molte canzoni siano l’America, come idea mai realizzata davvero, e la gioventù vista dallo specchietto retrovisore.
Devi sapere che il titolo originariamente avrebbe dovuto essere American Dead. Poi lo abbiamo cambiato anche perché dopo il Covid e tutto quanto non ci sembrava il caso. Ma i temi alla base del disco sono più o meno quelli che hai detto. Più che sull’America, forse, è sull’essere una band americana. Cosa che spesso abbiamo cercato di nascondere, in qualche modo. Ma veniamo anche noi da lì, da quell’eredità culturale. Come persone sia io che Steven, che ha una decina d’anni meno di me, ma ha vissuto più o meno le stesse esperienze, siamo cresciuti e ci siamo formati negli anni tra la fine dei ’60 e l’inizio degli ’80, e quella è una cosa che non puoi non portarti dietro. Ovviamente tutto si è mescolato con le memorie famigliari, spesso dolorose. Prima della pandemia io e lui facevamo un podcast in cui raccontavamo come sono nate le nostre canzoni. Cosa ci ha influenzati, cosa davvero volevamo dire in quel momento, e così via. Questo ci ha portato a confrontarci e a parlare molto dei nostri passati. In questo modo abbiamo trovato una chiave per sviluppare l’album. Un mio fratello è morto di overdose, l’intera famiglia di Steven è stata praticamente spazzata via da tragedie di vario tipo: droga, pazzia, criminalità. Roba pesante. Ma in qualche modo parlarne tra noi ci ha liberati dal peso di quei ricordi. Come se a un certo punto ci fossimo detti «ok, siamo abbastanza vecchi per staccarci da quello che eravamo da giovani» e farne argomento di canzoni. Sono tutti pezzi che parlano di personaggi pazzi, spaventati, borderline. Temo di aver messo in imbarazzo i miei fratelli e sorelle (ride). Mia madre è morta da quasi vent’anni, anche per questo sono riuscito a scrivere una canzone come Mother I’ve Taken LSD senza sentirmi in colpa.

Foto: Alexa Ace

Stiamo vivendo tempi difficili. Anche i Flaming Lips possono essere di conforto, ma ho sempre avuto la sensazione che la vostra musica più che riflettere la realtà sia sempre stata un modo per fuggire da quella realtà. E non lo intendo certo come una critica.
In parte è così. Le nostre canzoni si dividono in due categorie, se vuoi semplificare: le freak songs e le emotional songs. Quelle che ci sono riuscite meglio sono quelle che hanno centrato un nocciolo di universalità, risultando empatiche, umane, in qualche modo utili al benessere di chi ascolta. Non è questione di essere consolatori e neanche escapisti. Non riuscirei mai a scrivere della crisi climatica o di Trump o della guerra in Ucraina. Tutto può rientrare in una canzone, ma non deve essere dichiarato se no diventa predicatorio. Quello che conta è la musica. Più di ogni altra forma d’arte, la musica manda dei messaggi al tuo quartier generale emotivo, può aiutarti a fronteggiare il caos e il dolore del mondo. Nel nostro piccolo, è l’obiettivo che ci prefiggiamo da sempre.

A cosa pensi quando sei dentro la bolla durante i concerti? Soprattutto: cosa pensavi vedendo anche il pubblico in quella condizione?
Ormai penso solo a non dimenticarmi i testi delle canzoni! A parte le battute, quel concerto durante la pandemia con noi e gli spettatori dentro le bolle è stata una botta emotiva incredibile, e un progetto che ci ha letteralmente consumati. Durante il lockdown ero davvero frustrato, mi chiedevo come da artista potessi andare incontro alle persone che provavano le stesse sensazioni. Impazzivo a non fare nulla, trovare una soluzione era un obbligo creativo. Non hai idea di quanto sia stato complicato. Non è stata una cosa improvvisata lì per lì. Abbiamo fatto settimane di prove, ed era folle. Fol-le! Per ogni problema che pensavi di aver risolto ne spuntava un altro. Dove mettiamo i bagni? Dove sta l’area medica? Se succede questo o quest’altro, che tempi di reazione ci saranno? Da impazzire. Ma alla fine è andato tutto bene, e ne siamo orgogliosi. Abbiamo provato a regalare qualcosa alla gente in tempi in cui sembrava impossibile, e lo abbiamo fatto alla nostra maniera.

Negli ultimi tre anni ti sei risposato e hai fatto tre figli. Perdona la domanda banale, ma quanto incide in questa fase della tua vita e della tua carriera musicale?
Mi sento sempre in evoluzione, ma certo a sessant’anni suonati questo è un cambiamento bello forte. A parte gli aspetti più ovvi, primo tra tutti il fatto che ora andare in tour pesa di più perché ti lasci dietro una famiglia, ci sono abitudini che non puoi più permetterti. Tipo perdere tempo, cosa che nella mia vita ho sempre fatto benissimo. Oppure dire sempre sì a tutto. La vita è uno stress in sé, ma oggi non ho davvero più voglia di stressarmi inutilmente. Vedi, è che improvvisamente tutto si satura di significato. Parli con un bambino di tre anni e scopri un linguaggio fantastico, super-creativo. Hey kid (chiama il figlio, nda). Ti ritrovi ad ascoltare con molta più attenzione, il che se ci pensi per un musicista è fondamentale. E poi è un motivo in più, il più importante, per mantenersi in salute, per cercare di essere felici e non farti fregare dall’amarezza, che è quello che capita quando si invecchia.

In chiusura, mi racconteresti l’episodio più divertente che ti è capitato in tutti questi anni con i Flaming Lips?
Oh, gosh…..Fammi pensare. Vorrei evitare quelle cose egotistiche da rockstar. Che poi neppure lo sono, una rockstar. Ah ok, ti racconto questa. Mi fa ancora ridere dopo tutto questo tempo. Nel 2002 vincemmo un Grammy per Yoshimi, anzi per il brano Approaching Pavonis Mons By Balloon (Utopia Planitia). Se già era surreale che noi partecipassimo a un Grammy, figurati farlo con un pezzo chiamato in quel modo. Tra gli altri concorrenti al premio c’era Slash dei Guns N’ Roses. L’immagine perfetta della rockstar, con il cilindro, gli occhiali da sole, la sigaretta e tutto il resto. Probabilmente era convinto di vincere. Quando ci diedero il premio se ne andò via incazzatissimo. Dieci anni dopo, fummo invitati da Neil Young a un concerto di beneficenza della sua Bridge Foundation. Tra i partecipanti c’erano pure i Guns N’ Roses, ma senza Slash. Era il periodo in cui litigavano. Axl Rose prima e durante il concerto era assolutamente scazzato, sembrava capitato lì per caso. Non gli andava bene niente, si lamentava di tutto, ecc. Alla fine andammo tutti sul palco per i bis, e io mi ritrovai abbracciato da un lato a Neil Young e dall’altro a Axl Rose. Ricordo lo sguardo un po’ schifato e un po’ incuriosito di chi si chiede «ma questo chi cazzo è?». Tornando nel backstage, improvvisamente ha l’illuminazione e mi fa «ehi, ma voi siete quelli che hanno fregato il Grammy a Slash qualche anno fa!». E comincia a ridere come un bambino. Forse in quel periodo andava su Google a cercare «cose che hanno rovinato la vita a Slash», non lo so. Comunque lo vidi andare via contento, ci ha anche salutato. Insomma, avevamo reso felice per un giorno Axl Rose, non è una bella cosa?

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