Vasco Brondi: «L'India è sempre stata la nostra via di fuga» | Rolling Stone Italia
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Vasco Brondi: «L’India è sempre stata la nostra via di fuga»

A quasi un anno dalla fine delle Luci della Centrale Elettrica, il cantautore mischierà letture e canzoni originali sul palco del Barezzi Festival, in uno spettacolo ispirato a un viaggio nel Paese asiatico

Vasco Brondi: «L’India è sempre stata la nostra via di fuga»

L’ultima volta che l’abbiamo incontrato, Vasco Brondi non aveva un piano. Il periodo delle Luci della Centrale Elettrica, il progetto che l’ha accompagnato per un decennio, era appena finito, e piuttosto che buttarsi subito in un’altra esperienza musicale, Brondi preferiva godersi quel momento d’indecisione, di possibilità. Poi, mentre si preparava a partire per un viaggio in India, è arrivato l’invito di Barezzi Festival e ha deciso di approfittarne e trasformare le letture di preparazione al viaggio in uno spettacolo. Abbiamo approfittato dell’occasione per contattarlo e fargli qualche domanda.

Vasco Brondi si esibirà il 15 novembre al Teatro Regio di Parma. Per tutte le informazioni su Barezzi Festival, visitate il sito ufficiale.

Perché proprio l’India? Com’è stata la tua esperienza e che influenza ha avuto il viaggio sullo spettacolo?
Avevo accettato questo invito mesi e mesi fa dimenticandomene poi completamente. Nel frattempo ho organizzato un viaggio in India e, fortunatamente, il rientro era previsto due giorni prima dello spettacolo.
 Mi è venuto naturale, avendo carta bianca, unire le cose che stavo leggendo e studiando in preparazione al viaggio e farle diventare questo reading/concerto. 
Mi interessa andare lì perché è un posto in cui c’è un tempio in cui si adorano i ratti, in cui non si disperano davanti alla morte, in cui migliaia di quelli che da noi sarebbero considerati pazzi mendicanti vengono venerati per strada e la gente si inchina ai loro piedi. 
Per quanto sia una potenza in incredibile crescita economica sembrano esserci degli anticorpi al fare diventare l’India un Paese completamente materialista.

Quali saranno le letture che porterai sul palco, e perché le hai scelte? Sono cose che hai scritto tu o passaggi di opere di altri autori?
L’India è sempre stata in qualche modo anche nell’immaginario italiano, come una nostra via di fuga. Penso per esempio agli anni ’70 e a quanti, fallita la rivoluzione sociale e culturale e sciolti tutti i movimenti dell’autonomia, siano spariti da quelle parti. 
Migliaia di ragazzi e di ragazze. Chi avrebbe voluto sparire su un altro pianeta andava in India che era la soluzione più simile. Leggerò testi presi dai resoconti di viaggio meravigliosi di Pasolini, Moravia, Terzani, Flaiano, Folco Quilici e qualcosa che ho scritto apposta. Mischiando il tutto a mie canzoni e a canzoni di altri stravolte per l’occasione.

So che il progetto è stato costruito appositamente per Barezzi Festival. Hai intenzione di riproporlo in altri contesti? Questa incursione indiana potrà influenzare i tuoi prossimi progetti?
Intanto lo farò lì poi vedremo, ho sempre qualche difficoltà a prevedere il futuro.

Musicalmente parlando, quali sono le coordinate musicali dello spettacolo?  Chi ci sarà con te sul palco? 
È uno spettacolo minimale che è una dimensione che amo particolarmente. 
Saremo solo io e Andrea “Cabeki” Faccioli come polistrumentista. Essere in due permette di concentrarsi sui dettagli, di fare prove senza che le orecchie ti fischino per giorni, di suonare in luoghi raccolti e più intimi guardandosi negli occhi, di girare in treno e non in cinquanta persone con furgoni e tir. 
Che è una cosa bella anche quella ma che alla lunga mi sfinisce e mi mette una certa pressione che quando posso mi evito volentieri. 
Situazioni come questa sono uno spazio di libertà che mi piace sempre riprendermi, anche il mestiere di musicista può diventare una corsa senza fine e senza senso all’espansione e cerco di chiamarmene fuori ogni tanto facendo quello che mi va di fare in quel momento. 
Anche musicalmente è l’India vista dall’Emilia, ci sono mantra con le parole in italiano, parti di sitar suonate con la chitarra elettrica. Ad Ariano Polesine in provincia di Rovigo, a qualche decina di chilometri di Ferrara, si è trasferito un Lama tibetano che prima viveva a Bristol e prima ancora è stato sei anni in un carcere cinese in Tibet, è riuscito a scappare in India facendosi l’Himalaya in ciabatte, è una persona speciale. 
Una volta sono andato a casa sua e ha tenuto una meditazione nella corte di questa ex casa colonica in cui vive e invece degli incensi attorno a lui aveva messo degli zampironi per tenere lontane le zanzare. 
Questo spettacolo mi è venuto in mente un po’ in quel momento. 

C’è un collegamento tra l’India e il tuo interesse per yoga e meditazione? Come ti sei avvicinato allo yoga e alla meditazione, e che cosa intendevi quando hai detto che ti piace “il pragmatismo” di queste arti?
Sicuramente è un luogo speciale anche per quella tradizione, non che per meditare o fare yoga sia indispensabile andarci. 
Negli ultimi anni queste pratiche sono diventate una parte importante della mia vita e del mio tempo, scherzando con gli amici diciamo che se suonassi la chitarra quanto pratico yoga adesso sarei Santana… invece… 
In particolare negli ultimi cinque anni ho studiato molto, fatto molti ritiri, viaggi, seminari, scuole, diventando nel tempo insegnante sia di yoga che di meditazione e creandomi anche un po’ un’altra vita rispetto alla musica, anche se poi tutto per me torna nelle canzoni. 
C’è un posto, un paesino alle Canarie, in cui passo ogni anno un periodo più o meno lungo dove insegno yoga.
 Li non mi conosce nessuno, lì mi sono proprio fatto un’altra vita tipo ex terrorista in incognito e anche a Ferrara ho ristrutturato il mio studio di registrazione e in una sala scrivo, suono e registro, mentre l’altra stanza è diventata una sala di yoga e meditazione dove tengo un gruppo un paio di volte a settimana quando sono lì, grazie ai miei amici del Karam Khand Yoga Shop di Bologna che l’hanno allestita assecondando questa follia. 
In realtà tutto questo è molto vicino all’arte, a tutto quel mistero, al permetterti di pescare “in acque profonde” come dice David Lynch che è un meditatore da decenni anche se lui pratica la meditazione trascendentale io la vipassana. 
Ho sempre un certo pudore a parlarne, ma non è niente di particolarmente esoterico o fricchettone. Abbiamo sempre meditato anche in Occidente, penso ai filosofi greci come Epicuro o Aristotele e ai mistici cristiani anche se poi nella religione cattolica questa pratica è di fatto sparita, in Italia la porta avanti Padre Bormolini. 
Anche Epicuro diceva che i bisogni essenziali sono facili da esaudire, sono quelli inutili che sono impossibili. Alla fine si tratta di cercare di conoscersi intimamente invece che assecondare le pressioni sociali che ci portano a comprare, a cercare di cambiarci non sentendoci mai abbastanza o mai soddisfatti. Ha la controindicazione che può portare a fregartene un po’ di più di tutto il mercanteggiare circostante. 
Cartesio diceva “penso dunque sono”, qui si dice “sento dunque sono”. Sentire il corpo, il respiro, è strano che ci sembri normale sapere cosa succede in un paesino del Giappone e non sapere perché abbiamo sempre mal di testa. Tich Nath Han lo chiama “il miracolo della presenza mentale” che è il titolo di un piccolo libro in cui c’è già tutto. 

In un’intervista hai detto che nella solitudine c’è creatività. Oggi, però, viviamo in un’epoca in cui la solitudine è stigmatizzata, quasi un sintomo di un disagio sociale. Ti sei mai vergognato della tua necessità di stare da solo? E come hai fatto a liberartene?
Deleuze dice che “il problema non è più quello di fare in modo che la gente si esprima, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire”. 
La cosa che mi colpisce di più di questa domanda è proprio anche solo l’ipotesi che ci si possa vergognare per la necessità di stare da soli o per il suo opposto. Dipendiamo dall’approvazione degli altri fino ad arrivare a pensare di doverci vergognare per volere stare da soli o per rispettare qualsiasi altra necessità che sentiamo. 
La scoperta del punk da ragazzino per me è stata molto salutare perché mi ha fatto capire che non dovevo vergognarmi di niente, anzi che più facevi schifo meglio era. È stato molto liberatorio, i difetti diventavano bandiere, non bisognava essere perfetti, puoi gridare chi sei. Passa per essere un movimento autodistruttivo invece per me e i miei amici allora è stato la cosa più salutare che potessimo incontrare. 

Hai citato una frase di Bob Dylan: “Bisogna stare attenti nel mettere sul piatto quello che decidi di vendere, perché poi non te lo puoi più ricomprare”. C’è qualcosa che hai messo sul piatto e di cui ti sei pentito?
Non mi pare, anzi forse sono stato anche troppo attento. Forse la soluzione è la generosità. Forse davvero, come dicevano gli ambulanti, non siamo qui per vendere, ma per regalare… Se poi la società decide che quello che fai gli può essere utile allora a volte ti ci riesci anche a mantenere. 

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