Vinicio Capossela: «I politici che agitano la croce in nome dell’odio tradiscono quel simbolo» | Rolling Stone Italia
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Vinicio Capossela: «I politici che agitano la croce in nome dell’odio tradiscono quel simbolo»

Il ruolo di Dio, gli assassini nascosti dietro una tastiera e la società contemporanea sempre più terrorizzata da chi dovrebbe guidarla. Il cantautore si racconta tra passato, arte e attualità, mettendoci in guardia sul presente in cui stiamo vivendo

Vinicio Capossela: «I politici che agitano la croce in nome dell’odio tradiscono quel simbolo»

Foto di Simone Cecchetti

Una terrazza nel centro di Roma, a due passi da Piazza del Popolo. Ecco dove incontro Vinicio Capossela, uno degli artisti più enigmatici e interessanti che abbiamo in Italia. Uno che, prima di uscire con un nuovo disco, ci pensa bene, lo fa solo quando ha qualcosa da dire. Una stretta di mano e, per stemperare la tensione tra due persone che non si sono mai incontrate, lo informo di averlo visto, qualche anno fa, in una televisione greca, durante una delle mie peregrinazioni. Capossela coglie la palla al balzo e racconta del suo album Rebetiko Gymnastas: «L’avevamo finito di registrare nel 2007, ma quando uscì era il 2012, nel momento in cui non si parlava altro che di Grecia, del debito, di non fare la fine della Grecia. Ci vuole sempre un capro espiatorio: quando ero piccolo erano i meridionali, in quel periodo lì era la Grecia. Poi sono venuti i migranti. Mi sembrava giusto approfondire le radici della crisi, il ruolo dell’Europa e quello di una musica così anarchica come il rebetiko. Tenuta viva da tanti giovani, come una specie di bandiera. Ho scritto anche un taccuino di osservazioni, Tefteri, e ho girato il documentario Indebito con Andrea Segre. Sono stato diverse volte in Grecia e ho sempre adorato quella musica. Adesso più che mai». Sciolto il ghiaccio passiamo alle Ballate per uomini e bestie, che guardano al presente come un nuovo medioevo. Capossela fa lunghe pause, durante tutta l’intervista: sceglie e soppesa bene le parole da usare.

Vinicio, con questo lavoro a cosa hai voluto dare respiro?
A delle vecchie passioni, come la forma della ballata, che mi interessava praticare senza un rigore formale. In alcuni casi sono scritte, comunque, in una metrica e una proporzione giusta. È un modo per mettere al centro del racconto una vicenda. E prendersi del tempo per approfondirla. Secondo me la ballata differisce dalla canzone, innanzitutto, per la durata: non ci si obbliga ad avere un tempo breve con un ritornello più o meno orecchiabile. È più importante la storia.

E poi?
Intorno a questo ci sono tutta una serie di figure che arrivano da un immaginario medievale, come la danza macabra, la peste.

Questo album lo hai presentato come «Un cantico per tutte le creature, per la molteplicità, per la frattura tra le specie e tra uomo e natura». Un po’ mi fa pensare a San Francesco.
Be’, tra uomini e bestie c’è stata una separazione. Il disco inizia proprio dalla scissione dell’uomo dalla sua commistione con la bestia. Il fatto di elaborare una cultura lo rende umano. E il primo gesto che lo rende profondamente e pienamente umano è dipingere su un muro. Cosa? Un animale. Le pitture rupestri hanno come soggetti gli animali. Forse per catturarne la forza o perché ci si specchia negli animali o perché ci si solleva da un pasto comune.

Cioè?
Ci si è mangiati a vicenda e ci si risveglia. C’è, forse, un sonno primordiale che ci accomuna. E come sedimenta quella cosa nell’inconscio. La storia del rapporto con la natura è la storia di una lacerazione, di un limite infranto. È la nostra storia del vivere sulla Terra, in un mondo sempre più antropocentrico. Anche se la creazione è stata condivisa con altre creature.

Ma, tornando a San Francesco, in questo lavoro c’è un po’ di sacralità o no?
C’è molto attinenza, ma dipende cosa si intende per sacro. Ci sono molti malintesi. Uno pensa al sacro e pensa alla messa cattolica, che in realtà di sacro ha perso moltissimo.

Ecco, tu cosa pensi, quando ti accosti al sacro?
Alla ritualità, all’animale. La prima immanenza del sacro. Le prime divinità sono sempre state di forma animale. Il sacro è qualcosa di inaccessibile e l’animale ha, da sempre, espresso un enigma. Un’altra possibilità di leggere e percepire il mondo. Possibilità che, la mia cultura, mi ha precluso. Ed è anche un po’ questa la frattura di cui parlavo.

Proprio in Uro, brano che apre le danze di questo progetto, parli di antropos che solleva il capo dalle ossa fumanti per creare l’uomo. E così compie il primo gesto inutile, perciò divino. La divinità è inutile?
L’inutilità la intendo come affrancamento dal lavoro. Il primo lavoro dell’uomo è stata la sopravvivenza, non la fabbrica né il lavoro organizzato. Questo gesto inutile di dipingere e raffigurare una cosa, è una sottrazione alla mera lotta per la sopravvivenza. Un gesto inutile e perciò divino.

Quindi?
Non voglio dire che Dio è inutile, ma è probabile che sia la sua più intima essenza. L’uomo inizia a codificare e inventare un sistema sempre più complesso di divinità e di ideologie quando scopre il fuoco. E quindi può elaborare, nella digestione, i racconti.

Ecco, cosa mi dici del racconto?
È un’altra cosa inutile, oltre alla pittura. Di quello, però, non c’è traccia e, probabilmente, è nato prima, in relazione a un processo digestivo.

VINICIO CAPOSSELA - IL POVERO CRISTO (video ufficiale)

Nel primo estratto, Il povero Cristo, parli della guerra come padrona della Terra e di una mancanza di unità degli uomini. Non posso che fare un collegamento con l’attualità.
L’unità a cui faccio riferimento in questo brano è la capacità di essere una cosa sola. Noi siamo moltissime cose e, per questo, una delle religioni più evolute era quella greca, il politeismo. Riconosceva la molteplicità e trovava divina ogni singola parte del complesso olimpo che tutti noi siamo: c’era una divinità della discordia, Hermes era la divinità dell’approfittare della situazione, della mano lesta, del mercante.

E le religioni monoteistiche, invece?
Se leggi la Qabbalah è una disciplina dell’unità. Inizia così tutta la faccenda della religione ebraica, da cui discende quella cristiana. Le religioni monoteiste hanno l’ambizione a questa cosa – a mio parere un po’ disumana – di essere una cosa sola. Il mio riferirmi all’unità con “dovrà sempre mentire/a chi gli sta vicino/ perché ci ha dentro il cuore/più stanze di un casino” è perché, col fatto che siamo tante cose, siamo costretti a mentire: non possiamo realmente essere una cosa sola.

Un esempio?
La cosa più banale: la relazione amorosa. Siamo costretti a mentire per dare questa illusorietà di unità. Il povero Cristo è un brano sulla natura dell’uomo, sul fatto che il precetto di amare il prossimo tuo come te stesso, è così difficile da essere inattuabile.

Perché?
Richiede un grande lavoro. È più facile trovarsi un nemico, coalizzarsi contro un nemico, mors tua vita mea. Questo è la parte più facile dell’istinto.

Foto di Marco Zanella



Capisco, ma tornando all’attualità?
Discende da questo discorso sulla natura umana. A livello di comunicazione, di politica – come prefigurava de Boer – è una specie di grande spettacolarizzazione di concetti sempre più scarni, semplificati, che contemplano sempre meno la complessità della realtà delle cose. Si torna a quella semplificazione che porta alla frantumazione, allo scontro. Il termine “politico” è improprio per figurare molti dei protagonisti della scena attuale, che io direi facenti parte del mondo dello spettacolo.

Quindi, in riferimento a quello che stai dicendo, cos’è la politica?
È l’arte di mettere d’accordo, di cercare accordi, di trovare unioni. Il consenso e la notorietà sono concetti vicini al mondo dello spettacolo, concetti che si basano sulla disunione. La storia ci ha mostrato bene delle cose che continua a mostrarci.

Tornando al brano, qual è la caratteristica principale del povero cristo odierno?
L’invisibilità. Come Salvatore, che sta sotto la mia strada, urla tutto il male che il mondo gli ha fatto ed è completamente inascoltato. La gente passa, vede e non vede. C’è un libro che mi ha toccato molto, di un medico che parla dei riconoscimenti dei cadaveri in mare. Come dare un’identità ai morti? È l’apice dell’invisibilità: morire e non sapere chi sei. Perdere la traccia di sé sulla Terra. Non si può prescindere – parlando dei poveri cristi – dai morti del Mediterraneo, da chi vi arriva e come vi arriva. E poi ci sono tutte le persone che non riescono a vivere una vita dignitosa.

Nella ballata La peste c’è una dedica a Tiziana Cantone, ragazza che si è suicidata dopo che video privati sono stati diffusi sul web. Perché ti ha colpito proprio lei?
È una vicenda emblematica. In generale, la rete, non è una cosa negativa in sé. I social non sono una cosa negativa. Sono solo un inedito e potentissimo strumento capillare per qualsiasi cosa. E creano una dipendenza immediata e inconsapevole. Pian piano, forse, bisognerà acquisire un’etica, una normativa per cui risulterà mostruoso pubblicare online immagini di carattere intimo. La cronaca è sempre più ricca del fatto che sembri normale, e forse anche un po’ goliardico, compiere azioni mostruose. Se uno va in un supermercato e si cala i pantaloni, viene arrestato per atti osceni in luogo pubblico. E la rete è un luogo pubblico, ma non c’è ancora una normativa per sbattere dentro chi compie atti osceni. Naturalmente ci sono categorie più esposte.

Tipo?
Le donne, ma non solo. Quello che è abbastanza evidente è la possibilità di distruggere chiunque. La diffamazione è un reato, però quest’anarchia che regna nella rete, come la pubblicazione di intercettazioni, credo sia una cosa oscena. Il caso della Cantone dimostra come si possa arrivare alle estreme conseguenze. Mi colpisce la leggerezza con cui ognuno, commentando dal suo computer, dà la sua coltellata alla vittima. È una cosa molto violenta. Lo hanno fatto con dei sedicenni, c’è gente che si ammazza per questo: non c’è la consapevolezza della pericolosità. È come se tutti fossero su una Ferrari senza avere neanche il brevetto per andare in bicicletta.

La soluzione?
Il web richiede un grado di educazione e di coscienza di sé stessi, uno deve capire come si sta trasformando man mano che diventa dipendente da una cosa che sembra (apparentemente) realizzarti completamente. Non si ha sempre la sensazione di abbruttirsi. Ognuno è responsabile di sé, richiede un’autodisciplina, ma ammette cose meravigliose come il miracolo della comunicazione e della conoscenza. Da piccolo pensavo che il futuro che non avrei mai vissuto sarebbe stato quello in cui la gente si poteva vedere quando si telefonava. Ora, gratis, esiste. Ed è questo ciò su cui bisognerebbe riflettere.

Cioè?
Niente è gratis. E quando qualcosa è gratis, la merce sui tu.

foto di Marco Zanella

Il web sembra essere protagonista anche nelle Nuove tentazioni di Sant’Antonio.
Ma certo. Un pezzo punk medioevale filosovietico, visto che l’ho realizzato con Massimo Zamboni, uno dei fondatori dei CCCP. Semplicemente questa figura è un altro grande topos. Quel meraviglioso trittico di Bosch sulle tentazioni di Sant’Antonio mi ha fatto venire in mente una cosa: nel 1300 il male con cosa seduceva o tentava di sedurre l’eremita? Forse il corpo della donna. C’è un bellissimo momento, nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, in cui il tentatore ha una faccia, con i denti un po’ larghi. Non so dove l’abbia trovato questo non-attore. Le tentazioni erano Il potere – vedi tutto questo sarà tuo –, la fama, la seduzione.

E oggi?
Ho cercato di elencarle: sostituire il desiderio con la pornografia, ma soprattutto fare un vuoto tra la gente e riempirlo di televisioni. Il vuoto pneumatico di qualcosa che è solo immagine.

Come vivi la condizione di artista in un mondo usa e getta?
Fuori dai canali di grande produzione e questo a volte mi spiace, ma non per la mia vanità.

Per cosa?
Ho la presunzione di pensare che l’opera vada sostenuta e fatta conoscere, visto che ci si è lavorato sopra.

Restiamo in tema di tentazioni, ti sei mai fatto tentare?
Finora sono rimasto nel mio deserto, era pieno di visioni, per lo meno. (ride, ndr)

In Danza macabra c’è una frase: Se non hai fede hai torto. È ancora vero?
Prima di questa frase c’è una strofa che dice: Il prete fa la predica, ma non parla del morto. L’ho scritta dopo essere andato al funerale di una persona a cui volevo molto bene. La funzione funebre, invece di essere un estremo commiato alla persona che se n’era andata, veniva inglobata in una ritualità per affermare quel credo. Non era tanto importante la vita che questo individuo aveva trascorso o il ricordo degli altri.

Ah no?
Per la ritualità del funerale, quello che contava era si affermasse, ancora una volta, il principio teologico. In questo senso, se non appartenevi a quella parrocchia c’avevi torto. Risorgi solo se ci credi. E crederci, del resto, è il mistero della fede. Anche se, Danza macabra, lo ritengo un pezzo essenzialmente politico.

Come mai?
Il macabro nasce proprio per terrorizzare l’uomo, i fedeli e offrire una via di salvezza. L’uso della paura è sempre stato strumentale al potere, adesso più che mai. Il sistema della paura – della morte, della malattia, del diventare poveri, del perdere la salute, del perdere il lavoro perché arrivano i immigrati – regge un sistema di potere. E la danza macabra è quella di irretire e fare temere la morte che, nella società contemporanea, rappresenta ancora l’ultimo tabù.

Spiegati meglio.
Non fa parte del ciclo produttivo, inceppa le cose. La morte arriva come una cosa che non sai bene dove mettere, infatti si muore sempre più appartati. Un tempo, faceva parte del ciclo della vita.

Foto di Marco Zanella

Tra le denunce che fai in questo disco ci metti in mezzo anche il sistema carcerario con La ballata del carcere di Reading.
Di questo tema ha parlato magnificamente e completamente, sulla sua pelle, il grande poeta Oscar Wilde. La vicenda per la quale ho scritto questa ballata credo sia molto toccante: un gigante che arriva alla completa caduta e che, invece che distruggersi o lasciarsi morire, capisce gli altri e la compassione attraverso il dolore. Comprende che Cristo non è venuto sulla Terra per salvarci, ma per insegnare agli uomini a salvarsi l’un l’altro. Trovo che – insieme al De profundis – siano le pagine più alte, dettate dal dolore. Un testo, questo, che non perde nessuna attualità.

No eh?
La cosa che denuncia è la completa ipocrisia dell’ammantarsi dell’autorità della cristianità, quando è completamente tradito il messaggio. Quando vedo certi personaggi della scena politica attuale agitare una croce in nome dell’odio, penso sia il tradimento completo di quella croce. Benché io parli da non credente, il lavoro più grande è convertire il dolore non solo in abbattimento, ma in solidarietà, qualcosa che ci può avvicinare agli altri.

Parliamo del brano I musicanti di Brema, simbolo di unità.
Espulsi dal mondo dell’utile e della produzione si salvano compiendo un gesto inutile: formare una banda musicale. È una storia veramente pedagogica, afferma che non importa se sei stato licenziato, esodato, esuberato o scartato: puoi sempre trovare qualcuno come te. E non solo l’unione fa la forza, ma anche il divertimento. Trovo sia fortificante. Nella sua realizzazione musicale sono stato molto gratificato dal lavorare con Daniele Sepe. Il pezzo ha una sua ironia, c’è del grottesco, c’è una speranza. In fondo i musicanti sono dei disgraziati che, insieme, si aggiustano. E Sepe ha dato un’orchestrazione che rende il senso.

Prima di salutarti ho una domanda: chi è il protagonista del brano Il testamento del porco?
Eh, chi è? Sono io! (ride, ndr)

Non ci credo.
Il porco è un animale che ha patito troppo la sua vicinanza all’uomo. Ha sempre avuto commistione con l’uomo: non gli ha portato bene, ma è diventato aggettivo umano, come altri animali domestici. Però il porco è quello che è più sulla bocca, spesso accostato alla divinità, quanto all’uomo. C’è il trattato L’eccellenza e trionfo del porco di Giulio Cesare Croce, autore di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, in cui si dice che il porco ha quel nome perché è l’anagramma di corpo.

Non ci avevo mai pensato.
In effetti è tutto corpo: le escrescenze vengono fuori giusto per muoversi. E Croce, questa cosa, la trova, ovviamente, sublime. È un testo meraviglioso. Ho sempre adorato questi scrittori che parlano di una materia bassa come trippe e ventraglie, con argomentazioni molto colte. La canzone è divertente perché prima c’è la lamentazione, però poi il porco si rassegna e dice: «Se proprio devo morire, godetevela». Il porco si erge contro la fame e la miseria. Keplero studiò le cosiddette armonie celesti e analizzò una relazione tra i pianeti e le note. Sono sette i pianeti e sette le note. Attribuì alla Terra l’intervallo di Fa-Mi collegandoli a Fame e Miseria, i due grandi governatori del mondo. E il porco, nel suo sacrificio, cercare di contrastare il loro regno, quello della grande signoria della fame e della miseria, appunto. Questo è tutto.

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