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Vietato ai minori di 35 anni: intervista ai Baustelle

I Baustelle tornano con un disco che è una sorta di “Sussidiario illustrato della maturità”. Poetico e contemporaneo, come sempre
Foto: Gianluca Moro

Foto: Gianluca Moro

Sono sempre scettica quando si affibbia a un cantautore il patentino di poeta, come se fosse un certificato di qualità, il che non ha molto senso, considerato che il mondo è pieno di pessimi poeti. Ma sono ancora più scettica quando si definisce un cantautore “un poeta dei nostri giorni”, come se alla poesia mancasse invece la capacità di “agganciare” il contemporaneo. Credo che scrivere canzoni e scrivere poesie siano due cose differenti, e che questo fraintendimento tradisca lo stesso inciampo intellettuale per cui un fumetto è degno solo se lo si può definire graphic novel.

Qualche sera fa ero a cena con un po’ di gente in trattoria e c’era un televisore acceso su un concerto di Biagio Antonacci. Abbiamo cominciato a cazzeggiare sull’utilizzo quantomeno “stravagante” di tempi e modi verbali nei pezzi di Antonacci, e mi sono resa conto di come buona parte della musica leggera che passa per radio cerchi di darsi un tono forzando la lingua secondo un principio del “famolo strano”, inseguendo un vezzo di poeticità che in realtà nella maggior parte dei casi si risolve nel kitsch (per dirne una, la metafora forzatissima dell’“oro nero” di Giorgia). Quando mi hanno chiesto secondo me chi scrivesse oggi delle canzoni belle in Italia, non ho avuto dubbi: i Baustelle. Fin dall’album di esordio Sussidiario illustrato della giovinezza (uno dei migliori titoli di sempre) per arrivare all’ultimo disco, L’amore e la violenza, penso che i Baustelle non solo abbiano saputo raccontare la contemporaneità in maniera profonda e originale, ma che siano stati anche in grado di interrogarla senza cedere all’altra grande tentazione di questa epoca: trasformare il pop in sociologia. Quando incontro Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi per questa intervista – in una stanza asettica negli uffici della Warner, dove anche a volerlo è difficile sentirsi dei poeti –, la prima domanda riguarda proprio il loro rapporto col contemporaneo.

Francesco: Se qualcuno pensa che i Baustelle riescano a raccontare il contemporaneo per me è un grandissimo complimento. Personalmente ho dei problemi di interazione con il contemporaneo, mi sento a disagio, a volte ho persino dei sensi di colpa quando agisco, cammino, faccio cose nel contemporaneo, ma insomma… ti adatti. La vita quotidiana, in un certo senso, è più semplice, anche se paradossalmente può avere ripercussioni più forti: stai male perché non ti senti rappresentato dal tuo tempo. Il mestiere di chi scrive canzoni è più complicato, perché quello che rischi non è il dolore personale, ma il vuoto.

Il vuoto di non riuscire a dire nulla?
Francesco: Il vuoto di dire cose che non servono a nessuno, per colpa del desiderio di rincorrere il contemporaneo. È un’ansia che avverto molto forte in giro, l’ansia di scrivere canzoni come fossero fotografie di questo tempo, ma poi la fotografia appare, come dire…
Rachele: Fuori fuoco.
Francesco Sì, esatto, e alla fine si tratta di brutte canzoni.

Come conciliate il presente con la vostra estetica vintage?
Francesco: In realtà sono più gli altri che ci definiscono vintage. A me sembra di essere naturalmente così. Da un punto di vista musicale, mi interessano cose fatte nel passato. Anni in cui la ricerca era molto avanti.

Di che anni parli?
Francesco: Credo che gli anni ’60 musicalmente siano stati più rivoluzionari di altri. Oppure pensa ai microfoni inventati negli anni ’40. Se vai nello studio dove registra Shakira, ci troverai ancora microfoni che hanno la stessa tecnologia degli anni ’40. In realtà, la vera differenza è l’attenzione al suono, di cui però nel pop non frega niente a nessuno, e questa è una cosa che può sembrare retrò.

In che cosa consiste questa attenzione?
Francesco: Nella scelta degli strumenti. Nell’imporsi dei dogmi, delle limitazioni, nel fare una ricerca sonora utilizzando sintetizzatori analogici, come in questo album. Non significa essere vintage, significa fare delle scelte.

È come se la tecnologia non si fosse evoluta abbastanza dal punto di vista del suono?
Francesco: Ovviamente non posso dire questo, perché il computer è stata un’invenzione straordinaria. Nel nostro caso si tratta di un disco registrato con dogmi analogici e poi mixato “in the box”, quindi ha una doppia faccia. Però credo che il computer comporti una certa pigrizia: hai la sensazione di poter fare tutto e smetti di avere una tua idea personale.

Ma proprio perché puoi fare tutto, non aumenta anche la consapevolezza? La necessità di scegliere, appunto?
Francesco: A me sembra di essere circondato da canzonette – non voglio fare nomi – che suonano tutte uguali, in cui riconosco questa pigrizia, posso dire esattamente il tipo di programma utilizzato. Magari non è così evidente per tutti, oppure va bene che sia così, perché questi sono i tempi. Succede anche a me, mi capita di creare una cosa al computer, e poi mi ci affeziono e allora per pigrizia la lascio lì. Ecco perché è importante avere dei dogmi. Anche rispetto al modo di scrivere un testo su una melodia, per esempio. Se abbiamo una melodia che fa tiritì taratà, il verso dovrà finire con una tronca. Crea un vincolo, ma ti permette di mantenere la bellezza di una melodia senza il compromesso di dover aggiungere una sillaba.

Ultimamente c’è un certo ritorno al vintage in campo musicale, anche nella nuova scena italiana, secondo voi da che dipende?
Francesco: Dalle mode. Torneranno anche Raf e Ambra. Ci sono le mode e poi c’è chi cerca di fare un discorso sincero e personale, e quando percepisco quella cosa lì, io mi commuovo.

Qui però puoi fare i nomi, chi ti commuove?
Francesco: Uno come Leonard Cohen.

Così giochi facile…
Francesco: Sì, forse, ma è uno più vecchio di mio padre che faceva la sua cosa fottendosene delle mode. O Dylan che rifà gli standard americani senza fare nulla di suo. Certo, non tutti se lo possono permettere.
Rachele: È una libertà sempre meno scontata. Mogol dice che Battisti oggi non potrebbe fare quello che ha fatto.

Magari anche perché giravano più soldi.
Francesco: Sì, quando giravano i soldi, l’industria musicale funzionava come dovrebbe. Negli anni ’60 e ’70, le case discografiche avevano i loro cantanti pop e potevano permettersi di investire su giovani come Dalla, De André o De Gregori, che credo sia andato in pari solo con Rimmel, il quarto disco.

E rispetto a quando avete cominciato voi, cosa è cambiato?
Francesco: Al tempo si vendeva qualche disco in più, eravamo ancora agli albori di Internet. Pensa che nella prima edizione de Il sussidiario c’era scritto il numero di casa dei miei. Poi nelle ristampe lo abbiamo tolto…

Non voglio sapere che ne pensate dei talent, ma c’è una cosa che mi sorprende molto di X Factor, ed è questa enfasi sull’idea di uscire dalla “comfort zone”, come se si chiedesse a un artista di dover essere in grado di fare tutto…
Francesco: Se i talent vengono presi come la verità, allora sì, un cantante dovrebbe saper cantare le canzoni di tutti e ballare le coreografie di tutti. Non serve a niente nel mercato reale, ma X Factor per me è un programma, forse anche divertente. È un gioco con le sue regole.

L’amore e la violenza è un titolo che potrebbe racchiudere tutti i vostri album…
Francesco: Sì, e anche qualsiasi altra cosa.

Mi interessa il vostro rapporto con la violenza. Mi ha stupito che un pezzo come Contà l’inverni – che in fondo è la storia autoassolutoria di un cosiddetto femminicidio – non abbia destato lo stesso coro di indignazione “senonoraquandista” che si era scatenato contro Fabri Fibra e la sua partecipazione al Primo maggio.
Francesco: Me lo sono chiesto anch’io, ma è stato preso in modo poetico. Forse c’entra il fatto che cantassi in romanesco. Insomma, la stranezza del pezzo ha prevalso sul dibattito sul contenuto. Meglio così.

La violenza di questo album in che consiste?
Francesco: Volevamo fare un disco di canzoni d’amore in tempo di guerra. Mi sono detto, facciamo finta di essere Prévert e Kosma. Insomma canzoni d’amore romantiche, ma in cui c’è la guerra sullo sfondo. La violenza è il contesto. Tornando al discorso sul contemporaneo, come fare a raccontarlo? Evitiamo il problema, aggiriamolo, e forse si riesce davvero ad acchiapparlo. Ho provato a raccontare il presente in modo non mimetico, attraverso la frammentazione, il cut-up, così nello stesso pezzo puoi trovarci le SS e l’Islam fondamentalista. È molto diverso da Fantasma, dove c’era uno sviluppo più narrativo.

Ci sono due pezzi in cui, all’interno di questo contesto di disfacimento e potenziale guerra, parli del “fare l’amore” come una sorta di salvezza utopica. Pensi che oggi l’utopia, invece che politica, possa essere questa?
Francesco: C’è un verso in cui dico “Che fesseria la guerra / quando finirà davvero / ce ne andremo in Inghilterra / a far l’amore senza paura / io e te”. Ho i testimoni, l’avevo scritta prima della Brexit! Comunque sì, il ritrovarsi, fare l’amore, è una forma di utopia, è importante farlo bene.

Guardando la copertina, mi aspettavo più sesso nell’album. Come è nata la copertina?
Francesco: È un’idea di Gianluca Moro, il nostro fotografo. Visto che avevamo fatto sempre copertine molto simboliche, posate, ha pensato di scegliere un’immagine in movimento, come fosse un fotogramma. L’ispirazione viene da una scena di If…, dove Malcolm McDowell e una cameriera si spogliano, si mordono e… no, mi imbarazzo a raccontare queste cose.

Nei vostri lavori c’è sempre un senso della perdita molto forte. Andando avanti con gli anni, quali diventano le perdite più dolorose?
Francesco: Tu senti un senso della perdita in quest’album?

Beh, cavolo, sì! Mi sono segnata un verso: “Che niente dura per sempre / figurati io e te”.
Rachele: Io ci vedo una perdita positiva, la perdita di qualcosa che ritroverò.
Francesco: Mi interessa questa cosa, perché io sono diventato un ragazzo padre qualche mese fa, sono stato lasciato e mi hanno fatto notare che l’avevo già previsto. “Francesco, riascolta il disco, tu l’avevi già scritto”. E io: “Ma dove?”, “Questi sono versi tuoi: “Ti ha lasciato un figlio, Foster Wallace, tre maglioni””.
Rachele: Insomma, te la sei tirata!
Francesco: No, non credo in una capacità divinatoria, sarebbe troppo. Io penso semplicemente che il tuo corpo reagisca: comincia a star male e allora immagina. Si mette nella condizione potenziale di qualcosa che potrebbe accadere. Non è profetizzare.

Io non intendevo la perdita solo come lasciarsi, ma anche quella della giovinezza. Come sarebbe Il sussidiario illustrato della maturità?
Rachele: Secondo me è questo album.
Francesco: Sì, può essere. Sto facendo un test con gli amici – per la gioia dei discografici – e alcuni mi hanno detto che questo è un disco vietato ai minori di 35 anni. Secondo te?

Sì, forse è vero.
Francesco: Più di Fantasma?

Beh, Fantasma era un concept album, molto coerente, ce lo vedo il ragazzo pessimista, appassionato della morte, che può andarci in fissa. Questo è più frammentario, come dicevi, e magari devi arrivarci a quella consapevolezza.
Francesco: Io faccio fatica a capire il mio target di riferimento. Da un lato spero siano gli anziani, perché sono gli unici che comprano.

Sì?
Francesco: I giovani visualizzano. Però mi chiedo: a un 18enne può interessare quest’album?
Rachele: Mio nipote ha 16 anni e ascolta rap, quindi mi esclude a priori.

A un album rap ci avete mai pensato?
Francesco: Credo sia molto mal praticato il rap, ma non so se noi ne saremmo capaci. Però, chissà: un sussidiario illustrato della maturità rap…

Avete un’ansia di paternalismo, o maternalismo, nei confronti delle nuove generazioni?
Francesco: No, non sono nemmeno troppo ansioso come padre. Provo ansia solo nei miei confronti. Ma intendi anche un senso di responsabilità per quello che diciamo?

Voglio dire: i vostri pezzi non sono mai giudicanti, ma c’è spesso un sentimento diretto verso soggetti fragili; una cosa però è se un ragazzino parla con un coetaneo fragile, un’altra se sente parlare una figura che riconosce come paterna.
Francesco: Ah ok, in questo senso c’è una canzone paternalista, o solo paterna, che è Ragazzina. L’ho scritta per mia figlia. Però c’è un altro pezzo che è quello che dici tu, Betty, ecco, lì si potrebbe riconoscere un’adolescente, molto più giovane di noi. Raccontare la giovinezza continua a interessarmi, anche il passare da uno stadio all’altro, la fine della giovinezza, il diventare adulti.

E qual è un racconto sulla giovinezza che vi è piaciuto? Un film, un libro…
Rachele: Le vergini suicide, il film, anche la colonna sonora, e La vita oscena di Aldo Nove.
Francesco: Io dico Stranger Things. Mi interessava il racconto di quell’adolescenza prima dei cellulari. Anche lì c’entra il senso della perdita. Mi sembra un buon prodotto del presente, un racconto popolare sulla giovinezza.

Come scegliete i soggetti delle vostre canzoni? È consapevole questa ricerca di fragilità?
Francesco: Non lo so cosa fa sì che un determinato personaggio mi ispiri più di un altro, ma non è una scelta in base alla densità di dolore. Sono un ragazzo di campagna, anche se vivo a Milano da tanto, e certe cose mi colpiscono ancora. Se vedo un barbone per strada, non voglio dire che mi commuovo, ma non sono anestetizzato. Ho letto questo saggio sul cinismo di massa: mentre prima era una condizione dell’élite, oggi è una pratica diffusa. Per me, la volontaria o involontaria sospensione del cinismo a fini poetici, nella creazione delle cose, aiuta.

Pensi serva anche a superare una narrazione troppo meccanica? Il cinismo crea degli automatismi…
Francesco: Sì, assolutamente, Facebook, la smania di produrre aforismi, dire la propria su tutto, giocare a fare i cinici… non è diverso dalle canzonette di cui parlavo. Mi sembra di vedere uno stile canzonettistico dappertutto.

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