Rolling Stone Italia

Warren Ellis su Nick Cave: «C’è sempre un elemento di caos quando siamo in studio»

Il polistrumentista dei Bad Seeds riflette su come lui e Cave lavorano assieme, un processo documentato nel film 'This Much I Know to Be True'. Il prossimo disco? «Avrà un sound molto diverso»

Foto: Charlie Gray

Warren Ellis non sapeva cosa fare quando il Covid ha bloccato il mondo. Sperava d’andare in tour con i Bad Seeds, il gruppo di Nick Cave di cui fa parte dalla fine degli anni ’90, ma all’inizio del 2020 s’ è trovato all’improvviso ad avere un sacco di tempo libero.

«Fortunatamente ero nella posizione di poter fare cose che non avevo mai tentato prima», spiega via Zoom da Bruxelles, dove i Bad Seeds hanno fatto tappa per il tour in corso. «Ho capito che non c’era modo di controllare la situazione e dovevo trovare la maniera di creare, in quel lasso di tempo». Ellis ha quindi prodotto un disco di poesie per Marianne Faithfull, ha scritto un libro su Nina Simone, ha curato la ristampa dell’album Ocean Songs dei suoi Dirty Three, ha aperto un’oasi/santuario per animali a Sumatra e ha inciso Carnage con Nick Cave.

Si è anche trovato di fronte alla telecamera di Andrew Dominik che ha ripreso il processo creativo di Cave ed Ellis e le performance di alcune canzoni di Carnage e Ghosteen per This Much I Know to Be True, sequel ideale di One More Time with Feeling del 2016, il documentario di Dominik sul making di Skeleton Tree dei Bad Seeds. Se quest’ultimo era uno sguardo personale sul dolore di Cave dopo la morte del figlio Arthur, This Much I Know to Be True ha a che fare con la reazione dell’artista a quello che Ellis definisce «trauma globale»: il Covid.

Dominik, che ha commissionato a Cave ed Ellis le colonne sonore di molti suoi film (incluso l’imminente Blonde, su Marilyn Monroe), ha deciso di mostrare lo staff al lavoro con le mascherine sul set di This Much I Know to Be True.

«Nick e Warren sono allo stesso tempo uguali e diversi», spiega Dominik via e-mail. «Si confrontano con l’ignoto in modo spavaldo, sia nella vita che a livello creativo, hanno una gran voglia di mettersi in situazioni in cui sono vulnerabili, ma anche tanta fiducia in quello che può emergere da queste esperienze».

«La cosa più affascinante di loro due è la velocità con cui lavorano, nonostante spesso arrivino a un punto in cui non sono in grado di dire se ciò che stanno facendo sia buono o meno», continua Dominik. «E il modo in cui vanno avanti, anche in quell’incertezza: si muovono in uno spazio esiguo che a loro piace, ma che va definito con grande cura. Basta un sopracciglio alzato nel momento sbagliato per distruggere qualcosa ancor prima che sia nata».

E poi: «È anche molto interessante come il loro rapporto personale si insinui nella musica. Per Blonde hanno composto un pezzo con Warren che canta in un vocoder e Nick che suona una parte stridente al piano… ho detto a Nick che era tutto molto bizzarro e lui mi ha risposto: “Stavo suonando così solo per cercare di attirare la sua attenzione. Giocava da ore con quel cazzo di affare”».

Anche Ellis apprezza lo humour del film. «Bello che This Much I Know to Be True mostri il modo in cui Nick e io lavoriamo», dice. «Ci sono cose, in realtà, che neppure io sapevo perché non ne avevamo mai parlato. È divertente guardarlo».

Cosa hai imparato, su di te, da This Much I Know to Be True?
Andrew sicuramente si è preso alcune libertà e ha scelto di cucire tutti assieme i miei momenti più caotici e mostrarmi così. A ogni modo, sapevo che Nick è molto “inquadrato”, ma non avevo mai messo a fuoco come funzioniamo insieme. Non me n’ero mai accorto, ma c’è un elemento di caos quando andiamo in studio e cerchiamo di raccogliere le idee. Le differenze fra noi si vedono già dall’aspetto: Nick si tiene molto meglio di me, fa la manicure. Lo sapevo, ma vederlo così chiaramente è stato buffo e contraddittorio. L’ho trovato divertente.

A un certo punto del film, Nick dice: «Warren è sempre in modalità di trasmissione, mai in ricezione». Intende dire che tu crei continuamente. Cosa hai pensato, quando l’hai sentito?
Nick ed io ne abbiamo parlato qualche tempo fa. Non so perché, ma mi ha detto che gli pare che il mio rapporto con la musica sia simile al suo con le parole. Ci si butta, cerca di trovare un’ispirazione e si immerge nel lavoro. Lui pensa che anche io faccia così: mi ci immergo. Può essere che le cose che abbiamo fatto assieme funzionino perché abbiamo un approccio simile, anche se per elementi differenti.

Un altro momento divertente nel film è quando Nick dice: «Basta con le basi soft». Voleva che tu non suonassi più quei tappeti delicati di synth che avevano definito il sound di Ghosteen e Carnage. Come avevi avuto l’intuizione per quelle sonorità, in primis?
Ho iniziato a interessarmi ai synth quando abbiamo composto la colonna sonora per il documentario West of Memphis. Da quel momento li ho poi utilizzati in Push the Sky Away e Skeleton Tree. Quando ho cominciato a suonarli ho notato che mi consentivano di entrare nel processo creativo in modo molto diverso rispetto al violino o al piano. Mi permettevano di lavorare più sugli accordi e le melodie. Ghosteen è stato scritto principalmente con un synth economico, una tastierina da 300 dollari con cui ho trovato un suono.

Nel periodo di Ghosteen, per giorni e giorni me ne sono stato lì seduto con quel synth. Suonavo degli specie di mantra, ripetendoli di continuo: ed è così che sono nati pezzi come Ghosteen o Hollywood, brani lunghi, dilatati, ma realizzati in una sola take. Ci siamo messi a suonarli, con Nick al piano, e poi abbiamo provato a cantare. Sono diventati delle specie di meditazioni, delle preghiere, o qualcosa di simile, e il merito è dei sintetizzatori che, in qualche modo, ti spalancano le porte di questo mondo. Penso però che il prossimo disco che faremo avrà un sound molto diverso.

Il film mostra molto bene le dinamiche fra voi.
Sì e credo che sia interessante anche a livello visivo. È il tentativo di Andrew di elevare la performance filmata a un altro livello. Quello che vediamo è molto più teatrale rispetto alla classica performance statica. La telecamera è sempre in movimento. Andrew era come impazzito mentre filmava, perché doveva completare una cosa enorme in tempi ristrettissimi. Un po’ come facciamo noi, ha dovuto tuffarsi in questa cosa gigantesca. Guardarlo al lavoro era assieme terrificante e meraviglioso. Era concentratissimo. E tutto era ancor più intensificato dal fatto che avevamo solo sei giorni di tempo e un gran numero di canzoni da fare. Alcuni brani, quattro o cinque, non sono stati inclusi nella versione finale.

Ho apprezzato le scene in cui ti lasci andare e canti i cori in falsetto. Ti è venuto naturale?
Avevo già cantato un po’ di cori anche nei dischi precedenti, anche coi Grinderman. Però per Ghosteen è successo che eravamo in uno studio di Malibu e io stavo cercando di venire a capo di un pezzo con gli archi. Ho detto al tecnico del suono: «Puoi continuare a registrare? Voglio buttare giù un’idea». Poi Nick è andato in studio e mi ha chiamato: «Faresti meglio a venire ad ascoltare». L’ho raggiunto e gli ho chiesto: «Fa così schifo?». E lui: «No, fa tutt’altro che schifo». Abbiamo sentito la registrazione: era Leviathan. Lui ha detto: «Credo che faremo più roba del genere». È stata una specie di scoperta fatta in studio, quindi, vedere che potevo stratificare il materiale. Anche per Bright Horses stavo solo cantando una frase mentre provavamo delle cose e Nick mi fa: «Devi cantare quella roba». E io: «Ma stavo solo cazzeggiando». Al che mi ha risposto: «Sì, ma devi metterla dentro». Ha deciso lui. E se mi viene data un’opportunità, io la colgo.

In quel modo ci hai regalato anche alcuni dei momenti migliori del tour di Carnage che tu e Nick avete fatto quest’anno.
Per me cantare significa prendere un rischio, devo buttarmi. E il tour di Carnage è stato tutto così, perché ci affidavamo a un format piuttosto minimale, che ci esponeva. Eravamo molto vulnerabili. È stata la cosa che ci ha tenuto ben all’erta ogni sera: è stato eccitante e spaventoso, ma alla fine è stata una grande soddisfazione. Credo che il pubblico abbia percepito che stavamo toccando un nuovo livello.

Una delle parti più sorprendenti del film è quando arriva Marianne Faithfull e tu campioni la su voce che legge una poesia, in loop, per l’intro di Galleon Ship. Come è nata l’idea?
Avevo fatto dei loop con il mio iPhone quando stavo provando delle cose per Ghosteen. Una di quelle idee è sembrata buona per Galleon Ship, per cui in studio l’abbiamo ricreata. Sono riuscito a far venire lì Marianne e, come potete vedere, non era in buone condizioni di salute per via del Covid, ma era incredibilmente battagliera. E così è nato quel momento straordinario. È stato fantastico quello che ha fatto ed è un momento fortissimo nel film. Si vede una persona che è stata devastata dal Covid, con una maschera per l’ossigeno, ma ancora totalmente ribelle e incredibilmente fedele a se stessa.

La pellicola documenta ciò che hai fatto durante il lockdown, per cui il tour di Carnage con Nick di quest’anno e quello dei Bad Seeds rappresentano un bell’epilogo al film, ma nella vita reale.
Sì, il film parla di un periodo che a me sembra già lontano. È interessante guardarlo e pensare: «Wow, è vero, le cose erano così». Avevo capito che stavamo attraversando un periodo estremo, ma è solo ora che guardandomi indietro penso: «Ma non volavano aerei?». Sapevo che stava accadendo, ma è solo guardandoci indietro dopo essere tornati alla normalità che capiamo davvero che cosa succedeva. Quando sono andato a New York ho pensato: «Wow, New York è deserta». Ma solo vedendo che il mondo ricominciava a muoversi e a ripartire ho capito che momento eccezionale è stato. Lo stiamo ancora metabolizzando.

Tradotto da Rolling Stone US.

Iscriviti