Ugo Borghetti s’è bevuto la vita e ora lo racconta | Rolling Stone Italia
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Ugo Borghetti s’è bevuto la vita e ora lo racconta

Storie di dipendenze messe alle spalle e di persone spezzate, lettere d’amore a una Roma che non vuole diventare una colonia americana, la Lovegang: il rapper racconta ‘Primo Soccorso’

Ugo Borghetti s’è bevuto la vita e ora lo racconta

Ugo Borghetti

Foto press

Primo Soccorso è il primo album da solista di Ugo Borghetti. Negli anni abbiamo conosciuto il rapper romano come un’apparizione ruvida e introspettiva in una lunga serie di collaborazioni e featuring, interni o esterni alla Lovegang, di cui era l’anima più cupa e delicatamente inquieta. Dall’ascolto di Primo Soccorso emerge un Borghetti non più mixato ad altri stili e registri, alla ricerca del Black Russian perfetto o del solito bombardino. Questo Borghetti, finalmente in purezza, non conferma solo la sua capacità di partire da premesse dolorose e intense, ma scopre anche la possibilità di risolverle o almeno di affrontarle, approdando a modalità espressive ed esiti narrativi che coprono una gamma vastissima di temi ed emozioni.

Ugo ha le radici ben piantate nella scrittura da hip hop classico, eppure oggi apre perfino a sonorità che sfumano nel pop, soprattutto coi featuring di S.O.F.I.A.; definendo così, attraverso un’estetica di forti contrasti, la prima rappresentazione compiuta dell’universo borghettiano, in cui quella che un tempo era solo la strada diventa sempre più una città, un sistema, una soluzione.

In Primo Soccorso trionfa dunque un rap che si riprende uno dei suoi grandi, storici privilegi: fare musica profondamente sbilanciata dal lato della parola, per brani che sono racconti che avrebbero potuto essere scritti anche solo a penna, ma che invece vengono stampati usando la tipografia del beat.

Ugo o Roberto?
Piacere, Bebo.

È un momento molto importante per la tua carriera e soprattutto per la tua vita. Hai deciso di sposare la tua vena espressiva più profonda e intimista e, al contempo, hai voluto abbandonare le sostanze. Che disco è Primo Soccorso, considerate queste premesse?
Stavo cominciando a notare che la mia musica veniva recepita dal pubblico in un modo diverso da quello con cui l’avrei spiegata io. La gente si preoccupa molto della moda di adesso, facendosene condizionare troppo. Ci sono dei filoni precisi per i testi, che spesso si riducono a quattro parole chiave ricorrenti che vengono incastrate tra loro e generano, per esempio, gran parte della trap. La musica invece dovrebbe essere completamente libera: una cosa tua, capace di esprimere tutti i tuoi possibili stati d’animo. In questo disco ho voluto provare a dire sempre le stesse cose, ma in modo diverso.

È molto probabile che i nuovi pezzi potranno sì soddisfare chi ti ha seguito dagli esordi, ma anche aiutare nuovi uditori a venirti incontro. Quando parli d’amore sai essere struggente e a tratti l’impressione è che davvero il vecchio Borghetti, lupo di branco, possa lasciare un po’ di spazio a un orsacchiottone di pezza incrostato di fango, più solitario ma da abbracciare, magari proprio da una di quelle radical princess – ne conosciamo personalmente qualcuna – pronte a considerarti il loro prossimo piacere proibito.
Cercavo di farlo da tempo (ride). Uno degli obiettivi del disco è arrivare a un pubblico più ampio, attraverso nuovi stimoli. E penso di averci provato mostrando a chi mi ascolterà Ugo, Bebo, chi sono veramente io, e non più solo quello che hanno sentito fino a ora.

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L’album prende le mosse proprio da ciò che ti definisce come individuo seppure all’interno di un gruppo saldo come la tua gang. E lo fa progressivamente, partendo dalla prima traccia, Ragazzi di strada, che è un manifesto programmatico, ma fatto a posteriori, di qualcosa che può essere programmato solo fino a un certo punto: la vita di un gruppo di amici e artisti che sono nati e hanno fatto i primi passi insieme ma che ora stanno conoscendo, ciascuno a modo suo, l’affermazione personale. Di questo processo ti sei ritagliato il ruolo dell’ideologo.
Io so che i guasconi della 126 ci saranno sempre per me. Sono i miei fratelli e li amo. So anche che fare musica per me equivarrà sempre ad avere loro dietro di me. Ma penso anche che, a un certo punto della nostra storia comune, sia giusto che le personalità emergano. Il rischio è che altrimenti alcuni di noi possano restare accodati agli altri. Ho deciso di aprire con questo pezzo perché era il più hip hop classico di tutti e poteva segnare il passo meglio di altri. Gianni (Bismark) ha fatto un lavoro straordinario col ritornello. Quando me lo ha mandato mi ha colpito molto il fatto che avesse colto perfettamente quello che volevo. E volevo una canzone malinconica, nostalgica di un senso della comitiva quasi antico, da primi anni 2000, che in parte si è perso. Con Gianni ci conosciamo da prima che cominciassimo a fare rap, anche se vorrei ricordare che lui rappava pure da bambino, sebbene non lo dicesse tanto in giro. Questo è il nostro primo pezzo ufficiale insieme.

Buio pesto è la traccia più dark e pessimistica perché vi descrivi le condizioni preesistenti all’arrivo del primo soccorso che dà il titolo all’album. Come sei arrivato a dover chiedere aiuto?
Hai presente quando ti senti qualcosa di rotto dentro? Quando la riascolto mi trasporto subito in una stanza buia con quella canzone sotto e l’animo spezzato. Ho cercato di fare una traccia che tenesse conto dello stile di Alessio (Lil Kvaneki), che è fortissimo con quel tipo di atmosfere anche perché i suoi racconti sono veritieri, ha davvero vissuto quelle situazioni.

Moonrock, titolo del terzo pezzo, è il nome tecnico di un raffinato format di cannabis. La parola ha un retrogusto ariostesco, da Astolfo sulla luna, di terra che diventa leggerissima e si parte. Che roba è?
Sì è un po’ la sensazione che ti dà la Moonrock quando te la fumi. È un tipo d’erba bagnata dentro al polline con varie altre peripezie sopra, anche piuttosto complicata da spiegare, super di nicchia. Quando la metti in una canna provi una sensazione di leggerezza incredibile. Il titolo naturalmente mi è venuto in mente proprio mentre me ne fumavo una. E da lì è partito il viaggio della traccia.

E dove ti ha portato questo viaggio?
Ma sai che Moonrock non ce l’ho bene in mente, ora come ora? Me lo metto in sottofondo. Ti posso dire la verità? È che mi ero ripromesso di non ascoltarlo più fino all’uscita.

Quando l’hai scritto?
Era febbraio 2021. La prima data prevista per uscire era il 29 maggio. Poi l’abbiamo spostata al 17 giugno, che è l’anniversario del terzo e ultimo scudetto della Roma. Alla fine abbiamo rimandato a oggi.

Roma è il pezzo più “figurativo” e contiene immagini molto nitide, come quella dell’abbraccio del traffico sul lungotevere. È come dire che il panino, anche del giorno prima, preso dal giusto kebabbaro, possa essere la bistecca alla fiorentina di Roma.
Vuoi sapere com’è nata? Poteva essere quasi un dissing, invece è una lettera d’amore. Stavo guardando Suburra ed era il momento della sigla, 7 vizi Capitale del Piotta col Muro del Canto. È una dedica a Roma veramente pesante, per certi versi inaccettabile. Ascoltandola, pensando al mio rapporto di amore e odio fortissimo con la mia città, mi sono ripromesso di scrivere anch’io la mia definizione di Roma, sperando di riuscire a fare emergere anche altri suoi lati più positivi, in mezzo agli evidenti mali di cui soffre.

Quali sono le coordinate geografiche della tua Roma?
Quand’ero ragazzino, fino alla prima elementare, stavo con mia madre a Torre Angela. Poi c’è stato San Saba. San Saba per certi versi somiglia a una piccolissima Trastevere semisconosciuta a chi non ci abita. Ha ancora i suoi vecchi che giocano a carte al bar, la signora che fa la spesa dal pizzicagnolo e gli chiede di segnarla sul suo conto: una fonte di vera romanità. Mentre ti parlo mi sono affacciato alla finestra e, nonostante pioviggini, vedo dei ragazzini che giocano a pallone.

Anche a San Saba hai un tuo bar San Calisto? (A Trastevere il San Calisto è stato da sempre il quartier generale di fatto della Lovegang, nda)
Mario! È l’alimentari che fa angolo con casa mia. Gli vorrei fare un po’ di pubblicità: se passate da San Saba, andateci. Ha i migliori affettati del mondo. Non scherza neanche la pizzeria che sta dall’altro lato, Angeli e Diavoli. In fin dei conti San Saba è una piazza, come stare a Rocca Priora: un paesino collinare nel centro di Roma. Sono forme di resistenza alle dinamiche che dominano gran parte del resto della città. È gente che non vuole darla vinta a quattro palazzinari o a chi va a lavare i soldi nei ristoranti. Sono orgoglioso di poter pagare un affitto più alto e di non abbandonare il centro. Se ce ne andassimo via tutti Roma diventerebbe una colonia americana.

Anche Mare è un ritratto urbano, solo che invece che essere fatto descrivendo direttamente la città, è dipinto per contrasto raccontando il suo mare. Che rapporto hai col mare di Roma?
Quando Roma diventa troppo, quando ne ho fin sopra i capelli, me ne vado spesso a Ostia, anche d’inverno. Per fortuna sono in fissa con la pesca. Il mare è una cosa personalissima, ognuno lo vive a modo suo. Roma ha tutto ed è tutto però può capitare, com’è capitato a me, che alcune esperienze, magari alcuni amori, uno li finisca per vivere durante una fuga dalla città. Questa canzone l’ho scritta il giorno in cui ho conosciuto la mia ragazza. È una dedica d’amore al mare e una dedica d’amore all’amore.

Primo Soccorso è un pezzo molto importante dal punto di vista autobiografico. Il video rappresenta il percorso che fai a piedi attraverso Trastevere verso Villa Maraini, una clinica di recupero per dipendenti da sostanze. L’ultima Peroni che bevi prima di entrare in clinica si trasforma simbolicamente in una specie di acqua santa, forse non purificatrice ma almeno in parte risolutrice.
Poco prima del Covid, nel 2019, ho deciso di smettere con l’eroina. A Villa Maraini ho ricevuto il primo soccorso rispetto al mio male più grande. Gli amici, questo disco, la stessa pandemia mi hanno aiutato tantissimo a staccarmi dalla vita che facevo. Oggi sono in piena fase due.

A cosa si riferisce il titolo di 100, che è un ardente canto di amicizia?
Sul finire del ritornello Lele Barrabravas canta “100 sostanze per farla finita”. Io ho pensato che “100 sostanze”, come titolo, fosse troppo, e allora ho tenuto solo 100. Ci tengo veramente un botto a questa canzone, che è anche un omaggio a Lele e un ricordo delle prime strofe che rappò nella mia stanza tanti anni fa.

Santoddio è arricchito dal featuring di S.O.F.I.A. Che artista è lei, che ha una presenza così importante sia qui che in Roma? Che dinamica avete voluto mettere in campo?
Anche lei era nelle comitive del San Calisto. È una grandissima amica e ci conosciamo da una vita. Ha sempre suonato e aveva un suo progetto in inglese. Le ho chiesto di accannarlo e di cantare in italiano. Per Roma e Santoddio mi serviva una voce molto femminile e romana, quasi da novella Gabriella Ferri. Le ho mandato il testo e in due ore avevo già tutto pronto.

La vostra dialettica può ricordare, anche se in chiave chiaramente meno glamour e più schietta, quella tra Carl Brave ed Elodie in un duetto come Parli parli.
È un collegamento interessante perché Elodie, che adesso è molto lanciata in una dimensione diversa, per quanto mi riguarda potrebbe anche cantare solo stornelli e sarebbe comunque una grande.

Vitagrama chiude l’album e introduce il tema pandemico: “La paranoia di non poter più uscire da questa cazzo di stanza”. Nel resto delle tracce non esiste la dimensione domestica di tanti lavori musicali che sono usciti in questo periodo. Tu sei comunque sempre per strada, tranne in questo pezzo. Perché?
Anche se ascoltando l’album non sembra, ultimamente sto uscendo davvero poco. Ho dovuto passare quasi due anni chiuso dentro casa. Se avessi anche scritto di situazioni dentro casa sarei andato fuori di capoccia.

E allora giù coi ricordi e su con l’immaginazione. Qual è la tua più grande paura?
Diventare uno dei tanti e, per questo, poter essere copiato.

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