Va bene Woodstock, ma quella del 1969 è stata anche una ‘Summer of Soul’ | Rolling Stone Italia
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Va bene Woodstock, ma quella del 1969 è stata anche una ‘Summer of Soul’

Nel documentario candidato all'Oscar e disponibile su Disney+, Questlove racconta l'Harlem Cultural Festival. Cancellato dalla memoria, è stato invece un momento chiave, musicale e politico, per la comunità nera

Va bene Woodstock, ma quella del 1969 è stata anche una ‘Summer of Soul’

Sly Stone all'Harlem Cultural Festival

Foto: Mass Distraction Media

L’estate del 1969 è ricordata da tutti come quella di Woodstock, che ha letteralmente eclissato dalla memoria qualsiasi altro evento musicale occorso in quell’anno. Tant’è che molti sono rimasti basiti nello scoprire che in quegli stessi giorni, nella centralissima New York – più precisamente in un parco nel cuore di Harlem – ha avuto luogo un festival gratuito, affollatissimo e andato avanti per settimane, con una line-up che definire stellare sarebbe riduttivo: Stevie Wonder, Nina Simone, Mahalia Jackson, Sly and the Family Stone, B.B. King e molti altri ancora. Tra coloro che non conoscevano l’esistenza dell’Harlem Cultural Festival, questo il suo nome, c’è anche Ahmir Questlove Thompson, batterista dei Roots, dj, produttore, critico, studioso; a detta di chiunque, uno dei più profondi conoscitori della musica nera, americana e non.

«La prima volta che mi sono imbattuto in qualche fotogramma del festival è stato a Tokyo, negli anni ’90» ci racconta in collegamento via Zoom dalla sua Philadelphia. «Ho visto in tv un paio di minuti di un live di Sly and the Family Stone, ma ho pensato che si trattasse di un’esibizione europea. A metà degli anni ’60 non c’era ancora la cultura dei festival in America, e quasi tutte le band dovevano andare oltreoceano per suonare in quei contesti».

Vent’anni dopo, alcuni produttori lo hanno contattato per dirgli che avevano ritrovato circa 50 ore di filmati delle performance dell’Harlem Cultural Festival, in condizioni perfette, e se era interessato a visionarli o a diffonderli in qualche modo. «All’inizio ero molto scettico: pensavo di sapere tutto della musica, ma di questo fantomatico festival non avevo proprio mai sentito parlare», ammette lui. «Non riuscivo a credere che potesse essermi sfuggito, o che quei filmati potessero davvero essere rimasti chiusi in uno scantinato per 50 anni».

Già, perché è proprio questo che è successo: di quei filmati, e del festival stesso, si erano perse del tutto le tracce. Tanto che alcuni degli spettatori che avevano partecipato all’evento da bambini erano convinti di esserselo addirittura sognato. Con il tempo, Questlove si è convinto che non si trattasse di una semplice dimenticanza o di uno strano scherzo del destino. Era come se qualcuno avesse voluto cancellare un’intera pagina di storia, quella della musica nera. Non a caso, in effetti, uno dei tasti più dolenti della line-up di Woodstock è che ha incluso praticamente solo musicisti bianchi, fatta eccezione per Jimi Hendrix, Richie Havens, Sly and the Family Stone e Carlos Santana. Ora, probabilmente, sappiamo il perché: erano tutti all’Harlem Cultural Festival.

I 5th Dimension all’Harlem Cultural Festival. Foto: Searchlight Pictures

Per spiegare questo e molto altro, il leader dei Roots si è imbarcato in un’impresa che non aveva mai tentato prima: la regia di un documentario, in cui oltre a utilizzare abbondantemente il materiale di repertorio ritrovato in quel famoso scantinato, intervista alcuni protagonisti dei fatti dell’epoca, tra musicisti e pubblico. Il risultato è Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised), che dopo aver fatto strage di cuori tra i critici, il pubblico e le giurie di svariati festival cinematografici, sbarca anche in Italia sulla piattaforma Disney+.

«Volevo essere sicuro che la storia della musica americana fosse raccontata in maniera corretta», spiega Questlove. «Quando mi hanno affidato questo progetto ero davvero nervoso, perché è un tipo di storytelling musicale che non avevo mai affrontato prima. Non avevo mai fatto un film, mentre per contro mi era già capitato di fare podcast, scrivere libri, tenere lezioni universitarie». A suo dire, la creazione di questo documentario è in parte un’azione politica, proprio come lo era la partecipazione di molti degli artisti in cartellone all’Harlem Cultural Festival. «Negli anni ’90 molti artisti neri hanno cominciato a diffondere un messaggio: “Non vogliamo essere degli esempi, non fate quello che facciamo noi”» dice. All’epoca, invece, si sentiva un fortissimo bisogno di usare la propria voce, creare dei modelli, mandare un messaggio, sostenere i diritti civili e il progresso dell’integrazione, anche con azioni apparentemente insignificanti come cantare una canzone su un palco, o ascoltarla da sotto il palco. Non a caso, uno dei momenti più commoventi è quello in cui il reverendo Jesse Jackson parla dell’amico Martin Luther King, recentemente scomparso, invitando la folla a ricordarlo con la sua canzone preferita, Precious Lord; una commossa diva del gospel Mahalia Jackson viene aiutata da una giovanissima Mavis Staples a intonare l’inno, e tutto il pubblico si unisce nel suo dolore.

Mavis Staples e Mahalia Jackson. Foto: Searchlight Pictures

La politica locale diede un grande sostegno all’Harlem Cultural Festival (il cui scopo primario, a detta degli organizzatori stessi, fu di offrire un po’ di sollievo alla martoriata comunità nera di Harlem durante anni caldissimi e spietati). Il sindaco dell’epoca, il liberale John Lindsay, salì più volte sul palco, accolto al grido di «our blue-eyed soul brother», il nostro fratello in spirito dagli occhi azzurri. Purtroppo, però, anche per poter garantire la gratuità della rassegna, restò un evento di quartiere, di fatto, con pochissime risorse disponibili: il palco guardava a ovest per supplire alla mancanza di illuminazione e sfruttare fino all’ultimo la luce naturale, e per molti eventi il servizio di sicurezza era fornito dal Black Panther Party. Nonostante le difficoltà e qualche tensione, fu un evento molto pacifico e istruttivo, che cercò di raccogliere tutte le sfumature possibili della musica nera, dal jazz al soul passando per il funk, il gospel e le nuove influenze brasiliane.

«Era un’esperienza per tutta la famiglia: c’erano genitori, bambini, nonni, giovani, tutti emozionati all’idea che avrebbero ascoltato Stevie Wonder o Nina Simone», racconta Marilyn McCoo dei 5th Dimension, uno dei gruppi che si esibirono e che arricchiscono Summer of Soul con la loro testimonianza. «Molti artisti della line-up erano già famosi e il fatto che il concerto fosse gratis lo rendeva ancora più speciale. Rivedere quelle immagini a distanza di così tanto tempo ne fa capire la rilevanza e la portata».

«Quasi non ci credevamo: abbiamo aspettato 50 anni che qualcuno saltasse fuori e ci dicesse “Ehi, sono io che ho i filmati di quella roba che avete fatto ad Harlem nel 1969!”» aggiunge ridendo Billy Davis Jr, un altro membro dei 5th Dimension. «Sapevamo di essere ripresi mentre eravamo sul palco, ma col passare del tempo avevamo quasi dimenticato che quel girato esistesse. L’atmosfera era fantastica. Anche se in America, in quel periodo, c’erano un sacco di casini, quel festival rappresentava una specie di ideale: un sacco di gente in pace e in armonia che ascoltava musica e si divertiva».

Foto: Matt Licari/Invision/AP/Shutterstock

Uno degli scopi che Questlove si prefigge è fare capire ai ragazzi di oggi lo spirito della musica dei tempi. «Quando faccio il dj, faccio caso a come reagisce la gente. E di solito i giovani trovano quasi ridicole alcune cose, ad esempio gli urletti di James Brown. Per loro sono primitive, esotiche. Vorrei che capissero erano gesti catartici e terapeutici, che si tratti di un cantante gospel che sente lo spirito santo che discende su di sé o un chitarrista rock che viene catturato dalla potenza di un assolo. Non erano pazzi, era un modo per curare la propria anima in un periodo in cui la comunità nera non aveva altri mezzi per farlo».

La cosa più importante, per lui, è però ridare dignità a uno dei festival più importanti degli anni ’60, e non solo a quello. «Mentre stavo completando il film, ho ricevuto una mezza dozzina di messaggi privati sui social in cui mi segnalavano diversi altri festival simili, che col tempo sono stati completamente dimenticati», racconta. «Credo che questo faccia capire più di molte altre cose che la narrativa della musica americana è stata manipolata, e che è stata operata la cancellazione di un’intera cultura. Noi neri abbiamo creato grandi cose, che poi sono state accantonate a impolverarsi in un angolo, perché per alcuni non erano degne di vedere la luce. Anche per questo, credo che fosse una mia precisa responsabilità morale fare questo documentario».

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