Vince Clarke in sei album, dai Depeche Mode al “debutto” a 63 anni | Rolling Stone Italia
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Vince Clarke in sei album, dai Depeche Mode al “debutto” a 63 anni

Abbiamo chiesto all’«arrangiatore d’orchestra, ma per sintetizzatori» di raccontarci i dischi fondamentali della sua carriera. «Non mi vedrete più sul palco coi Depeche, neanche come ospite»

Vince Clarke in sei album, dai Depeche Mode al “debutto” a 63 anni

Vince Clarke

Foto: Eugene Richards

Ne ha fatte di cose, Vince Clarke. Fondare i Depeche Mode, innanzitutto. Lasciarli dopo il primo album, di cui aveva scritto gran parte delle canzoni. «Perché me ne sono andato? È passato troppo tempo, non me lo ricordo più», scherza con noi di Rolling Stone via Zoom dalla cucina del suo loft di TriBeCa, bevendo qua e là un sorso di birra da una pinta. Fare e disfare gli Yazoo con Alison Moyet. Dare vita assieme a Andy Bell ai decisamente più duraturi Erasure. E mettere in piedi diversi altri progetti più o meno estemporanei. Ridendo e scherzando, le canzoni di cui è autore stanno su 30 milioni di dischi venduti. Ma arrivato a 63 anni non aveva ancora mai pubblicato un album che in copertina avesse scritto solo il suo nome.

Il debutto solista, se così lo si può chiamare, è appena avvenuto grazie a Songs of Silence, uscito per la Mute, la sua casa discografica fin dai tempi di Dreaming of Me, il singolo che diede il via alla storia Depeche Mode. Impossibile non leggere nel titolo del disco un omaggio a Paul Simon, il songwriter che lo ha ispirato, ancora ragazzino, a comporre le sue prime canzoni.

Per registrare il nuovo album, Clarke si era dato un paio di regole. Primo: solo suoni provenienti da Eurorack, un formato standardizzato per la combinazione di sintetizzatori modulari. Secondo: ogni traccia doveva essere basata su un’unica nota, senza cambi di chiave. «Da queste parti» spiega scherzando ma non troppo «nessuno era particolarmente interessato a quello che stavo facendo in studio. Anche il gatto, dopo aver passato un’ora ad ascoltare bordoni, preferiva andarsene». Gatto che, dettaglio non comune, si chiama Dio. Non come la divinità, ma come Ronnie James Dio, a proposito di ispirazioni non esattamente scontate.

Ne è uscito un disco piuttosto peso, soprattutto se paragonato al bubblegum techno pop degli Erasure, il progetto con il quale ha firmato la maggior parte delle uscite della sua lunga carriera. Un mood in apparente contrasto con un senso dell’umorismo britannico che ha conservato anche dopo tanti anni di vita newyorkese. Lui stesso lo ha definito «un lavoro che porta con sé un senso di tristezza, di cose che stanno andando male, verso il crollo». Una raccolta di brani minimalisti e prevalentemente strumentali, in cui qua e là ha piazzato particolari “umani” come il campionamento della voce di un pilota d’aerei da combattimento, la presenza della soprano Caroline Joy, il contributo del violoncellista Reed Hayes. Ascoltandolo viene in mente la definizione di Vince Clarke data a suo tempo da Martyn Ware, fondatore degli Human League e degli Heaven 17: «Un arrangiatore d’orchestra, ma per sintetizzatori».

Così abbiamo chiesto a Vince di raccontarci cinque degli album più significativi della sua storia, iniziata nel lontana 1981, dall’ultimo Songs of Silence a Speak & Spell dei Depeche Mode.

Songs of Silence

Vince Clarke

2023

«Non è che avessi programmato di uscire con un album solista, ma durante il lockdown mi ero messo a fare musica e sono venuti fuori alcuni pezzi. Scriverli e registrarli mi ha fatto sentire sereno e mi ha dato una soddisfazione personale. Poi però quando li ho fatti ascoltare alla casa discografica mi hanno detto: perché non facciamo uscire un disco? Ma ripeto: non era nelle mie intenzioni iniziali e la loro proposta è stata uno shock. L’utilizzo di Eurorack mi ha entusiasmato. È un formato che permette a sintetizzatori prodotti da case diverse di lavorare insieme. Immaginiamo di voler costruire un’auto perfetta: prenderemo un motore Porsche, le gomme della Ferrari e la carrozzeria di una Mercedes. Il formato Eurorack ti permette di fare la stessa cosa con i sintetizzatori: prendere componenti costruiti da persone diverse, con idee diverse, e farli lavorare insieme».

«Quello che inizialmente mi ha spinto a scrivere questi pezzi sono le colonne sonore che stavo ascoltando. Mi affascina quando nei film arriva la musica, che aggiunge significati diversi alle immagini che stiamo guardando. Tutto è partito da Blade Runner 2049, la fantascienza mi piace moltissimo e l’avrò guardato quattro, cinque volte. Ho iniziato a fare attenzione alla colonna sonora e ho pensato che sarebbe stato interessante creare qualcosa di simile. Magari, perché no, la colonna sonora del prossimo Blade Runner. Ho iniziato con The Lamentations of Jeremiah, che poi sarebbe diventato il primo singolo, e ho chiesto al mio amico Reed Hayes, che è uno straordinario violoncellista, di suonarci sopra».

«Qualche settimana fa abbiamo eseguito il disco per intero alla London School of Economics. Non è stato un vero e proprio concerto, ma più un incontro di musica e visuals. C’era uno schermo dietro i musicisti, ma c’erano schermi anche ai lati della sala. Volevo che fosse un’esperienza immersiva ma l’intenzione era quella di portare l’attenzione del pubblico non solo verso quello che succedeva sul palco. Penso che i presenti abbiano capito dove volevo arrivare. Sul palco c’eravamo io, Reed Hayes e Caroline Joy. E poi c’erano un sacco di macchine. Non è stato il classico spettacolo di rock’n’roll. Non c’erano posti a sedere, si poteva andare in giro, guardare le immagini. La London School of Economics mi sembrava particolarmente adatta a ospitare quello che avevo in mente, oltre ad avere la possibilità di finanziare questo tipo di eventi. Speriamo di poterlo ripetere qui a New York ma i costi sono molto più alti. A Milano potrei contattare la Fondazione Prada».

Ssss

VCMG

2012

«Avevo iniziato a interessarmi alla dance elettronica. Non sto parlando della disco, ma di quella basata su groove minimali. Martin Gore era interessato allo stesso tipo di musica, e allora gli ho mandato qualche idea che avevo buttato giù, pensando che magari avremmo potuto fare qualcosa insieme e pubblicare un disco. Oltretutto lui stava sperimentando con il sistema Eurorack con cui io fino ad allora non avevo mai lavorato. Lui mi ha detto che ci stava, il che è stato fantastico, dato che è sempre molto impegnato. In pratica abbiamo iniziato a scambiarci dei file: io gli mandavo un’idea e lui ci lavorava sopra. Queste idee facevano avanti e indietro da me a lui e viceversa, finché non arrivavamo al pezzo finito. È stato bello perché non conoscevo Martin molto bene: anche quando ero nei Depeche Mode il nostro non era un rapporto molto stretto. È stata una bella occasione per conoscerci. Oggi per me è più facile collaborare con altri musicisti. Rispetto al passato, apprezzo maggiormente quello che fanno gli altri e sono contento di lasciare che la musica a cui lavoro vada avanti anche in base a idee che non vengono da me. Per me è un atteggiamento nuovo, che è iniziato proprio con questo disco».

Pretentious

The Clarke & Ware Experiment

1999

«Con Martyn Ware ci siamo conosciuti quando ha prodotto ha prodotto I Say I Say I Say (1994) degli Erasure. Voleva fare musica per mostre e installazioni e ci siamo quindi messi a lavorare con quell’obiettivo: dar vita a un progetto audiovisivo. Abbiamo prodotto la musica per un progetto del National Centre for Popular Music di Sheffield, la sua città. L’idea era quella che un artista locale producesse della musica utile a dimostrare le potenzialità dell’impianto Ambisonics 3D Surround del centro, e Martyn ha pensato di collaborare con me. Le tracce che abbiamo prodotto sono finite su questo album. In estrema sintesi si può dire che io sono stato più musicista e lui più produttore. Io ho suonato e registrato, e lui ha mixato».

The Innocents

Erasure

1988

«Come nella maggior parte dei casi, anche queste canzoni degli Erasure sono state scritte prima di entrare in studio. Abbiamo realizzato i demo di quasi tutti i pezzi dell’album con una chitarra acustica o con un pianoforte, con Andy che cantava le melodie ancora senza testi. Dopo i primi due album prodotti da Flood siamo passati a Stephen Hague perché volevamo provare qualcosa di diverso. È stato un disco abbastanza facile da fare, le idee arrivavano senza fatica».

Upstairs at Eric’s

Yazoo

1982

«Tutto è partito dal demo di Only You, che avevo registrato per la Mute. Io e Alison Moyet ci conoscevamo di vista, anche lei viveva a Basildon, dove sono nato. Le ho chiesto se le andava di provare a cantare quella canzone su un quattro tracce. La casa discografica propose di pubblicare il pezzo come singolo, le radio iniziarono a trasmetterlo e pian piano la canzone si fece conoscere, fino ad arrivare al secondo posto in classifica, cosa che non ci aspettavamo assolutamente. A quel punto ci chiesero di fare un album. Io avevo un po’ di canzoni su cui avevo lavorato, e anche Alison ne aveva un paio. Così abbiamo iniziato a mettere insieme le idee. Ma non eravamo mai stati una band, non avevamo mai scritto canzoni insieme. Eravamo due entità musicali separate che si erano trovate grazie a quel singolo. È uno dei motivi per i quali la vita degli Yazoo è durata così poco. Non ci conoscevamo molto bene, e avevamo idee diverse sul tipo di musica che volevamo fare. Comunque registrare quell’album fu molto interessante perché non ero mai stato in un vero e proprio studio e al mio lato nerd la cosa piaceva molto. Abbiamo lavorato con Eric Radcliffe ai Black Wing Studios, in una chiesa sconsacrata di South London. Lui è stato molto paziente e mi ha spiegato come funzionavano le cose in sala d’incisione, per me è stato un po’ come andare a scuola».

Speak & Spell

Depeche Mode

1981

«Prima dell’uscita del disco abbiamo suonato live in un sacco di posti: pub, club, tutti posti piccoli. Siamo stati molto fortunati a incontrare Daniel Miller, che si è fatto carico di pubblicare il nostro primo singolo. È stato il periodo più emozionante di tutta la mia vita. Non ci credevamo: era uscito il nostro 45 giri, un disco vero, e ci chiedevano di registrare un album. È stata un’esperienza fantastica. E poi sentire la nostra canzone alla radio. I posti dove facevamo i concerti diventavano più grandi, e c’era più gente che veniva a vederci. Ognuna di queste novità veniva superata dalla successiva, ed era tutto vero ed emozionante».

«Non mi vedrete di nuovo sul palco con i Depeche Mode, neanche come ospite. Ho detto prima che io e Alison Moyet eravamo entità musicali separate, e questo a maggior ragione vale per me e i Depeche Mode. E poi non penso che sarei in grado, non suono così bene le tastiere. Però ho ascoltato a lungo i loro ultimi due album e per me sono i migliori che hanno fatto dai tempi di… Speak & Spell».

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