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Vince Pastano, da Vasco Rossi alla caccia alle streghe di Malacarna

Il chitarrista e produttore racconta il progetto audiovisivo col cantante Tony Farina e l’artista Dorothy Bhawl, un album in dialetto lucano che mette assieme musiche noise e antiche credenze popolari

Foto: Nino Saetti

Il Sud Italia è un pozzo senza fondo di credenze popolari, di riti magici tramandati di generazione in generazione, di folklore che si nutre di superstizioni e malie che non sembra essere scalfito dallo scorrere del tempo, né dalla globalizzazione del pensiero. Non a caso, nella prima parte del secolo scorso, Aleister Crowley ha scelto Cefalù come sede dell’Abbazia di Thélema, così come non è un caso che Malacarna, il progetto audiovisivo (EP in uscita il 30 aprile esclusivamente su Bandcamp e in vinile) formato dal cantante Tony Farina, dal produttore e chitarrista (anche di Vasco Rossi) Vince Pastano e dall’artista Dorothy Bhawl, sia nato nel medesimo contesto socioculturale. È album sinistro e ammaliante, scaturito dall’idea di coniugare testi in dialetto lucano con sonorità che vanno dal folk-blues al tribal e all’industrial, il tutto tenuto insieme da una forte connotazione cinematografica e inserito in uno specifico concept grafico e visivo dall’impatto immediato.

«Ho conosciuto Dorothy Bhawl perché aveva collaborato con Beatrice Antolini e mi sono subito innamorato del suo stile esoterico», racconta Pastano. «Non mi sono rivolto a lui con un’idea, mi sono limitato a fargli sentire i brani e lui ha fatto il resto. Credo che sia riuscito alla perfezione a rendere visibili i temi del disco. È incredibile come le sue opere sembrino scaturire esattamente dai testi di Tony, soprattutto perché ognuno di noi ha fatto ciò che voleva, contando sulla stima che aveva verso l’altro. Io, da cultore di artisti come David Lynch, Jodorowsky e Roger Corman, ho portato un tocco di cinematografia. Il resto l’hanno fatto le coincidenze. Per esempio la visione di un film indipendente di Lukas Feigelfeld dal titolo Hagazussa, che non mi ha fatto dormire per tre notti e che, ancora più inquietante, senza volerlo racchiude appieno il tema di Malacarna. Anche in termini estetici».

Chi è dunque questa Malacarna? Un personaggio nato da leggende tramandate nei secoli, una figura realmente esistita o una sorta di archetipo? «Probabilmente la terza definizione è quella che calza meglio. Una figura dai connotati antichi, ma che paradossalmente esiste pure oggi. La Maria Lou del brano omonimo è una di queste: una donna additata a puttana, ma che in realtà non lo è. È il popolo a renderla Malacarna. Sono le malelingue, per la precisione a farlo. Infatti l’opera di Dorothy utilizzata per la copertina è una lingua con i tre chiodi di Cristo, la rappresentazione della malalingua».

«Il progetto ha due chiavi di lettura: una folk e una moderna. Dalla caccia alle streghe a oggi è cambiato ben poco. Sono mutati solo i mezzi, ora si fanno i nomi sul web. Mia nonna era solita fare riti al limite tra il sacro e il profano per scacciare le malelingue. Era una donna profondamente religiosa, ma allo stesso tempo effettuava questi strani riti con acqua e olio quando si veniva a sapere che qualcuno aveva parlato in un certo modo di un membro della famiglia. Qualcosa dal fascino incredibile. Poi arrivava il verdetto: chi era stato liberato si sentiva diverso e lo esprimeva. La migliore descrizione dell’effetto placebo, forse, ma con una componente teatrale pazzesca. La Malacarna è una donna dall’aspetto inquieto, che trasmette un senso continuo di timore, ma Tony l’ha utilizzata solo come punto di partenza per un discorso molto più strutturato sulle credenze popolari».

È proprio nei testi, infatti, che è possibile ritrovare un sapere popolare radicato in luoghi per certi versi immutabili. «I testi sono pieni di bellezza folk e parlano di storie tramandate a Tony dai propri avi. Poi lui è stato bravo a riassumere quel sapere e a sviluppare a sua volta quei temi in modo personale».

La summa dell’intero concept pare affidata a Resta cu mmi, traccia conclusiva dell’EP, che parte proprio da un testo sacro per prendere poi strade sinistre: «Sì, è come se quello che era già evidente fino a quel momento, finisca per esplicarsi perfettamente lì. Senza volerlo, per altro, perché era nato come pezzo strumentale e nessuno di noi pensava potesse trasformarsi grazie a quelle sei righe in cui Tony è riuscito a condensare tutto il significato dell’opera. Ci trovi il sunto delle nozioni folk: la vita, l’amore e la morte. È stata un po’ la nostra Paranoid: nessuno poteva immaginarsi che un pezzo nato all’ultimo diventasse un punto cardine del tutto».

Se concettualmente i Black Sabbath non possono che essere evocati di continuo durante l’ascolto dell’album, i riferimenti musicali sembrano giungere talvolta da altri lidi: echi di Nine Inch Nails e Marilyn Manson sono infatti evidenti. «In qualche modo vedo tutti quelli venuti dopo come dei figli dei Black Sabbath. Lo stesso Manson lo è. Dal punto di vista musicale, Malacarna nasce però come una forma di sperimentazione noise: Maria Lou, per esempio, è un’evidente orgia noise. Il primo pezzo su cui ho iniziato a giocare con quelle sonorità è Oh Signore, che vede la partecipazione di Raiz: sono partito da questi timpani distorti e ho finito per distorcere tutto. La fonte è certamente Trent Reznor: come fai a non citarlo quando parli in termini sonici o di produzione? Di conseguenza da qui arrivano anche gli echi mansoniani, che anche sulla distorsione della voce ha creato il proprio percorso artistico. Ho sempre paura a citare Manson, perché la gente poi tende a pensare a qualcosa con una deriva metal. Questo perché conoscono poco l’artista. Oggi, poi, è ancora più difficile parlare di lui, visto che nel giro di tre settimane è stato completamente distrutto. Posto che tutto debba ancora essere provato, a suo modo è diventato anche lui una Malacarna. Sai, poi davvero verrà condannato per tutto, ma è più bello, non ti rallegra un po’ di più la giornata sapere che Manson abbia fatto certe cose, piuttosto che pensarlo a leggere un libro in camera da letto? Diventa cinema nel cinema e noi, così poveri culturalmente, ci cadiamo sempre. Proprio per questo resta tutto immutato nei secoli».

Il featuring del frontman degli Almamegretta è uno dei passaggi più intensi del progetto. «La collaborazione avrebbe potuto anche non concretizzarsi perché non ci conoscevamo. Poi grazie al suo manager è nata una fratellanza, un’affinità elettiva immediata. Ha scelto un testo curioso, un brano travestito da preghiera ma che preghiera non è. Un gospel presuntuoso, in cui un uomo chiede al Signore di risolvere il male creato da lui. È un’imprecazione più che una preghiera. Raiz ha un timbro di voce unico, in assoluto quello che preferisco, perché ha il blues dentro. Se canti in dialetto rischi di non farti capire, è inevitabile. Ma alcune cose, pensa ai detti popolari per l’appunto, una volta tradotti perdono l’anima oltre che la musicalità».

Una delle opere di Dorothy Bhawl per ‘Malacarna’

È singolare che un progetto così underground sia nato da un musicista che i più ormai collegano al Vasco nazionale, personificazione assoluta del mainstream nel nostro Paese. «Oggi più che mai sento vibrazioni di Vasco e del Luca Carboni dei primi tempi in moltissime degli artisti indie. Diciamo che, senza polemica, non si sono inventati poi un granché. Però va detto che oggi per lo meno il ruolo di Vasco viene riconosciuto dalle nuove generazioni, mentre a un certo punto sembrava obbligatorio doversene discostare. Io ero un suo fan prima di iniziare a collaborare con lui e continuo ad esserlo al di là delle cose che sto facendo insieme a lui anche in questo momento. Vasco ha avuto un’importanza culturale incredibile. Pensa anche al linguaggio, alla sua capacità di scrivere per slogan. E non è una cosa che riguarda solo la prima parte della sua carriera. Penso agli anni ’90: senza nemmeno toccare Gli spari sopra, chi ha fatto qualcosa di simile a Nessun pericolo… per te? Un disco con un equilibrio pazzesco, che contiene Sally, ma che poi parla di puttane che lo aspettano fuori o cose del genere. Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare».

«Tornando al presente, stiamo lavorando sodo. Lui è molto social, molto più di me ed è giusto che sia lui a parlare del nuovo lavoro. Le sue frasi sibilline, le anteprime arriveranno come ogni volta. Quello che posso dire che gratificante e stimolante lavorare con lui, tanto quanto immergermi nei miei deliri underground».

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