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L’intervista a Vasco: «Alla fine mi è toccato vivere. Ed è stata durissima»

Scrive canzoni per gioco, fa i dischi per scherzo, poi sale sul palco e fa sul serio. Ma ne era convinto: sarebbe morto giovane, da vera rockstar. Invece è ancora qui
La foto di copertina realizzata da Giovanni Gastel e ispirata a “Ritratto di Monsieur Bertin” di Jean-Auguste-Dominique Ingres

La foto di copertina realizzata da Giovanni Gastel e ispirata a “Ritratto di Monsieur Bertin” di Jean-Auguste-Dominique Ingres

Seduto sul sedile posteriore di una berlina nera, sfreccio nella campagna che circonda il luogo nel quale Vasco Rossi si ritira prima dei tour. Va a fare ginnastica, si rimette in forma, fa le prove con la band. Siamo a Sud, fa insolitamente caldo per un pomeriggio di maggio. All’improvviso il boato di una squadriglia di Frecce Tricolori si spara inconsulto sulla macchia mediterranea giallognola e già semiabbrustolita. Probabile che almeno 3 dei 4 piloti siano fan di Vasco. E così gli operai che riparano la strada. Probabilmente anche l’anziano contadino che suda in bicicletta con la sua cassa di frutta fresca sa chi è Vasco. Vasco unisce cose distanti, è una specie di papa, suo malgrado forse, ma tant’è. È uno di quelli che non possono girare per strada.

Vasco unisce cose distanti, è una specie di papa

Insomma, siamo dalle parti dell’istituzione. Ma Vasco è certamente l’istituzione meno istituzionale di tutte, e anzi ha del miracoloso il suo essere sopravvissuto nell’Italia ancora prevalentemente ipocrita e bigotta degli ultimi 30 anni. Un miracolo. Che va oltre la ventina e più di canzoni perfette che ha scritto e cantato nella sua carriera e la cinquantina che tutti riconosciamo dopo 4 battute.

Arrivo in una specie di resort immacolato e silenzioso, lontano da tutto. Se ci fosse una collina potremmo essere a Los Angeles, il caffè che mi viene servito mentre attendo the rockstar mi ricorda che siamo in Italia. Vasco arriva. È in forma, ha il pizzetto, un cappelletto in testa, gli occhi azzurro ghiaccio che ti guardano gentili. Mi mette subito a mio agio (e non è facile mettermi a mio agio, fidatevi). Gli dico di quel che ho pensato andando all’appuntamento e lui subito attacca a chiacchierare.

Io ero programmato per morire giovane, come ogni rockstar che si rispetti. Al massimo a 35 anni. Io facevo solo quello: scrivevo canzoni e facevo concerti. Tutto quello che stava intorno non mi interessava. Ed ero pronto a morire sull’altare del rock’n’roll. Poi mi son ritrovato vivo. Ed è stata durissima. Sarei curioso di vedere Kurt Cobain cosa avrebbe fatto se fosse rimasto vivo.

Beh sì, meglio rimanere vivi.
Ma, insomma, è uguale. Non è tanto importante quanto vivi, ma come. Io spingevo molto sull’acceleratore. Non dormivo mai. Io ho vissuto il doppio di vita. Bruciavo la candela da tutte e due le parti. Una notte mi sono addormentato mentre guidavo e sono finito dritto contro un albero. Incidente spaventoso e io non mi sono fatto niente.

Cazzo, potevi addormentarti sul divano.
Si vede che io non dovevo morire giovane.

Sei tipo un supereroe, di quelli che cadono da cento metri e rimbalzano come Wile E. Coyote, vivi e vegeti.
O forse ho fatto un patto col diavolo.

Mmm. Il diavolo l’ha fatto con te, forse. Comunque non sei morto e sei diventato un’istituzione. Come vivi questo fatto? Cioè, c’è il papa e poi c’è Vasco. Anche chi non ti sopporta, ti conosce.
È vero, sì. È così. Mi son ritrovato ancora vivo, non so nemmeno come. E allora, dopo la vita spericolata, mi son trovato lì a cercare di capire che cazzo fare. Ho passato due anni a non riuscire a scrivere canzoni. Poi, come un miracolo, in una notte ho scritto una decina di canzoni – Lunedì, Domenica lunatica… Mi son messo a giocare e scherzare e sono uscite le canzoni nuove. Ho dovuto ritrovare la voglia di scrivere per gioco. Io scrivo le canzoni per gioco, faccio i dischi per scherzo, poi salgo sul palco e faccio sul serio.

Tutto quello che volevo dire l’ho detto nelle canzoni

Questa me la segno. Ma come hai fatto a mantenere questa leggerezza, con tutto quello che hai passato. Io te la invidio. Se mi dici da dove arriva…
Devo prendermi poco sul serio.

E ho capito, ma appena parli, poi, tutto il mondo sta lì ad ascoltarti come se fossi il papa, appunto.
Io cerco di mantenere un contatto con la mia istintività, provo a rimanere quello che sono. Se vi va bene, bene, altrimenti chi se ne frega. Tutto quello che volevo dire l’ho detto nelle canzoni, è un diario. Ho raccontato tutto quello che vedevo, tutto quello che mi stava sul cazzo, volevo provocare reazioni. Quando una canzone provoca, crea una reazione, ti tiene sveglio. Io volevo tenere sveglia la gente. La mia idea non era altro che fare i Rolling Stones. Lo sberleffo. La linguaccia. Giocare a fare la rockstar. Erano finiti gli anni ’70, c’erano i cantautori, che non mi dicevano molto, non facevano spettacolo. Io volevo la band, il concertone, la gente che suona. Nei primi anni ’80 mi prendevano per matto vero, mentre io stavo solo giocando. E ora, guarda un po’, mi prendono sul serio. Ma io sto ancora giocando.

Un bel casino…
Eh sì. Rimanendo vivi, purtroppo un po’ si matura. Anche se non vuoi, devi maturare. La consapevolezza è un disastro.

Ma sì, meglio essere un gabbiano. Più sai, più soffri. Leggevo Piperno che parlava di Montaigne a proposito del fatto che è totalmente irrazionale avere paura di cosa c’è dopo la morte e non di quello che c’è stato prima dell’inizio della nostra vita. Tanto vale non aver paura di niente, il vuoto lo abbiamo già passato prima di nascere e manco ce ne siamo accorti…
Ah, questo è interessante. Il fatto è che, rimanendo vivi, arriva la consapevolezza. A tonnellate.

Come dici in un pezzo del disco: “Ho solo qualche multa da pagare, qualche pastiglia e qualche rospo da ingoiare…” ( da Sono innocente, ndr). Non so chi possa pensare di non sottoscriverla, questa…
Ci si riconosce un po’ tutti per forza. Siamo molto più simili di quanto crediamo. Noi ci differenziamo per via della coscienza, ma l’inconscio, quello è uguale per tutti.

Run ti the Hills – Vasco e la corsa: «Ero sicuro che sarei morto al massimo a 35 anni. Poi invece, sono rimasto vivo e mi tocca correre»

È a queste cose che pensi mentre ti alleni prima dei concerti, qua, nell’oasi di Vasco.
Il concerto sarà una bomba e quindi devo allenarmi. Io sono un professionista, sai.

A vent’anni mica ti allenavi però.
Ma va, ero sicuro che sarei morto giovane, te l’ho detto. Poi invece son rimasto vivo e mi tocca correre. Io odio correre. È un sacrificio enorme. Ma lo faccio, perché poi sul palco devo spaccare tutto.

Guarda, quando sei lì sul divano e c’è la vocina che ti dice “alzati e vai a fare sport”, basta che ti concentri e poi passa, e puoi rimanere sul divano.
Ah ah ah. Magari. Io non posso. Io devo fare i concerti rock, cazzo. E quindi devo correre. E pensa che, all’inizio, mi consideravano uno che non faceva rock perché avevo scritto Albachiara. Ma anche quello è rock.

Sì, poi ci sono i pezzi che stanno in mezzo, tipo Siamo solo noi e Vita spericolata, che sono queli che mi piacciono di più…
Sì, quelli sono perfettamente in mezzo.

Siamo solo noi… Quel “noi” ha voluto dire tantissimo per tanta gente.
Sì, quando l’ho scritta me ne sono accorto subito.

Ora hai fatto un disco che ha robe quasi heavy metal. Un po’ rischioso, anche.
Ma sì, io gioco e mi metto in gioco. Fin dall’inizio ho provato a fare rock, poi col tempo mi sono indurito.

Quindi entro dieci anni farai un disco noise…
Ah ah ah. Magari sì. Io adesso ascolto un sacco di heavy metal.

Ah, tipo i ragazzini. Beh questa è una figata. Visto che non sei morto, riparti dall’adolescenza, al posto che ripartire dal Vasco maturo e sopravvissuto. Forse anche perché altrimenti ti rompi i coglioni.
Sì, altrimenti mi annoio. Devo fare cose diverse.

Torniamo un attimo sul disco. C’è questo verso: “Cazzo, che attacco di panico alla mattina così presto… l’importante è che non se ne accorga la gente…” (da Duro incontro, ndr). Potrei metterci la firma.
Ah, vabbé, allora sei uno di noi. Sembravi così serio…

Ecco appunto. Sembravo.
Quindi anche tu hai questi duri incontri con te stesso la mattina.

E non ho nemmeno scritto Albachiara, capisci? Il punto in cui mi riconosco è soprattutto quello sull’importanza che non se ne accorga la gente. È una cosa di cui dobbiamo tutti liberarci. Comunque, quello che penso è che tu esci dalla lotta con te stesso solo quando sei sul palco. Lì ti riunisci e non c’è più Vasco contro Vasco.
Sì. Quando comincia la musica poi tutto torna. Non so spiegarti, non so cosa succede, ma tutto torna. È un viaggio, butto fuori tutto, anche le paure e le debolezze. Quando cominci a condividere le tue paure e scopri che c’è un altro che ha la stessa paura, allora stai meglio. Stai veramente male, quando pensi di averla solo tu.

Diciamo che ne hai scritte un bel po’ di canzoni su questa fragilità. Insisto. Non sarebbe male provare tutti a vergognarci meno di quanto siamo, in fondo, fragilini. Tutti.
Io mi sono sempre messo gli occhiali da sole. Perché poi scoprono che non sei normale, poi ti legano.

Anche questo è vero. Non ti hanno lasciato manco stare male in pace. Poi certo, tu ci hai messo del tuo quando ti ha preso la mania di Facebook…
Ah dici?

Beh, vedi tu!

Si ride. Ecco, una cosa importante, con Vasco si ride tutto il tempo. Mi viene in mente adesso, dopo quasi un’ora di chiacchierata. Ho di fronte davvero un uomo che ne ha viste tante. Ma tante. Ma tante. E ancora gli interessano un sacco gli esseri umani. Arrischio un’incursione nel romanzo di formazione. Gli chiedo com’era da piccolo.

Le prove generali a Castellaneta, Vasco si prepara duramente per dare il massimo sul palco. Scrive canzoni per gioco, fa i dischi per scherzo, poi sale sul palco e fa sul serio

Ero vivace. Ma non mi hanno dato il Ritalin. Forse è per quello che non mi sono sparato come Cobain. Anzi. A 12 anni mia madre mi ha mandato a fare un concorso canoro. Si chiamava l’Usignolo d’oro, a Modena. Tipo lo Zecchino d’Oro ma senza la tv. Una roba di paese fatta per le mamme. Vestivano i bambini, gli facevano la banana in testa e via sul palco a cantare. Si divertivano le mamme, non i bambini. Io ero piccolo e indifeso, mia mamma mi ha preso e mi ha portato lì. In casa mi faceva cantare sempre le canzoni di Sanremo. Poi la domenica andavamo a pranzo dal nonno – cominciavamo a mezzogiorno e facevamo notte perché mangiavano un sacco, bevevano, ballavano e tutto quanto. Mia mamma poi diceva: «Dai Vasco, cantaci la canzoncina di Sanremo». Io allora salivo sul tavolo e cantavo la canzone di Sanremo, perché me lo diceva mia madre. Poi sono andato a Sanremo davvero…

E sei arrivato ultimo.
Ah ah ah. Capisci! Io ci sono andato solo per farmi notare, avevo bisogno di una platea nazionale e andai a fare il matto. “Così si accorgono di me”, pensavo. Era una strategia. Solo che poi hanno pensato che fossi un po’ suonato per davvero. Mentre invece io ero molto lucido.

Quindi è colpa di mamma.
Mia madre mi ha avuto molto giovane, aveva 18 anni e con la sua amica – l’Ivana, che mi faceva anche da tata – andavamo in giro a divertirci. Mi pettinavano per bene – avevo i capelli, poi essendo rimasto vivo li ho persi, fossi morto da rockstar, sarei morto con i capelli lunghi. E invece no, son rimasto qui e mi tocca di vedere tutto fino alla fine. È il mio destino e io amo il mio destino. Quindi avevo già avuto la mia dose di divertimento. Poi, quando stavo a Zocca a fare il dj di Punto Radio c’era Gaetano Curreri che mi inseguiva e voleva che mi mettessi a cantare, ma appunto io avevo già cantato abbastanza fin da quando avevo 12 anni e mi ero rotto i coglioni. Finché poi, per scherzo, abbiamo cominciato a fare delle canzoni, anche se io mi divertivo a fare il dj, perché speravo che poi sarei arrivato a mettere i dischi nelle discoteche. E, in effetti, di lì a poco ho cominciato a mettere i dischi nei locali. Mi son divertito un casino, è stato il periodo più bello della mia vita. Sono arrivati un sacco di soldi di botto e poca pressione. Meno celebrità e più sostanza. E un sacco di figa. Ed eccoci qua.

Eccoci qua. E adesso? Com’è la tua vita quotidiana? Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una lavatrice? Così, per tornare ad argomenti terreni.
Ah ah ah. No, no. Mai. Mai una volta. Non sono capace.

Vasco Rossi fotografato da Giovanni Gastel per “Le 100 facce della musica italiana” in edicola e in mostra a febbraio 2015. Il progetto fotografico è ora un documentario su Sky Arte

Come passi il tempo “vuoto” tra una cosa e l’altra?
Smanetto, gioco col computer – ora in realtà molto meno. Soprattutto leggo. Ultimamente leggo molto di psicanalisi.

Allora sei pronto per la prossima domanda. Non credi che sia ora di riprendersi il concetto di famiglia? Per me fare un figlio è stata l’esperienza più intensa che abbia mai avuto, altro che l’LSD. Cioè, a un certo punto, si scopre che la famiglia può essere una figata e non solo una parola riservata ai guardiani del perbenismo. Sono per la famiglia rock’n’roll, insomma.
Beh, l’hai vissuta come una sfida.

No, piuttosto come una cosa più forte di quanto mi aspettassi. E mi è piaciuto un bel po’. Reclaim the family!
Lo vedi che sei un tipo strano! La mia esperienza personale è stata questa. Io ho vissuto da solo per molti anni, facendo sempre quel che mi pareva senza avere dei legami e pensando solo alla musica. Quando poi mi son ritrovato vivo e non solo vivo, ma anche rockstar, e vivevo nello “Stupido hotel” ho pensato di voler cambiare e di provare a fare sia la rockstar che il padre di famiglia. E mi ci sono messo d’impegno. Mi ha aiutato molto Laura (Laura Schmidt, la compagna di una vita che Vasco ha sposato nel luglio 2012, ndr), è lei che ha il senso della famiglia. Poi la tua famiglia dipende da come sei fatto te, e quindi puoi avere una famiglia rock’n’roll.

Ipse dixit! Avanti tutta, allora.
Certo. È ovvio che la mia non è mica una famiglia normale.

E invece io penso che la tua sia una famiglia più normale di quelle perbeniste e ipocrite, no?
Ah forse sì. Mio figlio va a scuola tutti i giorni! Ci ho scritto delle canzoni su queste cose qui.

E comunque sei riuscito nell’impresa di non diventare saggio, di evitare la quasi inevitabile deriva da moralista rompicoglioni…
Ecco, questo mi piace. Non so come ho fatto. Si vede che non lo sono di natura.

Sai perché mi piace andare in giro qui nella natura? Perché non ti giudica

Mi par di capire che non ti piace giudicare le persone, ma piuttosto capirle. Almeno, io ho avuto l’impressione che tu oggi stessi parlando con me e non con il direttore di Rolling Stone…
Sai perché mi piace andare in giro qui nella natura? Perché non ti giudica. Invece quando incontri qualcuno, oooops, in un attimo sei sotto il giudizio. Poi per me è complicato. Perché mi porto sempre dietro Vasco Rossi, che nemmeno io so bene cosa sia, non so cosa aspettarmi. Arriva Vasco Rossi e io non so che fare, a volte. Quando mi guardano, io vedo nei loro occhi che stanno guardando qualcosa che non sono io. Non so bene che cosa stiano guardando. Una volta mi faceva anche impressione. Quando stavo chiuso in una macchina circondato da tanta gente che voleva Vasco Rossi, avevo paura che si rompesse la macchina. Poi ho visto che la macchina non si è rotta mai e mi sono tranquillizzato. Non che mi volessero picchiare. Mi vogliono toccare, mi vogliono abbracciare. Però sai com’è: quando sei in pochi è una festa, quando sei in molti è un casino. Stavo pensando proprio a come cambiamo a seconda della situazione. Pensa a due innamorati o due amici. Se sono da soli parlano un linguaggio che capiscono solo loro, si comprendono benissimo, quasi non devono parlare. Ne arriva una terza e subito si comincia a parlare del tempo. Poi c’è la musica, che è un altro linguaggio. Un concerto rock, soprattutto i miei ovviamente (ridacchia ironico), può creare un’energia, una magia, uno spettacolo potente. Nello stesso momento, condividere la stessa emozione in così tanti è una roba della madonna, una catarsi. È solo rock’n’roll, but I like it! Però hai capito, è una bella emozione: incontrarsi, magari mettersi in viaggio, stare insieme, poi finalmente arriva la musica che coinvolge tutti. Noi facciamo questo. Noi siamo i musicanti, io sono un umile mestierante e porto un po’ di gioia, noi facciamo solo quello, mica cambiamo la storia, ma non è poco.

Diciamo che, se mi piacesse una chiesa, sarebbe la chiesa della musica.
Sì. E il concerto è un rito di Comunione e Liberazione. Ci vediamo a San Siro.

Amen.

Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di maggio.
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