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Velvet Underground, la versione di Moe Tucker

In una rara intervista rilasciata per il nuovo documentario sul gruppo, la batterista racconta gli anni con la band, le serate alla Factory, l’amicizia con Lou Reed e l’influenza di Charlie Watts
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Foto: Nat Finkelstein/Apple TV+

Maureen “Moe” Tucker è una delle batteriste più importanti della storia del rock. Il suo stile minimalista – suonava con i tom e una cassa sospesa, che colpiva in piedi con due mallet – era un elemento fondamentale del suono dei Velvet Underground. E lo stupefacente nuovo documentario sulla band, diretto da Todd Haynes, ci ricorda quanto il suo stile tenesse insieme la band impedendole di cadere a pezzi.

Le influenze di Tucker erano molto diversificate: i gruppi femminili, il batterista e compositore Baba Olatunji, l’R&B degli anni ’60, il doo-wop e i Rolling Stones. Di fatto, ha cambiato il suono, lo stile e l’attenzione alla parità di genere di tantissime band in tutto il mondo. Ultimamente non è molto attiva musicalmente, preferisce fare la nonna in Georgia. Ma ha trovato il tempo di chiacchierare con noi per l’uscita del documentario.

Il film è fantastico. È stato divertente rivivere i tuoi ricordi? 

Sì e no (ride). È difficile ricordare certi eventi e non mi piace inventare le cose. Preferisco parlare solo quando sono certa di quello che dico.

Hai esitato prima di partecipare al progetto? 

No. Il nostro avvocato, o forse John Cale – mi fido molto del suo giudizio – mi ha detto che il team sapeva cosa stava facendo. Ed era vero.

Adoro la storia sulla prima volta in cui hai ascoltato Not Fade Away degli Stones con la radio della macchina e sei andata fuori strada. Erano gli anni ’60, sei riuscita a vederli dal vivo in quel periodo? 

Sì, durante il primo tour. Forse era il secondo, ma sono abbastanza convinta che fosse il primo. Suonavano in un cinema con le balconate, una cosa vecchio stampo. In altre parole, un posto piccolo, così io e alcuni amici abbiamo potuto vederli senza il filtro di un megaschermo (ride). Era senza fronzoli, senza stronzate tipo luci o roba simile. C’erano solo loro sul palco. E credimi, erano fantastici. Brian era ancora nella band.

Hai anche visto i Beatles allo Shea Stadium.
Sì, il primo concerto. Fammi raccontare come ho avuto i biglietti, è una storia divertente. Mia madre voleva comprare una nuova stufa e, se non ricordo male, un frigorifero. Ha visto una pubblicità sul giornale, diceva che se compravi da Sears avresti avuto un biglietto gratis. Così è volata lì, ha preso quello che le serviva e due biglietti.

Quindi hai visto sia Charlie Watts che Ringo Starr, giusto? 

Sì. Mi piaceva molto Watts, la sua semplicità. Non faceva il classico colpo sui piatti ogni quattro battute, capisci? Io all’inizio avevo solo un rullante, non pensavo certo che avrei fatto la batterista. Mi divertivo a suonare sulla musica che mi piaceva ascoltare. Ero nella mia stanza, mettevo il primo disco degli Stones a ripetizione e ci suonavo sopra, era divertente. Lui era la mia influenza principale. Senza Charlie non sarei la stessa.

I Velvet erano la tua prima band in assoluto? Nel documentario, Sterling Morrison dice che forse hai suonato anche con un gruppo tutto al femminile…
No, non l’ho mai fatto (ride). Conoscevo una ragazza a lavoro, mi ha detto che il suo fidanzato aveva una band e cercavano un batterista. Sapeva che mi divertivo con le percussioni. Era una band locale, tre ragazzi più me, credo che ci chiamassimo Intruders. Il nome veniva da Grumman, la compagnia aerea di Long Island, l’aereo Intruder era la loro ultima novità. Insomma, ci siamo messi a provare e abbiamo suonato uno show in un bar della zona. Facevamo solo cover. Nessuno prestava attenzione. E mi stava benissimo così. Poi, la sera successiva, c’è stato un litigio durante il set di un altro gruppo e qualcuno ha sparato un colpo esattamente dove mi sarei dovuta mettere io! Detto questo, il cantante del gruppo, non ricordo il nome, era un rompipalle e ci siamo sciolti.

Nel documentario ci sono diversi video ambientati nella Factory di Andy Warhol. Eri amica delle altre ragazze che andavano lì? Nico era nella band, ovviamente, e Mary Woronov ballava nei primi show dell’Exploding Plastic Inevitable…
Eravamo tutti amici. Di giorno lavoravo a Long Island, andavo in città solo nel weekend. Quando eravamo tutti insieme ci divertivamo molto. Ma io non facevo niente di speciale con le altre ragazze. Martha, la moglie di Sterling, è stata mia amica stretta per molti anni. Andavamo insieme alla Factory e ci divertivamo un mondo. Oppure si andava al Max, stavamo nel backstage.

Da sinistra: Paul Morrissey, Andy Warhol, Lou Reed e Moe Tucker. Foto: Apple TV+

Quando suonavi in tour con i Velvet, facevi lavori part time tra un concerto e l’altro? 

Sì, sì.

E durante le registrazioni dei dischi eri ancora a casa tua, a Long Island, giusto?
Sì. Capitava anche di affittare degli appartamenti – uno era al 7 di East 9th Street, non ricordo gli altri. Ma dopo qualche mese avevo finito i soldi per l’affitto. Così, il 90% del tempo ero a casa.

Ho sempre pensato che nella band tu fossi la persona più vicina a Lou Reed. 

Eravamo molto vicini, quasi fratello e sorella. Lui aveva una sorella che ha più o meno la mia età. Era molto protettivo con lei, le voleva bene. Di sicuro non l’ha scambiata con me, ecco. Ma eravamo comunque molto vicini. Non saprei spiegarlo diversamente.

C’era quel tipo di fiducia che hanno solo i fratelli?
Sì. Fiducia totale. Non ci sono dubbi. E sai, quando ho iniziato a suonare per conto mio, tipo nell’89, è subito saltato a bordo. Lou è stato il primo a chiamarmi per dire: «Se vuoi che suoni qualcosa sul disco, fammelo sapere». Ha invitato la mia band a partire in tour con lui in America. Mi supportava molto ed era sempre gentile. Lo erano tutti. Cale e Sterl suonano in entrambi i miei dischi, Sterling è anche entrato nella band.

Perché Lou ha licenziato Cale, secondo te? 

Onestamente non lo so. Se l’ha fatto, l’ho dimenticato. Credo avessero semplicemente litigato.

Capisco. Ho ascoltato delle registrazioni fantastiche dei live del 1969 al Matrix, a San Francisco, quando Doug Yule suonava nella band. Cosa ricordi di quel periodo? 

Ricordo che volevo inserire il timpano in alcuni pezzi, volevo un suono esplosivo. Colpire la cassa non mi bastava. Così siamo andati a comprarne alcuni. Era a New York, sono abbastanza sicura, e ce li siamo portati in tour. Beh, è stato un disastro. Non funzionava per niente. Forse li colpivo troppo forte, non erano concepiti per essere suonati in quel modo. È stata una grossa delusione. Per fortuna avevamo portato anche la cassa.

Non hai suonato nell’ultimo disco dei Velvet, Loaded, perché aspettavi un figlio. Nel film, Doug Yule dice che non averti aspettato è uno dei suoi rimpianti più grandi.
Una volta un giornalista mi ha detto: «Sai, persino gli altri della band dicono che avrebbero dovuto aspettare». Mi ha reso molto felice, sai?

Nel film dici che alcune canzoni di Loaded avrebbero avuto bisogno di te. Quali? 

Oh dio. Non ricordo nemmeno cosa ci sia in quel disco…

Sweet Jane? 

Sweet Jane, sì. Non ricordo la versione di Billy, ma probabilmente era uno di quei pezzi… Sai, lui è tecnicamente molto più bravo di me. Ma il feeling delle mie performance era diverso. Non dico che fosse meglio. Alcuni dicono che era meglio lui, ne sono sicura. A me piace che la batteria sia quasi un sottofondo, non mi piace che sia troppo invadente, non mi piace colpire i piatti. E dio, odio quei batteristi che ne usano a decine!

Nel 1990 o 1991 stavo lavorando su delle vecchie canzoni di alcuni girl group, e un amico di San Francisco mi ha girato un cassetta con quel materiale. C’erano 90 minuti di musica di gruppi così, cose che non avevo mai sentito. L’ho messa su e dopo una mezz’ora ho realizzato che non c’era neanche un colpo sui piatti! Neanche uno.

Tutte le canzoni che amo degli anni ’50 e ’60… nessuno suonava con tanti piatti, averne due era già molto raro. Forse si usava un piatto e il charleston. Una delle mie canzoni preferite, se parliamo di produzione, è River Deep, Mountain High, di Ike e Tina Turner. Non credo che ci siano piatti lì. È quella la musica che amavo e che ascoltavo. Forse è per questo che odio i gruppi pieni di crash, bang, bang! (Ride)

Hai visto la band suonare senza di te, nell’estate del 1970. Era al Max, pare che fosse l’ultimo concerto di Lou con i Velvet.
Non so se era davvero l’ultimo. Ma ricordo che durante la pausa tra i set aveva detto che voleva parlarmi. Ci siamo seduti su una scalinata e ha detto che avrebbe lasciato la band. Forse mi aveva spiegato perché, ma non lo ricordo. Forse ero troppo triste, sotto shock, per ascoltarlo davvero.

Poco dopo Lou è tornato dai suoi genitori, a Long Island, e ci è rimasto per un po’. Vi siete visti in quel periodo?
Non l’ho visto per diversi anni, faceva le sue cose e io lavoravo. Ma non c’è mai stata rabbia tra di noi. Poi ho fatto i miei piccoli dischi, l’ho visto spesso a New York, ci andavo spesso da qui, in Georgia. Ci vedevamo sempre. E poi ci sono state le varie reunion dei Velvet.

I tuoi nipoti ascoltano la band? Guarderanno il documentario insieme a te? 

Sì, andremo tutti a una proiezione ad Athens, qui in Georgia. I miei figli, le mogli e i tre nipoti.

Athens dovrebbe darti le chiavi della città, considerando l’influenza dei Velvet sulla scena locale, dai R.E.M. in giù. Hai intenzione di tornare a fare musica, in futuro? 

Non credo. Quando mia madre era ancora viva, si occupava dei ragazzi ogni volta che mi veniva voglia di fare qualcosa. Ora sono io a prendermi cura dei nipoti, quindi non posso. Ma non ne soffro più di tanto, mi sono divertita un sacco con la band. Davvero tanto.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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