Vengo ancora dalla Luna: intervista a Caparezza | Rolling Stone Italia
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Vengo ancora dalla Luna: intervista a Caparezza

Il tour interminabile e un nuovo disco live per celebrare il trionfo. L’evasione di Michele Salvemini è cominciata, e mettere in piazza se stesso fa parte del piano. Senza dimenticarsi della politica, per non finire tutti nella merda.

Entra nello studio fotografico ancora turbato, Michele Salvemini. «Il viaggio è stato allucinante», dice. «La tassista ha cominciato a dire le peggio cose sugli immigrati. Io stavo zitto, ma non la smetteva». Alla fine cambia argomento, mica troppo convinto. Con Caparezza funziona così: quando parla, la sensazione è che la sua mente stia ancora processando le chiacchiere precedenti e rincorra già quelle future. Soprattutto adesso che è finito il lungo tour di Prisoner 709, il suo ultimo disco, che Michele ha portato in concerto a partire dallo scorso dicembre. Prima i palazzetti, poi un nuovo spettacolo pensato per i festival estivi. “Non potrò fare tanti concerti come in passato”, aveva detto nell’intervista a Rolling Stone dello scorso ottobre. Era preoccupato per via dell’acufene, esploso durante il tour di Museica nel 2015. Come canta in Larsen, quel fischio all’orecchio non smette di tenergli compagnia, e ora ci si mette anche un’ernia del disco. Hai voluto il rock? Ora tienilo. Fino alla fine.

Nella nostra ultima intervista raccontavi come Prisoner 709 fosse il tuo disco più intimo, quasi una seduta di autoanalisi in musica. Com’è stato portare qualcosa di così personale in tour per mesi, metterlo in piazza?
Dico la verità: non sapevo dove sarebbe arrivato il disco. Quando ho capito che stavo attraversando un momento particolare – forse è semplicemente l’età, eh! – ho deciso di scrivere più di me, smettere con la predica. Volevo prendermi una pausa dalla critica sociale, per passare ad analizzare il pulpito. È interessante, perché da quando puoi twittare l’arte della critica è a portata di tutti. È pericoloso esprimere sempre un’opinione: se riguarda qualcosa che non hai vissuto, quando devi affrontare quella situazione rimani sorpreso.

Così hai cominciato a esplorare il tuo Io.
Quando trovo un argomento per un disco, mi informo. L’avevo fatto per Museica e l’ho fatto con questo: mi sono letto Freud, Jung, i grandi della psicologia. Ma mica potevo mettermi a insegnare psicologia. Jung e Freud erano dei tramite per parlare di me.

Quanto è stato difficile aprirsi?
È stato strano, perché sono troppo introverso per farlo del tutto. Quando scriviamo, tendiamo a fare i pomposi. Non volevo rischiare di autocommiserarmi. Specie davanti ai miei fan.

Io posso raccontare di aver chiuso uno dei tuoi concerti. Suonavi al Palais di Saint-Vincent e io dovevo mettere i dischi, il problema è che quando hai finito la gente si è smaterializzata e sono rimasto solo come uno scemo.
Mi spiace! Ma non va sempre così, a volte si fermano: ai festival, per esempio. Però, dopo due ore che li fai saltare, è normale che vogliano andare a casa. La cosa bella è che di solito i Dj che si esibiscono prima e dopo di me mischiano rock e classic rap.

Un po’ come te, nei tuoi dischi.
Sono nato nel ’73 e ho scoperto il rap a 13 anni, il rock molto prima. I miei amici erano tutti metallari, e quando ho sentito per la prima volta i Run DMC non ce n’era uno che ascoltasse rap in tutta Molfetta. Qualche mese dopo, ho visto un ragazzo con la scritta “Run DMC” a pennarello sullo zaino Invicta, e ho scoperto di non essere solo. Ma ho dovuto aspettare i 16 anni prima di trovare qualcuno con cui parlarne.

In numerose interviste hai celebrato Frankie Hi-Nrg, per aver indirizzato la tua carriera.
Confermo: Fight da Faida mi ha cambiato la vita. Lui aveva la metrica, il flow, le rime, tutto. E poi aveva molta meridionalità, incitava a combattere la mafia, le faide. Mi ha sconvolto l’esistenza. Il rap italiano è arrivato quando avevo già compiuto 18 anni, il primo disco hip hop nella nostra lingua che ho comprato è Terra di nessuno degli Assalti Frontali. Prima i nostri rapper cantavano in inglese, e io non capivo perché.

Da dove hai preso invece la tua teatralità?
Quando ho cominciato a suonare avevo una band da pub, strumenti e basta. Poi ho cominciato a usare una lucina, che accendevo e spegnevo a tempo durante i pezzi. Quella cosa mi gasava, e ci ho preso gusto. Il líder máximo che mi ha spinto a mettere da parte la band da pub e creare delle scenografie è stato un pupazzetto, di quelli che si mettono a ballare se schiacci un tasto. L’avevo camuffato da me: gli avevo messo la parrucchetta, il pizzetto e lo facevo ballare su Jodellavitanonhocapitouncazzo. Il ritornello di quel pezzo (secondo singolo di Verità supposte, del 2004, ndr) ha uno jodel registrato: non potendo cantarlo io, ho escogitato quello stratagemma per farlo ballare e cantare al pupazzo. Catalizzava l’attenzione del pubblico, mi piaceva l’idea di dare vita a una grande stanza dei giochi sul palco. Da lì in poi mi sono fatto prendere la mano.

Con il tempo hai fatto le cose più in grande.
Grazie al cielo, quando aumenta il seguito, aumentano anche le risorse. Spendo tutto nelle scenografie, spesso ci metto soldi di tasca mia.

Qual è la cosa più allucinante che ti è capitata durante il lungo tour di Prisoner?
C’è stata una signora a Cagliari che ha passato tutto il concerto con in mano un libro, credo fosse di Shakespeare. Non ha mai alzato la testa per vedere lo spettacolo, nemmeno una volta. La cosa assurda è che stava in prima fila, quindi aveva fatto ore di coda. Poi mi hanno detto che probabilmente era una specie di protesta delle Sentinelle in Piedi, per via delle mie posizioni progressiste, di certo molto diverse dalle loro sulle unioni omosessuali. Voglio sperare sia così. Ogni volta che li vedo nelle piazze con i libri in mano, mi faccio il viaggio che siano dei turisti dispersi, che stanno leggendo la mappa della città per capire dove sono finiti.

E come va con l’acufene? Riesci a conviverci, ormai?
È perenne, tocca farlo per forza. Non potendosene liberare, devi affinare la nobile arte della distrazione. Un po’ come quelli che vivono di fronte alla stazione dei treni, e fanno finta che il rumore non ci sia.

Consolati, anche i Daft Punk ce l’hanno.
È molto comune fra i musicisti. Ci sono vari livelli, c’è quello tollerabile e il livello “mamma mia”. Io sono al livello “mamma mia”.

Prisoner è un concept album – o “disco a tema”, come preferisci dire tu – sulle carceri, quelle fisiche e quelle mentali. A che punto sei con il tentativo di evasione (da te stesso), di cui parli negli ultimi brani del disco?
Non sono ancora del tutto fuori dalla prigione. Ma sto cercando passo dopo passo di cambiare la mia mentalità.

Stai arredando la cella per rimanere a viverci dentro?
C’è un dibattito in corso nella mia testa, tra ciò che mi piace e ciò che ricordo che mi piaceva fare. L’altro giorno a casa ho notato una PlayStation che non accendo da decenni, e mi sono domandato: ma che cazzo me ne faccio, se non la uso mai?

Immagino che sia una metafora. Ma ho una curiosità: perché hai smesso di giocarci?
Prima ero malato di quella roba da nerd, ora l’ho mollata. E va bene così, anche musicalmente cose che un tempo mi piacevano ora mi annoiano. Voglio dare una brutta notizia a tutte le persone sicure di sé: nella vita si cambia, lo sto provando sulla mia pelle. Una volta Renato Zero ha detto che non poteva più permettersi il look che sfoggiava ai tempi del Triangolo. Io a 70 anni non mi vedo più a cantare Sono fuori dal tunnel. Pete Townshend aveva posto il problema, spiegando che My Generation per lui aveva cambiato significato negli anni, e non sperava più di morire giovane.

Foto di Mattia Balsamini

Foto di Mattia Balsamini

La tua svolta intimista, però, ha privato l’Italia di uno dei suoi artisti più impegnati. La dico tramite iperboli, ma un po’ è così. Si sente la mancanza di un bel disco politico, “caparezziano”.
No, non di un disco caparezziano. Ci vuole il disco di un ventenne che affronti tematiche di questo tipo. Non perché io abbia già dato, ma semplicemente perché, quando avevo vent’anni, ascoltavo i miei coetanei, tipo i 99 Posse. Le stesse cose dette da una persona adulta mi sarebbero arrivate meno. Di questo si sente la mancanza. Ho scritto tanto sui temi politici e sociali e ho anche notato che non servono a niente (ride). La situazione è peggiorata. Puoi spostare dei punti di vista, ma non puoi cambiare una nazione.

C’è bisogno che lo faccia Sfera Ebbasta?
Sì, ma Sfera Ebbasta non lo farà. C’è bisogno di qualcuno che se la senta e che abbia un background per poterlo fare. Negli Stati Uniti sta già venendo fuori qualche nome, tipo un ragazzino che si fa chiamare LGP Qua. Trump sta sicuramente spingendo molti a parlare.

Magari succede lo stesso qui con Salvini.
Sicuramente. L’importante, però, è parlarne in maniera creativa. Se ne parli in maniera scontata, è peggio che non parlarne. Non è cosa dici, ma come lo dici. Sai chi è maestro in questo? I comici di stand-up.

Sono loro i nuovi rapper?
Indubbiamente. Riescono ad affrontare tutti i temi da un punto di vista che non ti aspetti. Li adoro: George Carlin, Louis CK, Dave Chappelle, Doug Stanhope. Tra gli italiani Giorgio Montanini.

Quanto è tristemente attuale un pezzo come Vengo dalla Luna?
È sempre attuale. È un tasto dolente per me, anche perché sono appena sceso da quel taxi, ricordi? Queste cose le sento particolarmente, perché sono meridionale. Non vorrei essere così visionario, ma nel 2006 ho scritto Inno Verdano, un brano in cui i meridionali cominciavano a votare Lega. Dodici anni dopo l’hanno fatto per davvero. Il giorno esatto in cui sono arrivato a Milano per studiare, ho incrociato un treno di leghisti che cantavano canzoni contro quelli del Sud. Sono rimasto agghiacciato.

Cosa ti pesa di più, di questa situazione?
L’ipocrisia. Questa nazione rivendica radici cristiane, ma quando si tratta di accogliere il prossimo tanti saluti alle radici. A inizio ’900 si addensavano in Europa fermenti artistici straordinari, e tutto ci si aspettava fuorché una guerra mondiale, poi il fascismo e ancora un’altra guerra. Per cui sto sempre sul chi va là. Le cose non accadono da un momento all’altro: questi uomini strisciano e conquistano spazio lentamente, e un bel giorno ti ritrovi nella merda.

Torniamo un attimo a Sfera. Un anno fa ci dicesti che la trap “non vuole piacerti”, citando i Beastie Boys. Nel frattempo è venuto fuori qualcosa che ha conquistato la tua attenzione?
Sono tutti indignati per questa trap. Ma a me indigna meno di decenni di pop insulso: canzoni fotocopia, stessi arrangiamenti, cioè le critiche che si fanno ora alla trap. È come il metal: erano i miei amici a dirmi “questo è brutal” o “questo è power”. Non li distinguevo, finché non ho cominciato ad ascoltare davvero quella roba. Stessa cosa: c’è anche gente che fa trap, ma non parla di soldi e gangsta. Io ascolto quelli.

Si sente. Molti pezzi di Prisoner sono rappati in terzine, come nella trap.
CAPAREZZA Vieni a ballare in Puglia funziona se lo metti su un pezzo trap. È trap prima di tutti. Più terzinato della tarantella non c’è niente. I pugliesi sono stati trap prima di Atlanta. Prima di Gucci Mane c’era Puccia Mane!

Cosa verrà dopo? Nella musica e nella politica?
Secondo me un giorno avere un vestito firmato sarà da sfigati e i profili social saranno per i vecchi. Oppure tutti crederanno che la Terra sia piatta, e lo sciamanesimo sarà l’unica scienza ammessa.

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