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Vasco Brondi: il pop in cerca di realtà

Il nuovo lavoro delle Luci della Centrale Elettrica è la visione cruda della realtà, di quello che c’è e che va accettato. con una certezza: il successo maggiore è la libertà di dedicarsi del tempo

Vasco Brondi - Foto di Ilaria Migliocchetti Lombi

Ve lo diciamo subito, Vasco Brondi ha fatto un disco bellissimo. Il che rende più piacevole la nostra chiacchierata, a cui mancano solo un paio di cose. La prima è che Vasco è oggi la nota rumorosa che unisce Jovanotti a Giovanni Lindo Ferretti (a lui non l’ho detto, per imbarazzo). La seconda è che ho scoperto che a Milano io e lui siamo svegliati dalle stesse campane. Suonano alle 8 in punto, ma noi ci troviamo per un caffè poco prima di mezzogiorno. Ce la siamo presi comoda, insomma.

Ho ascoltato il disco, ma solo ieri ho letto il diario che lo accompagna. Mi ha stupito ritrovare tra le influenze di Terra il pezzo di Jovanotti con Bombino. Più di un tuo nuovo pezzo mi aveva ricordato i Tinariwen.
Si alza il vento è uno dei miei preferiti degli ultimi anni. Jovanotti scrive testi con tanta facilità, che quasi non cogli del tutto la loro bellezza. Il mio disco deve molto al lavoro che ho fatto con Jovanotti, dall’aprirgli i concerti allo scrivere con lui L’estate addosso, ho imparato tanto, soprattutto sul processo creativo. Nel suo lavoro si sente una vita di scrittura in metrica, cosa che a me riesce difficile. Io sono sempre partito da testi lunghi per poi limarli. Per Terra ho lavorato per la prima volta soprattutto sulla metrica.

Hai utilizzato spesso delle frasi che si richiamano l’una con l’altra, capaci di tenere la canzone anche senza ritornelli…
È vero, ho esplorato le varie possibilità della forma canzone, in particolare ho preso questa tecnica da Dylan, un maestro a chiudere le canzoni “in cerchio”.

Rispetto a Costellazioni, hai lavorato in “sottrazione”, spogliando il testo da tutte le figure retoriche che usavi in passato…
Sì, non solo nei testi, ma anche nei suoni, ed è stato un lavoro in più, non in meno.

Vivendo a Milano, pensi di essere stato influenzato dalla città? Io l’ho notato soprattutto in due canzoni, in Chakra e Iperconnessi.
È stata una scrittura “itinerante”. Ma Chakra l’ho scritta totalmente a Milano, e pure Viaggi Disorganizzati. Di Milano penso che sia un “enorme conglomerato di eremiti”, come la descriveva Montale. Negli ultimi due anni che ho vissuto qui fisso, da solo, mi sono sentito parte di questo conglomerato, pur avendo molto amici, sentivo anche un certo isolamento. Così poi ho deciso di tornare a casa, a Ferrara.

Vasco Brondi, foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

 

Ricordo un tuo concerto a Milano più di 10 anni fa, non avevi ancora inciso un disco. Avevi un banchetto in cui vendevi i tuoi demo su Cd-R.E in quella serata suonava anche Dente, dopo di me. Faticammo ad avere quella data, non ci pagarono e ci lasciarono gestire tutto. Arrivò molta gente e fu un successo per noi strepitoso, anche se probabilmente c’erano 35/40 persone. Ci mettemmo in tasca 200 euro a testa, credevamo di aver fatto chissaché. Lì varcai la soglia del surreale che non mi ha più abbandonato facendo questo lavoro, dove tutto può improvvisamente diventare possibile.

Nel diario che accompagna il disco scrivi: “Mentre io, dai miei trent’anni, mi godo la situazione di ‘ex nuova promessa della musica italiana’ che con il mio pop impopolare sono riuscito a non mantenere”. Ci ho letto un po’ di fiero compiacimento, o sbaglio?
È un passaggio abbastanza ambiguo e controverso, quindi ci tengo a spiegarlo. Era nata come battuta. Parto dal presupposto che per me la vita di adesso, il modo in cui lavoro, è l’immagine del successo maggiore che si possa avere: riuscire ad avere dei grandi spazi intimi, che non sono intaccabili dal lavoro e dalla musica che per anni si è presa tutto di me. Mi piace molto l’idea di sapermi fermare senza essere trascinato dalla corrente. L’anno scorso, ad esempio, mi sono preso la libertà di fare un tour in posti da 200 persone, senza preoccuparmi di dover essere il criceto che continua a correre sulla ruota, una corsa senza senso e senza fine.

A cosa ti è capitato di dire di no?
Tante piccole cose di cui uno si dimentica. Tipo quando cercavano i giudici di X Factor… Non era il mio mondo, io non so far altro che il topo da biblioteca e scrivere canzoni (ride).

La sensazione che si ha ascoltando molti tuoi brani è che tu, un po’ come fanno i social, applichi un filtro: ad esempio quando parli dei barconi, della guerra in Siria, mi chiedo se sia una situazione cosciente quella di vivere l’esperienza filtrata solo dai media, come se fosse un’eco che ci arriva da lontano…
Ci ho riflettuto tanto. Mi sono trovato in totale contraddizione con me stesso: da una parte sono convinto che quello che ci passa attraverso uno schermo o un giornale non sia davvero un’esperienza, ma sia già filtrato. Allo stesso tempo, mi sono accorto che, quando ho iniziato a scrivere questi temi, ce li avevo dentro, li sentivo con una profondità inimmaginabile.

Ho pensato che ci siano delle tematiche “impegnate”, ma volutamente rese accessibili.
Nel mio caso bisogna tenere conto che comunque si parla di canzoni pop di 3 minuti – per quanto sia “pop impopolare”. Penso che non ci sia bisogno di far pesare le proprie canzoni, io ci metto dentro me stesso, quello che ho letto e che fa parte di me, se poi qualcuno decide di approfondire quello che scrivo mi fa piacere. Io per esempio sono arrivato a Majakovskij tramite i fumetti di Andrea Pazienza.

Nel diario fai un accenno al mondo del rap italiano, le cui tematiche, scrivi, sono soprattuto droga o certe forme di machismo.
Non conoscevo molto il rap, sono stato avvicinato da Fede (Dragogna de I Ministri, ndr), che ha prodotto il disco e mi faceva ascoltare tantissime cose. Sento il gap generazionale con chi fa o chi ascolta questa musica, ho 33 anni, guardo i 20enni e non li capisco e questa cosa mi piace un casino. Io a 20 anni non avrei mai immaginato che un musicista potesse avere come sponsor adidas o simili, neanche esisteva il concetto di sponsor. Però vedo anche molta più libertà rispetto alle restrizioni auto-imposte o suicide delle scene degli anni ’90 di cui si sentiva lo strascico quando ho iniziato io, e dall’altra parte forse hanno anche altri tipi di recinzioni che io nemmeno conosco.

Vasco Brondi, foto di Ilaria Magliocchetti Lombi


Per RS ho intervistato Ghali, gli ho chiesto quali autori italiani ascoltasse e il primo che ha citato sei stato tu.
Non lo sapevo, sono già una cosa vintage! Come se io dicessi la PFM (ride)… Fede mi ha fatto vedere la canzone con quel video nel deserto in cui Ghali canta in arabo (Wily Wily), è bellissima, una bomba.

Rispetto a Costellazioni sei meno catastrofista. Sarà anche l’età?
In Stelle Marine, o anche in Moscerini è come se ci fosse una prospettiva che ci guarda dall’alto. Per me questo ha a che vedere con la realtà, Terra significa proprio la realtà della Terra, del pianeta che ci sostiene e che può accettare tutto finché non lo si disintegrerà. È la prima volta che ne parlo a voce ed è ancora difficile per me metterlo a fuoco. Nel profondo Veneto è una canzone che ha un che di stupido e un che di drammatico, è forse un pezzo minore del disco, ma lo amo: si parla del crollo delle illusioni che può essere molto benefico perché quello che resta è la realtà. Questo disco è sulla realtà ma non su quello che succede, bensì su quello che c’è, sull’accettare ciò che c’è senza scappare. Solo così si può cambiare qualcosa.

Ci sono anche diverse opinioni su cosa sia “realtà”. Anche Sanremo è realtà, giusto?
Sanremo è una di quelle cose su cui non esprimo un giudizio, semplicemente non è la mia realtà. Abbiamo a disposizione non tantissime cose e una di queste è l’attenzione e la concentrazione. Esiste il lavoro quotidiano, che è il vero motivo per cui uno suona. Per chi lo fa di mestiere non ha tanto senso seguire Sanremo o X Factor, o leggere le riviste musicali o ascoltare troppa musica.

Cos’hai ascoltato per questo disco?
Le cose che ho sempre ascoltato, e che so a memoria, Dylan e Cohen certamente, ma più di tutti CSI, De Gregori e Battiato. Dopo anni in cui mi sono sforzato di sentire le novità solo perché ne parla Pitchfork, ho capito che invece non me ne importava un cazzo, nemmeno mi arrivava, forse perché sono troppo ignorante musicalmente. Mi sentivo una balalaica di De Gregori e per me quella è musica, il resto no, sapere quello che esce o che non esce non mi interessa. Per carità, i Tinariwen mi sono piaciuti tantissimo, mi è piaciuto moltissimo l’ultimo di Damon Albarn, quel disco di Amadou & Mariam in cui c’è anche Bertrand Cantat l’ho consumato, mi piaceva molto sentire cose che mi ricordavano altri posti. Ho girato molto con Massimo Zamboni, abbiamo fatto un libro e uno spettacolo assieme e lui in un’intervista, parlando della musica contemporanea, diceva che ascoltandola riusciva a immaginarsi solo una persona davanti a un computer mentre la componeva, invece la musica dovrebbe essere un mezzo di trasporto velocissimo. Ascoltare musica etnica mi portava in altri posti, come se facessi un viaggio stando a Milano. E poi ritrovarmi a casa con la musica con cui sono cresciuto.

Dei dischi italiani contemporanei che cosa ti piace?
Il nuovo disco dei Baustelle mi è piaciuto molto, e poi Enzo Avitabile, mi piace tantissimo, da Black Tarantella in poi.

E il nuovo pop italiano de I Cani, Calcutta, Thegiornalisti?
Non ho sentito a sufficienza per parlarne, però apprezzo molto il fatto che sia passata la paura oppressiva di una scena da cui non potevi uscire. Fanno pop ed è buono e questo è un successo per tutto. Fino all’altro giorno c’era Eros Ramazzotti e basta. È bello che le radio stiano cambiando i propri standard, perché alla gente piace quella roba lì. Mi sembra che abbiano fatto tutto da soli e a modo loro e questo funziona meglio di ogni strategia.

Cosa pensi se riascolti il tuo primo album (Le Luci della Centrale Elettrica, 2007, autoprodotto, ndr)?
Thom Yorke, che è uno dei più tormentati, dice che quando riascolta le sue cose gli sembra di rivedersi in una foto vecchia con una brutta pettinatura (ride). Io le mie cose non le ascolto più da anni, ma è come se fosse una foto tessera molto dettagliata di me, dei miei 20 anni e di quel periodo; allo stesso tempo è una cosa passata, una cosa di cui mi sono liberato, che è ormai fuori di me. Credo che questo sia la funzione della musica, riuscire a esprimersi e a liberarsi di qualcosa.

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