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Usare il rap per contrastare la dispersione scolastica

Storia di Picciotto, il rapper e operatore sociale che lavora coi ragazzi delle periferie di Palermo utilizzando l'hip hop come strumento di apprendimento. «La fortuna è una circostanza geografica»

Foto: Francesco Faraci

Il 9 marzo scorso, durante una conferenza stampa, il presidente della Commissione antimafia siciliana ha dato conto con grande preoccupazione degli ultimi dati sulla dispersione scolastica nella regione: dopo la pandemia ci sono zone in cui la percentuale di studenti che abbandonano degli studi sfiora il 65%. Il rischio è che i minori in questione vengano reclutati come bassa manovalanza dalla criminalità organizzata, ma questa è solo la punta dell’iceberg. Lo spiega bene Christian Paterniti, in arte Picciotto, che è appena stato insignito di una delle onorificenze più importanti di Palermo – diventando così una delle Tessere Preziose del Mosaico – dal sindaco Leoluca Orlando.

Picciotto si definisce «operatore sociale, rapper, padre» e da oltre 15 anni lavora con i ragazzi delle periferie più disagiate della città, utilizzando la musica hip hop come uno strumento di apprendimento. «In certi contesti conviene tenere le persone in stato di ricattabilità, e confinate in un mondo limitato», dice. «Così si crea una situazione di clientelismo e assistenzialismo, che forse fa ancora più danni della mafia: si scambia un sacrosanto diritto per un favore da chiedere a qualcuno». Per chi nasce e cresce lì, è sempre più difficile immaginare una realtà diversa. «Bisognerebbe fare una campagna culturale di educazione, in primis di educazione al bello, per insegnare ai ragazzi a vedere le potenzialità anche nelle aree più disastrate di Palermo. Gli abitanti devono essere protagonisti del cambiamento, non subirlo».

Picciotto, prima ancora che come artista, si è fatto conoscere in tutta Italia come educatore grazie al suo metodo di studio, una «didattica non formale» che aiuta a recuperare i cosiddetti drop-out students grazie al rap. Un metodo già sperimentato a Borgo Vecchio, «il quartiere con il più alto tasso di dispersione scolastica di Palermo. Con un gruppo di ragazzi che avevano abbandonato gli studi abbiamo lavorato a delle tesine in rima per l’esame di terza media. Molti di loro hanno un vissuto complicato e magari hanno già sperimentato anche il carcere minorile, e veicolare l’apprendimento attraverso la musica è un modo perfetto per farli imparare divertendosi. Ho visto con i miei occhi parecchie persone, casi ritenuti disperati, prendere il diploma rappando, come se gli orali fossero stati una battle di freestyle». Dopo aver cominciato a farsi conoscere come rapper nella sua zona, 15 anni fa ha cominciato laboratori di rap nel quartiere Zen 2. «Dopo i laboratori, andavamo in tour insieme: Napoli, Roma, Bologna. Vedendo le reazioni dei ragazzi ho capito che eravamo sulla strada giusta, e ho continuato: soprattutto oggi che il rap è così mainstream, credo che possa essere un connettore sociale importantissimo».

La sua storia è stata raccontata anche da Domenico Iannacone durante durante due puntate della trasmissione di Rai 3 Che ci faccio qui: la prima è andata in onda cinque anni fa, la seconda il mese scorso. «Iannacone è tornato a Borgo Vecchio per vedere che fine avevano fatto i “miei” ragazzi: la risposta è che nel frattempo sono diventati padri e madri, giovanissimi. Qui si diventa genitori presto, io stesso sono figlio di una fuitina e sono un padre relativamente giovane. A 17/18 anni, però, non hai gli strumenti per capire cosa sta succedendo: sei ancora un bambino, anche se ti stai prendendo delle responsabilità gigantesche. Gli operatori sociali qui diventano essenziali, perché vanno a fare da cuscinetto tra le richieste dei ragazzi e le mancanze delle istituzioni e della società». Ironia della sorte il programma di laboratori che Picciotto portava avanti da dieci anni nel quartiere non è stato rifinanziato e si è interrotto. «Io ho perso il lavoro, ma soprattutto si è perso un presidio che in quel luogo era fondamentale».

Per Picciotto, il rap ha ancora un’enorme valenza sociale. «Il rap aiuta a raccontare e a raccontarsi, ma anche a fare auto-analisi. Per un lungo periodo si è fatta più attenzione al contenitore che ai contenuti, ma finalmente oggi anche i top player della scena ricominciano a ragionare con un livello di maturità diversa. Forse i due anni di pandemia hanno lasciato il segno». Hanno lasciato il segno anche nel mondo dello spettacolo e dei live, altro punto dolente a Palermo, l’ultima città in Italia per indotto musicale. «È un luogo fatto di contrasti fortissimi, ma è vivo», osserva. «Oggi c’è tanta voglia di unire le forze, di eliminare i compartimenti stagni, facendo di necessità virtù. Si sta cominciando a capire, anche tra i più giovani, che la musica è un mestiere».

Ragion per cui Picciotto ha fondato di recente Lo Stato dell’Arte, etichetta/collettivo/incubatore che raccoglie numerosi talenti emergenti siciliani. «Nasce dall’esigenza di fare gruppo, per amplificare le singole individualità. Siamo tutti diversissimi, ma ci completiamo: quando mi chiedono che genere facciamo, rispondo: il genere umano. Abbiamo messo seduti allo stesso tavolo persone laureate al conservatorio e veri punkabbestia!». Lo Stato dell’Arte sforna quasi un’uscita a settimana, «perché molti di noi siamo accomunati da una cattiva esperienza discografica precedente e avevamo bisogno di fare sentire tutto ciò che avevamo fatto fino a quel momento». In un certo senso, è come se loro stessi fossero dei drop-out del music business, insomma. Accanto a una serie di cantautori (Bruna, Manphredi, Violante Pretore, Celo) e a un’ala rap (De Almeida, Marsilio, Zen Kush, Vivi) c’è anche Picciotto, che continua a pubblicare le sue canzoni tramite questa nuova realtà. Il suo prossimo album, in uscita a breve, si intitolerà RAPporti, e sarà suddiviso in quattro capitoli. È già uscito il primo, costituito dai due singoli Bimbi e Miracoli, canzoni che legano il carcere e la vita nei quartieri.

«Parlo di diritti negati, infanzia, adolescenza», dice. «Ma soprattutto, racconto che la fortuna è una circostanza geografica: perché quello che ti capita, bello o brutto che sia, spesso è legato indissolubilmente al posto in cui nasci».

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